Alfabeta - anno X - n. 109 - giugno 1988

Alfabl!ta 109 fondatezza, annuncia un programma di formalizzazione. Più che una proposta articolata, il conservatorismo è un insieme di regole procedurali che filtra la credibilità del nuovo: al progressista incombe il compito di formulare non solo il perché ma anche il che cosa del novum, e di restaurare il primato dei contenuti di una società nella quale non è talvolta uno sfavorevole rapporto di forza, ma lo stesso carattere infinitamente manipolabile e perciò sfuggente della realtà ad ostacolare il mutamento. C'è probabilmente un solo settore della coscienza moderna in grado di sfuggire a questo dispositivo, ed è il godimento estetico: il tautologico «mi piace perché mi piace» è una di quelle proposizioni che tagliano corto con l'obbligo della credibilità discorsiva e che in fondo interrompono il flusso dialogico. Non sono poche, infatti, le tappe della coscienza estetica moderna che entrano a pieno titolo nell'evoluzione della cultura politica europea. Stando così le cose, era comunque inevitabile che della procedura designata dall'onere della prova si appropriasse Kant nell'analisi dei paralogismi della ragion pura. Gran parte della metaforica che gravita attorno al «tribunale della ragione» si struttura per argomentazioni e contro-argomentazioni (motivi e contro-motivi, si legge talvolta in un linguaggio allora ispirato ancora alla fisica). Dell'intollerabile squilibrio di potere argomentativo tra conservatori e progressisti Kant si avvide in una zona molto lontana da quella della ragion teoretica. L'originalità del suo caso mostra quanto sia dispersivo affastellare genealogie di autori «progressisti». Era nel torto Horkheimer quando, riflettendo all'inizio degli anni quaranta su ragione e autoconservazione, non coglieva soluzioni di continuità tra il quadro dell'età cartesiana e Kant (M. Horkheimer, 1978). La mossa di Kant fu semplice e tagliente: non sono i progressisti a dover dimostrare che il mondo deve e può andare verso il meglio, ma sono i negatori del progresso a dover dimostrare che il miglioramento è impossibile e infattibile. Il referente polemico di Kant è propriamente la stagnazione, non il regresso. Se si dovessero inanellare dimostrazioni empiriche della migliorabilità del corso storico, i conservatori avrebbero partita vinta: la storia non dispone di forze endogene che premano verso il progresso. Occorre perciò evocare un soggetto non empirico che si riconosca nei destini del genere umano e che così accantoni il calcolo utilitaristico dettato dalla brevità dell'aspettativa individuale di vita (I. Kant, 1965). C'è un punto oltre il quale cessa la logorante adduzione delle prove dell'esistenza di Dio. Non si dice neanche più: è moralmente certo che Dio esiste. Si dice solo: io sono moralmente certo che Dio esiste. La rinuncia alla certezza logica dell'argomentazione non sacrifica nulla della soggettività: semmai, la libera e la potenzia. Indecidibile la disputa sull'esistenza di Dio, indecidibile la disputa sul progresso. A meno che ... «La vita non è un argomento», obiettava Nietzsche a chi pretendeva di incapsulare l'essenza suprema del tempo, la vita, nelle pastoie del circolo verità-errore. Ma in Kant la strategia non potrebbe essere di stampo vitalistico. È accaduto invece che Kant abbia pututo replicare al pensiero dell'identità con il pensiero dell'origine. Lo «spettatore disinteressato», capace di sormontare le proprie remore egoistiche per aprirsi al destino delle generazioni future e con esso al progresso, non si arrende all'identità di ciò che è. La sua decisione di orientarsi al futuro si alimenta della sua capacità di non avere alcun patrimonio passato da salvaguardare. Il passato appartiene senza residui al soggetto trascendentale: ecco perché gli appartiene anche il futuro. B isogna aggiungere che Kant era pienamente consapevole di aver compiuto un salto, come dimostra il rifiuto sprezzante, e a suo modo grintosamente irrazionalistico, del terreno di discussione imposto dai conservatori. Nella sua formulazione meno improvvisata, e tutto sommato anche meno mimetica e meno apologetica dell'ascesa della civiltà borghese, una delle più potenti idee della modernità, il progresso, nasce da un atto di autocensura della ragione. È un dovere agire sulla discendenza futura, ed è un dovere che fonda un potere. Ma quel dovere, come sempre in Kant, è nella sua essenza imperscrutabile. Il progresso è una speranza, nel senso quasi mai colloquiale che Kant dava a questo termine. Concedere a Kant - come sembra tentata di fare Hannah Arendt (H. Arendt, 1982) e chi ne accoglie, in Italia, il magistero filosofico e politico - che la nozione di «spettatore disinteressato» emerga al culmine di una riflessione senza scarti intemi, senza momenti di oscurità e senza bruschi cambiamenti di registro, equivale a concedergli più di quanto egli avrebbe voluto che gli fosse concesso. Non è reperibile, in Kant, una teoria del contratto sociale: laddove essa si affaccia, appartiene a una fase immatura di pensiero ed è una versione indebolita della classica stagione seicentesca del contrattualismo. Esiste invece una densa teoria del contratto originario, pensata come strumento di riappropriazio11e del futuro. L'origine razionale e non temporale del contratto cancella nel futuro le orme del pàssato presente: dove «passato» è il sostantivo e <<presente»è l'aggettivo. Non è invece praticabile un'appropriazione del futuro per somma cumulativa di istanze progressive o di miglioramento. La rivincita fattuale - non quella meramente culturale o pubblicistica - del conservatorismo si è iniziata quando lo Saggi sviluppo sociale dei paesi avanzati ha sottratto la logica dell'identità alle conventicole filosofiche e l'ha trasportata nelle cose stesse. La logica dell'identità si è incarnata in blocchi istituzionali che hanno proclamato il «congedo dal fondamento» o dall'originario (O. Marquard, 1981). Non esistono istituzioni che chiedono di lacerare il velo di opacità che le ricopre: esistono solo istituzioni che chiedono lealtà. Il vecchio programma critico e (in <sensolato) criticistico, che tendeva al recupero di un processo genetico in funzione dello smascheramento del dato presente, ha perduto forza d'urto: i canali istituzionali che regolano la convivenza sociale odierna accettano serenamente il loro statuto di «contingenza divenuta necessaria». Essi pretendQJio solo di essere insostituibili in quanto pilastri della vita associata. Il segreto della riproduzione sociale non appartiene oggi, è stato detto, all'arché, ma alla ipolessi: alla possibilità di agganciarsi a qualcosa, di muoversi «in continuazione In alto: Marce/ Duchamp e Lydia Levassor-Sarrazin il giorno del loro matrimonio, Parigi, 8 giugno 1927 In basso: Rrose Sélavy fotografato da Man Ray, 1921 con ... » e «a ridosso di... ». Gli uomini sono esseri viventi che «citano» inevitabilmente, che dispongono di testi-base di riferimento. Ciò che aHa fine del Settecento poteva apparire liberatorio, che cioè l'esperienza non avesse nulla da insegnare all'aspettativa, sarebbe oggi foriero di disorientamento. Il rapporto tra tradizione e progresso non può essere pensato sul metro di una lotta per l'occupazione di un medesimo territorio: la fascia di volta in volta ceduta dalla tradizione erosa viene incamerata dal progresso.Questo rapporto dev'essere pensato invece come abbinamento dello smarrimento della tradizione e della crisi del progresso (H. Liibbe, 1978), cioè come congiunzione di due crisi. La velocità del mutamento sociale brucia e condanna rapidamente alla vecchiezza ciò che fino a ieri è stato progressivo. Ma ciò che i fattori classici del progresso non avevano motivo di tematizzare, cioè la messa a repentaglio dell'identità dei soggetti coinvolti, ha oggi un'urgenza diversa. Quando la dissoluzione delle tradizioni si verifica all'interno non di ----- --- _.,. ____ p'agina 31 un progetto, ma di un processo spontaneo, nuove tradizioni si costituiscono al di fuori dei vincoli di una razionalità collettiva. Vince chiunque, o qualunque cosa, abbia il potere di inventare e di instaurare qualcosa di almeno relativamente duraturo. La ricetta conservatrice è su questo punto chiarissima: al cospetto di questa soglia mobile di consuetudini ritrovate, vale la pena affidarsi ad una «dietetica dell'aspettativa di senso» (O. Marquard, 1986). La dieta, nella sua valenza originaria di modus vivendi (non priva di allusioni all'autogoverno e forse al governo tout court, cioè appunto al regime dietetico), consiste nell'attingere il senso non più mediatamente, per il ·tramite di routines istituzionalizzate e· di convenzioni pragmatiche. La perdita del senso è correlativa all'eccedenza della pretesa di senso. Una volta decimate le aspettative di senso, cessa anche lo stato di crisi permanente determinato dalla loro inappagabilità. Ma i conservatQri non dicono da che cosa scaturisce la pleonessia della domanda di senso, e sarebbe ben strano che essa nascesse, con un circolo vizioso, dall'inottemperanza ad una dieta elementare e benefica. C'è una sorta di insubordinazione primigenia alle prescrizioni dietetiche, o non piuttosto un meccanismo perverso di ingigantimento della domanda di senso? Le questioni prognostiche ci interessano relativamente poco. Fermiamoci alla diagnosi. Alla difficoltà di spezzare le zavorre continuistiche della vita sociale corrisponde il fatto che il principio di autoconservazione si è presentato in uno scenario completamente diverso da quello con il quale si cimenta Kant. Esso non ha più un'estensione a tappeto: è ormai la risultante insulare di un processo di trasformazione che lascia come suoi depositi, o come sue isole galleggianti, alcune tradizioni. Le istituzioni vigenti hanno ridotto al minimo la loro richiesta di lealtà. La loro presenza nella vita individuale è complessivamente discreta, e non possono valere come smentita forme di patologia disorganizzativa o di elefantiasi burocratica o di esuberante paternalismo dello Stato sociale. Ciò che oggi ci appare come un pullulare frenetico di divieti, interdizioni, regolamenti, con il loro corredo naturale di trasgressioni consentite, di legespermissivae e di eccezioni contemplate, è un tentativo di controllare l'emergenza del nuovo, ma non risponde simmetricamente allo scheletro del rapporto tra cittadini e istituzioni. Nella sua intelaiatura di fondo, il rapporto tra cittadini e istituzioni non è segnato da una particolare grevità: è anzi infinitamente più leggero che in passato. Tutto ciò può significare che la forza sottile di cui dispone il conservatorismo è nel suo essersi ritirato su uno stile non protervo, non ossessivo e tuttavia non banalmente periferico. L'autoconservazione è ormai poco più di una cornice o di una situazione «di sfondo», però solidissima. Tutto il resto è, se non progresso, almeno innovazione. Chi, come Weber, visse in un'epoca che aveva ormai consumato molte illusioni illuministiche, ebbe a nutrire una diffidenza insopprimibile per la categoria di progresso - inafferrabile, a suo parere - ma una sensibilità molto vigile per l'innovazione; ad essa ispirò, contro la macchina burocratica, la sua tipologia dei carismi, su di essa modellò perfino la sua interpretazione della funzione anti-conservatrice dei profeti nelle situazioni di stallo della coscienza religiosa. Il conservatorismo non va perciò valutato sul metro empirico di costellazioni mutevoli e sfuggenti. Una sinistra che abbia smaltito l'eredità ideologicamente meno nobile del primato del «pubblico» può guardare con interesse a ipotesi di parziale smantellamento dello Stato sociale, stanti le distorsioni e le aberrazioni cui esso ha dato luogo. Una sinistra di diverso orientamento può replicare che non si smantella qualcosa che non ha mai funzionato e che è comunque in possesso di un titolo, la protezione dei più deboli, assiologicamente insormontabile. Il rimbalzo di reciproche accuse di passatismo potrebbe andare all'infinito, sul modello del dibattimento giudiziario kantiano. Gli esempi di precoce o anche di lenta obsolescenza di posizioni già inequivocabilmente progressiste potrebbero essere facilmente moltiplicati, a partire dal venir meno della solidarietà tra l'attuale proporzionalismo puro e la lotta democratica degli anni cinquanta contro la legge-truffa. Un dibattito così impostato rischia di risolversi in una fenomenologia del contributo che lo schieramento sociale della sinistra, con le sue conquiste e i suoi avanzamenti, ha fornito allo stabilizzarsi di un nuovo ordine e al determinarsi di un conseguente, nuovo disordine a densità conflittuale molto più bassa. S i può obiettare: se le istanze conservatrici si addensano in luoghi così macro-istituzionali, e a conti fatti così poco pregiudizievoli per interventi politici a breve e medio termine, il conservatorismo non è poi una minaccia così incombente. Temo però che il discorso debba dotarsi di un altro anello. Il tono dimesso con il quale opera oggi il principio di autoconservazione, a fronte dei caleidoscopici mutamenti di ogni giorno, dipende in ultima istanza dalla maturazione di condizioni storiche entro le quali quei mutamenti possono essere destituiti di senso. Non che essi non abbiano effetti immediati tangibili: ciò che non hanno è la capacità di arrestare la spirale delle aspettative. La quale dipende però non dalla sprovvedutezza di ceti politici arruffoni o dai guasti del sistema amministrativo, ma dall'alleanza di grande respiro che si è realizzata tra velocità della trasformazione e stabilità del quadro istituzionale.

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