pagina 30 Saggi Alfabeto 109 nservatorismo P iù che reazioni pertinenti, i processi di assestamento delle società occidentali, con la loro capacità di spegnere numerosi focolai di tensione sociale e di addomesticare molte istanze di rinnovamento, continuano a produrre sconcerto e stupore nei settori politici e sociali non sospettabili di moderatismo. Pur affacciandosi qua e là in sordina, l'esigenza di una delimitazione della nozione di conservatorismo stenta ad imporsi all'ordine del giorno. Neanche il lessico politico più diffuso e meno specialistico identifica ormai «conservatori» e «reazionari». Nella nozione di conservatorismo continua tuttavia a preponderare un alone emotivo, pre-scientifico e, nel senso tecnico del termine, polemico e controversiale: il concetto viene usato, per lo più, nel fuoco di una controversia, per individuare o discriminare chi si rende colpevole di immobilismo e offre resistenze a trasformazioni attuali o potenziali. Connaturata al termine è una sfumatura censoria che non è reversibile: il progressismo in quanto marchio di infamia appartiene per ora solo a esotici circoli intellettuali. Inconfondibile e sanguigno è il frequente ricorso di Habermas ad un uso polemico del termine nei confronti di alcuni protagonisti (variabili, per la verità: a testimonianza del fatto che l'accusa di conservatorismo può indirizzarsi ai più svariati destinatari) della cultura politica filosofica tedesca e americana (J. Habermas, 1985). Questa linea di riflessione, ripresa anche da qualche allievo di Habermas (H. Dubiel, 1985), può essere qui lasciata da parte. I suoi contenuti, intanto, non sono facilmente esportabili, come difficilmente generalizzabile è il riaccendersi di un interesse per il Preussentum. In secondo luogo, sia detto senza malizia, la pietra di paragone dell'efficacia e della tenuta degli ultimi pronunciamenti politici e militanti di Habermas dovrebbe esser data dal successo del suo impegno scientifico recente di maggior peso, la Teoria dell'agire comunicativo. Ora, non esiterei a definire l'impatto di quest'opera sui suoi interlocutori naturali malinconicamente inferiore, sia in Germania che in Italia, alle aspettative e alle ambizioni dell'autore. Il tempo potrà correggere questa impressione. Ciò che invece difficilmente potrà essere emendato è il vizio culturalistico e illuministico che inficia questa forma di tematizzazione del conservatorismo: lo schema di imputazione rimane quello della trahison des clercs o della colpevole complicità degli intellettuali. Questo approccio si sposa magnificamente con le periodiche reprimende italiane sulle vittime del fascino della cultura neoconservatrice: come se la perversa volontà di un manipolo di sbandati della conoscenza a caccia di stravaganze editoriali potesse rendersi responsabile di tendenze conservatrici di massa. Dietro tutto ciò continua ad operare un fossile mentale più coriaceo del previsto: quello di una sinistra che ha ricevuto in dotazione dalla storia il monopolio dell'intelligenza della realtà. Ammorbidito e più o meno plausibilmente riproposto, questo mito rinverdisce di tanto in tanto le anticaglie del •proletariato come erede della filosofia classica tedesca, cioè la presunzione di una universalità immanente destinata prima o poi a rilevare e a superare la pochezza particolaristica e miope dell'apologia dell'esistente. Del resto, lo scenario non appare migliore quand'anche ci si limiti ad un mosaico strettamente culturale. Si rende quotidianamente omaggio al pensiero conservatore, lo si vezzeggia e lo si saccheggia, ma con la riserva mentale che prima o poi esso mostrerà la corda, un punto debole a partire dal quale i suoi esiti saranno rovesciabili come un guanto e possibili di una riappropriazione non contagiosa dal versante opposto. Le solite imprese miracolistiche della dialettica, più o meno. Si concede facilmente, con una gergalità cavalleresca o curiale, che il fronte culturale conservatore è forte e agguerrito. Ma non si dice anche che esso è spesso maggioritario. In sede di progettazione di possibili ricerche, semmai, una prima sperequazione della quale occorre prendere atto è questa: la famiglia concettuale alla quale appartiene il conservatorismo ha sollecitato - se in essa si includono anche i concetti antitetici - molte indagini raffinate, al punto che di rivoluzione, riforma, progresso, reazione, restaurazione, controrivoluzione si parla oggi con una consapevolezza critica e storica incomparabilmente più ampia di quella di un recente passato. Non sembra si possa dire altrettanto per la sfera concettuale della conservazione. Sarebbe disagevole isolare il conservatorismo dalla polarità che esso costituisce abbinandosi al concetto di progresso. Niklas Luhmann ha proposto di interpretare l'avvento del binomio conservatore/progressista come l'effetto del passaggio da uno schematismo sociale ad uno schematismo temporale. Nel primo caso a dominare il campo è ancora la coppia amico/nemico, che ha però il torto di alimentarsi di combinazioni eccessivamente concrete e vincolanti: sia gli amici che i nemici sono per definizione sottratti all'anoniBruno Accorino mato e immediatamente riconoscibili. Questa anelasticità viene bensl attenuata o superata, nell'universo politico odierno, dalla mutevolezza tattica degli amici e dei nemici, ma lascia sussistere un rischio troppo alto per l'identità politica. L'imporsi di uno schematismo temporale ha anzitutto le fattezze della neutralizzazione: il tempo è incolore, è disponibile ad esprimere sia la continuità della conservazione che la discontinuità della innovazione (N. Luhmann, 1982). Conservazione e progresso si fronteggiano solo in un passaggio moderno: Luhmann si rende parzialmente tributario ' ............ arw.......,....... . . . ........ 7 ,::Jw.~---, ~ llc>BINll'QUI S'AIIUl'll 1>1100111aQUAN)CJ!l!'.,_L'li00Ud.~ EXHIBITION • MAN RAY APRIL • 1945 JULIEN LEVYGALLERY• 42 EAST 57 N.Y. • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • In alto: Renvoi miroirique (Rinvio speculare), 1964 In basso: Copertina del catalogo della mostra di Man Ray aprile /945 di una lettura storica della modernità governata dalla nascita e dalla diffusioRoedei «singolari collettivi». Dalla libertà all'eguaglianza al progresso, le parole d'ordine che segnano la modernità sono tanto più sature di tempo, quanto più sono insature di contenuti: strutturandosi come singolari collettivi, esse non hanno più il compito primario di alludere a processi determinati e puntuali, ma quello di racchiudere aspettative rivolte al futuro o forme di comparazione con un passato da rinnegare. La povertà del loro ancoraggio materiale le rende quindi «occupabili» a piacimento, quasi fossero stazioni vuote del pensiero e dell'ideologia. Uno stadio di autonomizzazione piena dai contenuti sarebbe quello in cui conservazione e progresso entrassero in rotta di collisione come contenitori indeterminati di temporalità: nostalgia indefinita del passato da un lato e invocazione nebulosa di un futuro diverso dall'altro. Una cesura decisiva può essere colta già in fase antecedente a quella, settecentesca, che vede stagliarsi il progresso: una fase nella quale assume contorni definiti il principio di autoconservazione.È un dato largamente acquisito che questo principio abbia avuto in prima istanza valenze fortemente liberatrici. Esso è l'unico impulso soggettivo, è stato detto, che si sottragga ad ogni teleologia antropologica. L'autoconservazione non ha una fine, ed è il predecessore in ambito psicologico della vis inertiae di Newton, che emancipò definitivamente la fisica dalla teleologia aristotelica dei luoghi naturali (D. Henrich, 1978).Per ragioni che non si lasciano neanche sommariamente elencare, e a seguito di un scontro frontale con la teologia della creatio continua, il principio di autoconservazione è al tempo stesso promotore e complice della pienezza della soggettività. Q nesto patrimonio positivo e «laico» si appesantisce in un solo punto, che è però cruciale. Quando il principio di autoconservazione acquista un alto gr-adodi astrazione, collocandosi al di là della sua tradizione fisico-organica e del suo ambito etico-politico di applicabilità, quando cioè un principio veramente universale, esso vale come sbarramento dell'onere della prova: fornisce la regola di ciò di cui può essere chiesta una giustificazione. Ciò che ha bisogno di essere indagato e interrogato non è più ciò che esiste, ma il mutamento di un qualsiasi stato o di un qualsiasi oggetto (H. Blumemberg, 1976). L'onere della prova spetta a chi vuole cambiare. È costretto a inanellare giustificazioni e motivazioni - «fondazioni», appunto - chi propone di alterare l'esistente. Quando non si cerca più la ragion sufficiente per cui qualcosa è invece che non essere, ma solo per .cuiqualcosa che è cessa di essere, l'autoconservazione diventa un criterio che esclude domande relative alla ragion sufficiente di qualcosa di già dato ed esistente, e che corrispondentemente «apre» prudentemente a domande relative alla trasformazione delle condizioni date. Si vede a occhio nudo che la teoria marxiana della contraddizione è stato un tentativo epistemologicamente forte di scansare questo profilo dell'alternativa inerzia-trasformazione: o meglio, di affidare il mutamento ad un processo immanente di «autocritica della società borghese» (che è anche, a ben vedere, una brillante soluzione letteraria). Non ha tutti i torti chi propone di escludere Marx dal novero dei «progressisti»: nel suo aspetto assiologico, comunque correlato ad una presa di posizione, questa semantica gli fu profondamente estranea. Si vede a occhio altrettanto nudo, che quella teoria della contraddizione nel momento in cui rendeva superflua un'opzione volontaristica o ideologica, si inviluppava in difficoltà forse irresolubili. L'onere della prova è una figura di incalcolabile rilevanza la cui avanzata espressione giuridico-penale moderna (si è innocenti fino a prova contraria) dà un quadro limitativo della sua vigenza e delle strategie di schivamento che la sua vigenza mette in moto. Se essa non fosse largamente esautorata nella vita civile, crollerebbero molte delle nostre possibilità di ricorrere a «esperienze di seconda mano» e molti dei nostri automatismi esistenziali: crollerebbero tutti quei passaggi fiduciari e fideistici (compreso l'acquisto di una scatola di tonno o di un pacchetto di sigarette di cui non sia stato previamente esaminato il contenuto) che dispensano la vita dalla necessità di attingere in ogni momento a verità empiriche. Salterebbero tutti i margini creditizi che concediamo a cose non verificabili con strumento dell'esperienza primaria. Nel nostro caso, la funzione dell'onere della prova è ricostruibile all'interno della teoria dell'argomentazione, sul modello della disputa scolastica o anche della semplice interlocuzione dialogica. Il potere coattivo di questa strettoia logica è evidente: esso seleziona non solo le risposte, vincolate al filtro dell'adduzione di prove, ma anche le domande. Si determina una trama di aspettative e di regole del gioco per cui non solo chi accetta di proseguire il dialogo è incatenato ad una serie di passaggi dimostrativamente efficaci e persuasivi, ma già chi lo avvia traccia il recinto di plausibilità entro il quale può svolgersi il dialogo. Reazioni dialogiche apertamente implausibili o inafferenti si condannano da sole. Il progressista non solo deve giustificare la sua ansia di cambiamento, ma deve farlo avendo già subito una decurtazione della sua fantasia innovativa: il conservatore lascia bensì qualche spiraglio, ma solo ad un mutamento che abbia possibilità di essere suffragato dall'ostensione della sua bontà e della sua auspicabilità. La fascia di ragionevolezza del mutamento è naturalmente predeterminata rispetto al dialogo. La capacità del conservatore di maneggiare a proprio esclusivo favore un'arma come l'onere della prova, della quale neppure il suo antagonista può disconoscere la
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