Alfabeta 109 gli uni e le altre a doversi comprendere: «l'uomo per trovare una parte di sé» che ha sovrapposto all'immagine femminile connotata maternamente ma di cui deve disfarsi, ogni volta, per poter camminare nel mondo; la donna, invece, «per trovarci tutta se stessa» per poter vivere attraverso l'esistenza dell'altro che alimenta «come fosse la propria, il suo doppio, la sua creatura». Per questo «la comprensione non può essere che sogno, la realtà lacerazione e sordità reciproca» (p. 95). Ora, svegliarsi da questo sogno può voler dire per la donna approdare a una «libertà mestissima», perché se «è intollerabile diventare in tutto simili agli uomini», «è altrettanto doloroso camminare sole, con quella libertà e autonomia tanto cercate nella lontananza, e così 'tragiche' quando si avvicinano» (p. 122). Ma forse questa «mestissima libertà» è la condizione indispensabile per il recupero di sé e perché possa darsi in autonomia interiore il difficile equilibrio tra separazione e ricongiungimento e con esso anche un nuovo insediamento nel terreno della parola. Lea Melandri Come nasce il sogno d'amore Il gelo, l'estasi, la mestissima libertà Milano, Rizzoli, 1988 pp. 180, lire 20.000 Dopo Schmitt Alessandro Dal Lago L a cosiddetta filosofia politica «continentale» - così definita in opposizione alla tradizione anglo-americana di studi filosofico-politici - ha trovato apparentemente la fine nella crisi di Weimar. Con Max Weber e Carl Schmitt, il democratico pessimista e il decisionista per disperazione, la crisi nichilistica della filosofia politica si è confusa con il crollo delle istituzioni democratiche europee. Dopo la seconda guerra mondiale, lo spazio per una filosofia capace di interrogarsi radicalmente sul senso dell'agire politico, sul fondamento e la possibilità dell'azione, sembrava essere scomparso, o tutt'al più ridotto alla mera storia delle idee e al commento dei testi canonici (Hobbes, Rousseau, Kant, Hegel...). D'altra parte, lo studio della politica era riservato a saperi supposti neutrali, come la sociologia e la scienza della politica, in cui il carattere empirista del metodo si accorda con tendenze più o meno latenti all'ingegneria politica e sociale. Ma, appunto, la fine era solo apparente. Tra gli studiosi tedeschi o di lingua tedesca emigrati in America dopo il 1933 emergevano infatti, soprattutto nel secondo dopoguerra, alcuni pensatori che rivendicavano il ruolo autonomo e fondativo della «nuova scienza politica» (Eric Voegelin), della «teoria politica» (Hannah Arendt), della «filosofia politica» (Leo Strauss). Si tratta di autori poco conosciuti o misconosciuti in Italia, ma che negli ultimi tempi sono divenuti oggetto di un dibattito sempre più vivace. Anche se si deve lamentare lo stato frammentario delle traduzioni (mancano all'appello diversi volumi del fondamentale Orde, and History di Voegelin, e sono introvabili le vecchie edizioni italiane di Vita activa di Hannah Arendt, e di Diritto naturale e storia di Leo Strauss), è necessario ricordare alcune ·iniziative felici, tra cui i convegni sulla filosofia arendtiana e sulla polis, organizzati a Napoli nel settembre 1985e nel maggio 1987 presso l'Istituto italiano per gli studi filosofici e presso l'Istituto universitario «Suor Orsola Benincasa». A ciò si aggiungono i numerosi interventi pubblicati in questi ultimi anni da riviste come «Il Mulino», «Filosofia politica», «Il centauro» e anche «Alfa beta». Una tappa importante di tale ricezione (oggi estesa anche alla Francia) è ora costituita da un volume collettivo, che raccoglie contributi originali sui tre autori, e che tenta soprattutto di rileggerli in una prospettiva unitaria. Il libro non è una raccolta estemporanea di saggi, ma trova il suo senso nella ricostruzione della dimensione unitaria in cui i tre autori si pongono ( o vogliono porsi) oltre la crisi della filosofia politica tradizionale. Una dimensione che è qualificata, a giudicare dal saggio introduttivo di Duso, da alcuni punti decisivi: la critica radicale del moderno come perversione della «comunità politica eccellenCfr sumono Hannah Arendt e Leo Strauss. Questa scelta per così dire pratica non sembra occasionale: infatti in Voegelin, diversamente da Strauss e soprattutto da Arendt, il tema della «ricerca dell'ordine politico» è preminente. E a sua volta la ricerca muove da un assunto ontologicamente forte; come afferma lo stesso Voegelin nella prefazione a una sua nota raccolta di saggi (Anamnesi. Teoria della storia e della politica, Giuffré, Milano, 1972), «I problemi dell'ordine umano nella società e nella storia scaturiscono dall'ordine della coscienza. La filosofia della coscienza è dunque il nucleo essenziale della filosofia politica.». I Poiché, inoltre, l'ordine della coscienza scaturisce per Voegelin da una comprensione dell'«origine dell'essere», la filosofia politica di Voegelin assume le cadenze di una ontologia dell'ordine politico. Benché, come nota Duso, l'ordine della coscienza sia sempre trascendente rispetto a quello della politica - e quindi Voegelin non corra il rischio di sublimare l'effettualità del politico - questa concezione appare supremamente inattuale nei confronti del pensiero del Nota del pensiero ebraico nel nostro secolo (da Rosenzweig a Lévinas), la filosofia di Strauss - con la sua insistenza sul giusto come apertura e trascendenza fondativa del politico - si colloca in dimensione inevitabilmente meta-politica. In ciò affine a Voegelin, Strauss finisce per trascendere la politica, per collocarsi in una dimensione etica. La sua opposWone all'ontologia bellica di Schmitt risulta così speculare a quest'ultimo. Mentre, in Schmitt, il riconoscimento dell'inimicizia fondativa tra gli uomini conduce alla guerra e alla decisione, in Strauss la lotta per la vita e per la morte è la condizione della preminenza del giusto. In entrambi, comunque, la politica si configura come trascendenza di una malvagità inerente alla condizione umana. Un'esperienza squisitamente moderna sovrasta le riflessioni di Voegelin e di Strauss (oltre che di Schmitt), ed è il nichilismo espresso_ dall'asse Nietzsche-Weber (e Heidegger, potremmo aggiungere). In termini filosofico-politici, quest<1n>ichilismo esprime il crollo della rappresentazione. Ciò si manifesta su piani diversi ma"coerenPerché non starnutire Rose Sélavy?, 1921-1964 te» dei greci, e quindi il ritorno controfattuale alla filosofia della polis ( o meglio alla sua Aufhebung in Platone e Aristotele); la contrapposizione alla linea Hobbes-Schmitt come asse principale di tale perversione; l'individuazione nello storicismo di fine secolo e nello scetticismo del nichilismo moderno; inoltre, la riaffermazione della struttura aperta, trascendente, della nuova filosofia politica rispetto a ogni modellistica, o a ogni ipostasi scientifica o scientistica. Questi punti definiscono, come recita il sottotitolo del libro, la . pratica del pensiero attuale della politica; da una parte, riassumono lo scarto rispetto agli esiti del moderno (come è espresso nei temi voegeliniani e straussiani di una restaurazione della scienza politica e di un ritorno ai greci) e, dall'altra la trascendenza del pensiero rispetto alle forme assunte concretamente dalla politica nel mondo contemporaneo. Si deve notare che la figura centrale in questo doppio movimento è costituita da Voegelin (a cui sono dedicati quattro saggi su sette) mentre un rilievo più sfumato asvecento, in cui - almeno dopo Nietzsche - le possibilità di una restaurazione ontologica della filosofia sono assai problematiche. Il privilegiamento di Voegel assume così, esplicitamente o implicitamente, il significato della ricostruzione di una filosofia integrale della politica - in cui ordine della coscienza e ordine della storia, pur restando logicamente separate, si coordinano. Evidentemente, questo grandioso progetto trova nel nichilismo della nostra epoca il banco di prova e l'ostacolo principale. Considerazioni analoghe valgono anche nel caso di Leo Strauss. Indipendentemente dalla sua concezione ermeneutica o dal suo rapporto con l'ebraismo (che ne fanno un pensatore di estrema attualità, e comunque non riducibile alla «teoria politica»), i fondamenti pfatoìi.icrdefsuo pensiero - ii ruolo del filosofo politico analogo a quello del legislatore - filosofo di Platone, il nucleo etico fondante il <!iscorsopolitico, il teismo razionalistico - incorrono in un analogo sospetto di inattualità. Proprio perché affine, con tutte le necessarie distinzioni, alla grande rinasciti: dalla morte di Dio in Nietzsche, al disincantamento in Weber e al ritrarsi dell'essere in Heidegger, la filosofia prende atto di una cesura irrevocabile tra religioso e mondo umano. Nessuna filosofia, e tantomeno politica, può rappresentare la divinità, nella misura in cui la voce di Dio è inudibile o inevitabilmente falsata dalla teologia o dagli uomini. È questo l'aspetto gnostico del nichilismo, contro cui - a diverso titolo e con diversi obiettivi - si battono Voegelin e Strauss (e Schmitt). Ma è dubbio che la loro critica sia convincente e definitiva. Il loro antistoricismo, espresso nella comune e sintomatica critica a Weber, si trasforma, su questo punto, in rifiuto della storia e dell'epoca. Solo considerando il nichilismo moderno come un gigantesco scarto rispetto all'epoca classica, si può considerare il crollo della rappresentazione come un mero sintomo negativo, e non come una condizione inevitabilè di ogni pensiero del politico. In questo senso, il teismo di Strauss e la filosofia della coscienza di Voegelin corrono, a mio avviso, il rischio di costituire meri sistemi di principio eretti contro pagina 29 una effettualità del politico perversa. quanto si vuole, ma supremamente indifferente alle esigenze platoniche dei filosofi della politica. Dei tre autori discussi nel libro, solo Hannah Arendt sfugge forse a questo rischio. Nella Arendt, in primo luogo, la riflessione filosofico-politica non muove né dalla trascendenza del giusto, né dal comando divino, né dalla extra-temporalità della giust~a platonica, ma dalla concreta esistenza dei soggetti plurali politicamente operanti. Ciò che la distingue radicalmente da Strauss e da yoegelin, in secondo luogo, è la «debolezza ontologica» della sua filosofia. Se la Arendt rifiuta ogni teoria del male radicale (come nel noto carteggio con Scholem), considera d'altra parte il bene come un'enti-. tà idealmente incerta, collegabile più all'orizzonte delle possibilità umane (dove domina la limitazione responsabile dell'agire) che alla trascendenza. È verissimo, come nota Duso, che in Arendt non si dà una teoria organica della rappresentazione politica - ma questo perché la rappresentanza è consapevolmente svincolata da ogni rappresentazione del Bene e della divinità. La concreta rappresentanza politica - nella forma delle moderne democrazie - non è espressione del male radicale (o dell'assenza di forma, come in Schmitt) ma male minore, o bene minimo, nell'ambito delle scelte possibili ai concreti attori politici. La filosofia politica arendtiana è tutta spostata dalla parte dei soggetti agenti nel mondo comune - e quindi non è affare della coscienza, come in Voegelin, né di insegnamento del giusto, come in Strauss; ciò che essa perde in termini ontologici o etici (deliberatamente assenti o minimizzati nelle sue opere principali, Vita activa e La vita della mente) viene probabilmente riguadagnato dal punto di vista della concretezza esistenziale, o meglio dell'effettualità politica del Dasein. In questo senso, come è stato più volte notato, il suo pensiero, paradossalmente im-politico (in quanto estraneo a ogni idea teologica del politico, così come poco interessato alla sovranità e all'ordine), è il più politicizzato del nostro tempo, in quanto capace di riconoscere nell'esistenza plurale degli uomini una dimensione politica, che invece la filosofia della coscienza e della giustizia tende a sottrarre loro in nome della trascendenza. Gli aspetti qui accennati vengono felicemente sviluppati e discussi nei singoli saggi dedicati alla ricezione di Hobbes (Galli), a Voegelin (Duso, Biral, Chignola), al rapporto Schmitt-Strauss (Piccinini), a Hannah Arendt (Rametta). L'interrogativo che emerge dal libro (dalla sua articolazione più che dagli specifici contenuti) riguarda in primo luogo l'affinità tra i tre autori, e in secondo luogo la possibilità che su essi possa ricostruirsi una pratica unitaria del pensiero politico. Che l'interrogativo resti per il momento senza risposta costituisce una prova ulteriore della felicità di questa ricerca. Filosofia, politica e pratica del pensiero. Eric Voegelin, Leo Straua, Rannah Arendt A cura di G. Duso Milano, Franco Angeli, 1988 pp. 348, lire 28.000
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