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(Matteo D'Ambrosio) ... una sorta di furibonda... enigmatica festa... di chi non vuole accettarele antecedenze storiche... con risultati che si possono definire in taluni casi clamorosi. (Franco Cavallo) ... un itinerario lulliano-leibniziano... in cui la lingua va deflagrando... attraverso le acrobazie della mente. (Aldo Trione) Il libro... è l'evocazione di quella... grandeforma informe che rende lo stile imperio delle forme... ed estraneo al compito della glossa legificatrice... La crittografiadi F. G. è la dirompenza del paradigma, del segno che ha messo in parentesi il significante... (che) pone e impone non tanto la ricostruzione del testo, quanto l'altro del testo. (Raffaele Perrotta) ... un'opera singolarissima per forza e novità d'invenzione verbale... avventurosa, gremitissima, di straordinariaricchezza... un'opera di cui si dovrà tenere gran conto nel parlare della poesia di questianni. (Giorgio Bàrberi Squarotti) ...e, tuttavia, un testo al sicuro da ogni ermeneutica che voglia farsi conclusi- ·va... che rimette il tutto in una strategia ricorrente,senza requie... ... che sfida (la stessa).circolaritàlinguistica. (Adriano Spatola) pagina 28 dove scrive che allo studioso di filosofia sembra di sentirsi «a volte come trattenuto e intorpidito dalla calma e composta serenità dello stile crociano e gli sembra quasi, con le sue critiche, di prender le parti del disordine e del caos quando penetra nell'interna aporeticità della filosofia crociana, sì che a volte gli vién fatto di paragonare, per quanto per ragioni diverse da quelle platoniche, il fascino di Croce a quello di Socrate, che, come si dice nel Teeteto, incantava e paralizzava i suoi interlocutori come la torpedine con la sua scarica elettrica». La torpedine-Croce lasciò infatti segni vistosi sul giovane Paci. L'esistenza come nulla che non è puro nulla, come alterità o qualcosa di «attivamente negativo», come ingens sylva vichiana e residuo ineliminabile d'ogni razionalità, attesta quella «potenza del negativo» che, pur non avendo «vera» realtà, sta a fondamento materiale della civiltà e d'ogni conquista dello spirito. Crocianamente, il giovane Paci non riconosce il valore dell'esistenza su nulla fondato. Come ha ben visto Sini, il platonismo-crocianesimo di Paci, opponendo radicalmente l'esistenza come alterità irrazionale e il valore come spirito e/o «idea-fiaccola-sempre-viva», condanna l'esistenza a mera insignificanza e apre la via a quel nichilismo che è il suo più autentico prodotto. A proposito dell'itinerario filosofico di Paci, Vigorelli giustamente respinge le critiche di eclettismo, sottolineando che egli tese piuttosto a una sorta di «integrazione organica» fra le teorie (p. 22). Non l'eclettismo va infatti imputato a Paci, semmai, piuttosto, come appare evidente in Pensiero esistenza e valore (1940), l'aver sottovalutato la differenza fra le diverse correnti culturali, chetalora devono essere sottolineate e fatte salve. Vigorelli sottolinea i menti dell'antidogmatismo del principio antinomico, della capacità di mettere in comunicazione istanze e temi provenienti da orientamenti filosofici diversi, ma va detto anche che Paci talora appiattì e concepì come irrilevanti (o superabili in sintesi ulteriori) temi e specificità irriducibili di certe tendenze di pensiero e di certi filosofi. Di qui gli equivoci del suo esistenzialismo «positivo», i continui tentativi d'integrazione con gli orientamenti del pensiero contemporaneo, il compromesso teoretico con lo storicismo crociano e la sua lotta, questa sì davvero irriducibile, contro il «nichilismo» di Heidegger. Amedeo Vigorelli L'esistenzialismo positivo di Enzo Paci Una biograf'aaintellettuale (1929-1956) Milano, Franco Angeli, 1987 pp. 260, lire 25.000 Ragionando d'amore Rosella Prezzo L ' ultimo libro di Lea Melandri costituisce una premessa indispensabile a quella storica dell'amore in Occidente che de Rougemont e altri hanno tracciato, ma anche un punto di vista eccentrico. Non tanto perché fornisca elementi nuovi nella fenomenologia dell'amore e delle sue rappresentazioni, ma perché pensa nuovamente l'antico: il luogo di nascita dell'amore come luogo comune di reverie doCfr ve l'esperienza anonima e covata con pudore del sogno d'amore può rivelare molto di più di quella di un amore singolare. L'immagine arcaica dell'androgino, come immagine potente dell'origine e di un'unità fusionale e perfetta, si mostra infatti qui con tutta «la sua forza di attrazione e la tirannia di un sogno» (che viene dall'autrice inseguito e svelato in modo esemplare nei pensieri comunemente intimi di autori scelti secondo un'affinità elettiva: Sibilla Aleramo innanzitutto, e poi Nietzsche, Michelstaedter, Mante gazza, Freud, Hillman). L'androgino si dà come patria della felicità da sempre perduta che permanendo tuttavia alle nostre spalle guida forzosamente i nostri passi che portano all'incontro con l'altro, dove il «mistero del singolo» crede di trovare la sua soluzione come solitudine da guarire, parte mancante da integrare. «Nell'incontro proprio la solitudine induce a parlare con sé, dapprima in modo quasi affannoso, per poi abbandonarsi con lucidità a una meditazione ondulante che fa risuonare le contraddizioni intime fino a dar forma a un dialogo serrato con autori riletti e ripensati. Si fa strada allora la profonda consapevolezza che «un sogno che si eclissa apre un abisso, la fine di una lunga schiavitù riempie l'animo di 'mestizia'. Non si rimpiangono le catene, ma l'illusione che ha permesso di conservare così a lungo» (p. 50). Da dove nasce, dunque, questa illusione, questo doppio sogno? Dietro la sublime armonia divina di esso non si nasconde forse qualcosa di umano troppo umano? «La pretesa sublimità dell'amore, il suo innalzarsi al di sopra del tempo e dello spazio, nel silenzio e nella solitudine, è, forse, soltanto la sua inconfessata, innominabile Duchamp (Adamo) con Ml/e. Bronsdorf (Eva) nel Tableau-vivant per Ciné-Sketch di FrancisPicabia, Paris, 1924 con l'altro, il mistero del singolo, la sua realtà separata e irriducibile, diventa un ostacolo da superare, un muro da abbattere perché dal due si torni all'unità assoluta e perfetta di una creatura rigenerata» (p. 87). Lea Melandri indaga quindi un mito che sotto mentite spoglie si ripropone costantemente fra l'uomo e la donna e dentro ciascuno di essi; l'amore non come oggetto di un sogno ma come l'origine del sogno, del sogno originario di intere~ del maschile e del femminile che possa riparare a una «dualità violenta». Ne risultano un libro e una narrazione anomali in cui, insieme alla donna che si trova ad affrontare innanzi tutto la propria difficoltà, la riflessione si desta e prende forma con la scrittura a partire dal sentimento di solitudine e di smarrimento che l'infrangersi del sogno produce nella propria vita (le prime immagini del libro ci sono infatti date, aforisticamente, da frasi sottratte al «gelo» di un abbandono vissuto). Ma puerilità, il sogno di un paradiso d'infanzia perduto, di un'unità singolare, come quella che formano insieme i due corpi della madre e del figlio»' (p.84) e che tollera le inevitabili diversità delle persone reali. Lea Melandri non vuole tuttavia dare risposte trionfalistiche perché sa che a nulla valgono le facili scorciatoie in un terreno così minato: «Per una confusione che ha radici così profonde e oscure, come quelle tra uomo e donna, occorre un esame paziente, senza fretta e senza paura» (p.123). Intrico tanto più complicato in quanto non è solo il mito ad aver elaborato nell'immagine dell'androgino il dato biologico dell'umanità a due presente nella maternità fino a rovesciare l'esperienza dell'origine nell'utopia da raggiungere, riproponendola come unica esperienza d'incontro possibile fra uomo e donna e come tale dettata da un vincolo di necessità (basti per tutti il racconto che ne fa Aristofane nel Simposio); è lo stesso pensiero filosofico - che dal mito Alfabeto 109 nasce e da cui vuole e crede di separarsi dispiegando la sua logica oppositiva - a esserne intimamente impastato e a conservarlo nella riservatezza del suo desiderio maschile. La filosofia, infatti, nel suo compito di separare l'anima razionale dalle «follie del corpo», instaura la sua logica dualistica che vive di due serie in opposizione speculare ma in quanto tali necessariamente complementari (anima/corpo, natura/cultura, essenza/apparenza ecc.) tanto da confondere in essa «la diversità dei sessi nella coppia dei contrari» in cui ciascuno diventa il sogno dell'altro che sogna l'essere perfetto, ma in cui la donna scambia come proprio, senza saperlo, il sogno del sogno dell'altro. «Questo 'essere perfetto', 'somma di uomo e di donna' è il dio che abita la specie umana, la religione che il desiderio maschile ha creato per tenere insieme ciò che la sua storia veniva separando, il sogno del bambino che si accorge, crescendo, di non poter portare con sé la propria madre» (p. 25). La rilettura del Timeo ci può fornire alcuni elementi in più di riflessione a questo riguardo. In questo dialogo, che tratta dell'origine del mondo e della natura umana, Platone si vede costretto ad affiancare al modello intelligibile (che chiama Padre), specie non generata, e alla copia visibile che su questo modello è prodotta (il figlio), una terza specie «faticosa e oscura» nella quale e attraverso la quale si è fatto ordine nel caos. È questo, un genere neutro in quanto confuso e non definibile, ma per alludere al quale Platone usa serie di metafore femminilimaterne: «nutrice», «ricettacolo di tutto ciò che si genera», «madre». È qualcosa che dando luogo a ogni forma non ne ha una sua propria e risulta incomprensibile per la ragione: «specie invisibile e informe» sempre esistente, ma che non potendo essere percepita dal senso partecipa «in qualche modo oscuro dell'intelligibile». Perciò può essere colta solo da un «ragionamento bastardo» come appena credibile, «guardando alla quale noi sognamo». Ma quando siamo svegli - conclude Platone - e seguiamo cioè la legittima discendenza del ragionamento, che va dal modello alla copia, dall'intelligibile al sensibile, dal divino all'umano, dal padre al figlio, fra i quali soli è data da giocare la partita della verità, non possiamo che considerare nulla quel paradosso impensabile. La ragione infatti che opera solo su ciò che «esiste realmente» dimostra che «finché una cosa è una cosa, e un'altra è un'altra, nessuna delle due può essere nell'altra in modo da essere insieme una cosa sola o due». Se quindi il femminile-materno, identificato una volta per tutte con la natura e il corpo, è immaginariamente onnipotente, luogo oscuro ed enigmatico in cui si dà un'unità sognata e rispetto al quale può darsi solo una confusione onirica; nel luogo in cui l'uomo con i suoi simili fonda la sua dimora speculativa, la donna è ontologicamente Nulla, puro fantasma che vive di altro da sé. È proprio questo sogno duplice che tiene insieme - dice Lea Melandri - «gli occhi e la fantasia, sia degli uomini che delle donne, sogno che oscilla fra il tutto e il nulla, tra la vita e la morte, l'estasi e il gelo» (p. 123), sogno dettato da un bisogno reciproco che spinge
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