Alfabeta - anno X - n. 109 - giugno 1988

Alfabeta 109 funeraria, il cui centro teorico era rappresentato dall'idea del rapporto essenziale intercorrente, in tutte le culture antiche, fra l'idea della morte e la sostanziale tensione dell'anima umana verso il divino. Cos'è che lega assieme la teoria di un antico diritto femminile, quella di una religione funeraria universale, e il patriarcato spirituale appolineo-romano? La risposta non può essere trovata soltanto all'interno del pensiero di Bachofen ma deve essere cercata nell'ambito di una più vasta e ap- .profondita rilettura del romanticismo tedesco come fenomeno generale. Avendo dedicato altrove parecchio spazio a questo problema, ci limiteremo in questa sede ad alcuni accenni. La reazione alla lettura della grecità come un fenomeno culturale dal carattere sostanzialmente conciliativo-formale, riconducibile cioè nell'orizzonte tranquillizzante di un'estetica come disciplina del bello, quella reazione che in Germania era iniziata soprattutto con Herder e che aveva conosciuto come tappe fondamentali la Simbolica di Friedrich Creuzer e gli studi di mitologia di Josef Gorres, trova in Bachofen la sua più alta , e per certi versi, ultima, emblematica stazione. Bachofen riunisce la concezione del simbolo elaborata da Creuzer, come entità sovrastorica con la travolgente intuizione gorresiana di una dialettica sessuale dal significato metafisico, vigente cioè in ogni recesso della vita. Gorres, a sua volta, era stato condotto alle sue conclusioni dalle scoperte schellinghiane di filosofia della natura. Bachofen accetta quindi da un lato l'ipotesi creuzeriana di una provenienza orientale della grecità, la quale si sarebbe cristallizzata nella sapienza dei Misteri, ultima propaggine dell'ancor più antica sapienza indiana, e, d'altro canto, accoglie all'interno del suo sistema anche la concezione tipicamente romantica di una duplicità insita nell'essere stesso della divinità, nonché nel suo rivelarsi, una duplicità che ha carattere simbolico e visibile, e che si concretizza nella differenza sessuale. Questo è lo scenario in cui Bachofen inizia a guardare ali' antichità. Si tratta, a livello filologico, principalmente di una riconsiderazione di tutte quelle fonti neo-platoniche, che erano state scomunicate dalla scienza ufficiale dell'antichità. È per questo che Bachofen, con il suo Matriarcato incorre a sua volta nella scomunica degli stessi eruditi che avevano attaccato Creuzer e che, di Il a poco (la Nascita della Tragedia di Nietzsche esce nel 1872), avrebbero di fatto imposto a Nietzsche l'abbandono della cattedra universitaria. E, infatti, la prima fonte di Bachofen è Plutarco; precisamente, il De Iside et Osiride, dove sono ben più che accennate tutte le questioni che Bachofen porrà al centro della sua indagine, e che possono essere ricondotte a una, fondamentale: la simbolicità della terra come ricettacolo visibile dell'invisibile forza generante maschile. Il passaggio dal matriarcato, che seco.ndoBachofen è una costruzione giuridico-religiosa che privilegia proprio tale visibilità, al patriarcato, che invece fa del dintto civile il baluardo dell'invisibile rispetto al meramente visibile, vale a dire della forza «primigenia» spirituale nei confronti della esistenza materiale «secondaria», quel passaggio, storicamente interpretato, è al centro dell'indagine del Matriarcato, nelle sue circa mille pagine. Bachofen si pone allora in cammino attraverso l'antichità con una passione e un'abnegazione che difficilmente hanno l'eguale, nella sua epoca. Ciò che massimamente ha sempre «disturbato», dell'opera di Bachofen, è la sua continua utilizzazione del mito per spiegare la storia. Bachofen afferma esplicitamente che, per la sua ricerca, egli deve fare a meno della scontata distinzione fra l' «invenzione mitica» e la «certezza storica». Altrimenti, andrebbe perduta la possibilità stessa di avvicinare il mondo dell'antichità, il cui linguaggio, dice Bachofen, non è il nostro. Lungo il suo percorso, Bachofen incontra le grandi saghe del mondo antico, l'Orestea, di cui egli fornisce un'interpretazione ormai giustamente apprezzata, ma anche il mito di Giasone, che egli legge come un eroe destinato a propagare la verità superiore dell'orfismo, l'incontro altamente simbolico fra Alessandro Magno e l'egiziano-merotica Candace, Augusto dinanzi al «pericolo» della «femminile» struttura egiziana. L'opera di Bachofen ci appare dunque come uno straordinario - con tutte le implicazioni linguistiche del termine - sguardo diversamente orientato sull'antichità. L'aver sganciato quasi completamente il Matriarcato dal suo retroterra «romantico», nel senso ora accennato, è quanto il lettore e l'interprete non può che, almeno in parte, lamentare, a proposito di questa edizione italiana. Il saggio introduttivo di Furio Jesi, la cui importanza di studioso è ben nota proprio in tale ambito di rinnovato interesse per il Romanticismo tedesco, è del 1973, e si limita in larga parte ad accenni, probabilmente in vista di una revisione che purtroppo non poté avvenire. La sua parte più interessante riguarda il confronto con l'interpretazione di Bachofen offerta da Benjamin, ma appare, anche in questo caso, Cfr un po' appesantito da un'angolazione che, in ultima analisi, non sembra riuscire a dare ragione del perché l'opera di Bachofen può avere ancora un senso in una sua lettura odierna; Jesi guarda a Bachofen come a un erudito che scrive il Matriarcato guidato da una personale «espansione mistica» (p. XXXIV), per cui, «solo se si affrontano le sue opere come excerpta dei libri sacri di quella religione, come. pagine inquinate in ogni riga di quella religiosità, si va su un terreno relativamente sicuro» (p. XXXV). Non è dunque facile comprendere come «se ne potranno ricavare conclusioni considerevoli circa la società che fu la sua» (così Jesi chiude il suo saggio, p. XXXV), se «nella maggioranza dei casi quei materiali sono così deformati, e concatenati in base soltanto alle loro deformazioni, da non poter essere in alcun modo recuperati per altri usi» (ibiMarce/ Duchamp a Neuilly, 1950 dem). Concludiamo allora con l'augurio che questa edizione del Matriarcato susciti nuove possibilità ermeneutiche di un testo che, nonostante tutto, rischia immediatamente di essere confinato negli scaffali delle biblioteche. Johann Jakob Bachofen Il Matriarcato A cura di Giulio Schiavoni Torino, Einaudi, 1988 pp. LXXIV-522, lire 60.000 Esistenzialismo e storicismo nel pensiero di Enzo Paci Franco Toscani U na precisa e documentata ricostruzione dell'itinerario intellettuale di Enzo Paci (sino al 1950) è offerta da questo libro di Vigorelli che ha potuto studiare anche le carte e i quaderni inediti del filosofo di Monterado, scomparso nel 1976. Dagli inediti risulta confermato non solo il precoce interesse per lo storicismo crociano e le prime critiche al sistema idealistico, ma anche una fase di giovanile entusiasmo per il pensiero e l'opera di Piero Gobetti, presto superata nell'adesione a posizioni politiche ufficiali. Vigorelli ha riconosciuto con ricchezza di riferimenti e citazioni, oltre il complesso percorso filosofico di Paci, anche l'ambiente culturale in cui si mosse il giovane filosofo. Citiamo principalmente il rapporto con Banfi, ottimamente illuminato tanto nella fase pre-bellica quanto in quella postbellica (con la curiosa «inversione delle parti» fra i due); i rapporti e le vicende interne al gruppo banfiano; l'influenza della filosofia scettica di Adolfo Levi sul primo esistenzialismo padano, che «fraintese» (p. 49 e 126) in senso esistenzialistico la lezione empiristica e scettica di Levi, grazie al quale altresì Paci si convinse del carattere «aporetico» della ricerca platonica sul tempo; il rapporto con Abbagnano nel comune sforzo di elaborazione dell'esistenzialismo positivo; il dialogo con lo storicismo crociano. Quello di Paci fu un esistenzialismo nutrito dalla lezione del suo maestro Antonio Banfi, del quale però, più che il «razionalismo critico», Paci accolse il «vitalismo trascendentale», la ragione intesa come principio di vita, come valore che indica alla vita una direzione, come forma che ha un'inesauribile «sete di vita e di esperienza», senza che sia mai possibile una piena identificazione con la vita stessa. Riferendosi al libro di A. Santucci Esistenzialismo e fùosofia italiana (Il Mulino, Bologna, 196'72),Vigorelli ribadisce che l'esistenzialismo positivo di Paci e Abbagnano non solo fu un momento important~ di rottura e innovazione rispetto al clima filosofico idealistico allora diffuso, «ma rappresentò anche un elemento di continuità tra certi fermenti europei della filosofia italiana dell'anteguerra e le successive aperture e trasformazioni della cultura del dopoguerra» (p. 20 e 29). Ora, se è giusto riconoscere l' «apertura europea» che la ricerca di Paci e A~bagnano ebbe, ci sembra giusto pagina 27 anche sottolineare i non pochi limiti che quell'apertura ebbe. Non solo e non tanto perché la «positività» rivendicata era soprattutto da ricondurre a motivazioni nazionali e/o italiane, quanto per specifici problemi e nodi teorici. È lo stesso Paci a chiamare il proprio orientamento esistenzialismo idealistico e/o spiritualistico (p. 183), a concepire l'esistenzialismo non come una negazione, ma come un inveramento e un completamento dell'idealismo e dello spiritualismo. Del resto, la conclusione de L'esistenzialismo (1943) era esplicita: il compito dell'esistenzialismo era quello di «portarci oltre Hegel per ricondurci a Hegel», un percorso che Paci fece, sino a Il nulla e il problema dell'uomo e a Esistenzialismo e storicismo (1950), nella forma di un dialogo serrato con Croce a proposito della questione del «vitale». Non solo di limiti, ma di veri e propri fraintendimenti si deve a mio avviso parlare in riferimento alla lettura paciana di Heidegger, Jaspers e Sartre. Per quel che riguarda i primi due, Paci vede nel loro pensiero una vanificazione dell'esistenza che non realizzerebbe alcun valore positivo: in Heidegger perché l'esistenza, riducendosi al nulla, a essere per la morte come angoscia, annichilirebbe se stessa; in Jaspers (al quale il giovane filosofo deve pur molte suggestioni in questa fase) perché l'uomo si ritrova in solitudinè di fronte all'essere che lo trascende, a quel1' «inviolabile trascendenza» che gli rimanderebbe la sua nullità. Quanto a Sartre, Paci in questi anni non sembra allontanarsi molto dagli equivoci e dalle posizioni diffuse circa il «sartrismo» come filosofia ambigua e «diabolica»: quella di Sartre si presenta come la filosofia del «terrore della libertà» e dell'assurdo, che enfatizza il negativo in quanto tale. Per Sartre tutte le scelte si equivarrebbero e la libertà sarebbe sciolta da ogni ipoteca e responsabilità morale. Simili posizioni, presenti in un libro per più versi assai significativo come Il nulla e il problema dell'uomo (1950), si ritrovano anche più tardi, in piena fase relazionistica, in Ancora sul1' esistenzialismo (1956). L'esistenza, come «essere del non essere» o «nulla che è», non è per Paci fine a se stessa, ma solo mezzo, sorgente inesauribile della vita dello spirito. Cosl, come risulta da Esistenza e immagine (1947), l'arte nega la caotica sensibilità esistenziale in direzione della forma e del valore estetico. Attraverso l'immagine, l'esistenza diventa spirito, morendo a sé medesima in quanto mera esistenza e conquistandosi nel tempo la propria realtà ed eternità. L'esistenza, come mera «notte dello spirito», rende possibile l'aurora, la nascita dello spirito. Il giovane Paci si sforza di salvaguardare l'autonomia del piano dell'esistenza ai fini d'una migliore fondazione della filosofia dello spirito. L'esistenza, pur non potendo essere risolta nel pensiero e mantenendo sempre uno scarto rispetto al valore, non è che puro mezzo per il valore, negatività originaria che deve «redimersi» per elevarsi a vita spirituale, creazione estetica, morale, filosofica. In altre parole, Paci resta, nonostante la polemica sul vitale e le note critiche al sistema idealistico di Croce, ancora in un ambito di pensiero molto crociano, come lui stesso conferma in Esistenzialismo e storicismo, là

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==