Alfabeta - anno X - n. 109 - giugno 1988

Alfabeto 109 Marcia di utopia Marco I. de Santis I n una stimolante serata sulla nuovissima poesia italiana (Milano, 27 aprile 1987), confrontando l'esperienza degli anni settanta - caratterizzata da una notevole «proliferazione dei linguaggi» e «libertà delle forme» - con la situazione più recente, che ha condotto a superare la sincronia e l'eclettismo dei linguaggi, tipici del postmoderno dei primi anni ottanta, Antonio Porta ha evidenziato, nella poesia neomoderna, un «ritorno alla progettualità», soprattutto in riferimento alle cosiddette utopie negative (pericolo nucleare, degrado ambientale, tensioni politiche e sociali, ecc.), che pongono l'artista in posizione critica rispetto al mondo contemporaneo. Nel percorso poetico di Daniele Giancane tale ansia di progettualità è stata ed è sempre vitale e presente, come dimostra anche la sua ultima raccolta, Marcia di utopia, apparsa nel 1987 con presentazione di Gaetano Salvetti nella collana «Poesia 80» dell'editrice Forum / Quinta Generazione di Forlì. Giancane fa a meno dei preamboli, entra subito in medias res, data l'urgenza dei problemi. E i problemi sono innanzitutto la fame e il sottosviluppo in quei paesi che eufemisticamente si chiamano «emergenti»; le discriminazioni, che teoricamente rifiutiamo ed emotivamente invece ci coinvolgono alla prima occasione; le disuguaglianze economiche che hanno annientato virtualità di generazioni e generazioni di genitori; e ancora la violenza planetaria, il terrorismo, «la morte dei valori» e altro. In una società ingiusta e nevrotica, che emargina anziani, ammalati e handicappati, è tragico dover ammettere col poeta che «Non c'è più spazio per i cuccioli d'uomo». Sorregge tale serrata denuncia una forte tensione morale, il cui progetto è la ricerca della felicità, la rifondazione di un mondo più equo e umano. Per questo Giancane può inventare quelle favole a lieto fine che vanno sotto il titolo di Trittico di scienza e religione, E avvenne e Così avvenne. Ma può realmente la poesia produrre dei cambiamenti? La risposta diventa affermativa se «non fra poco o poi / o un giorno che verrà», ma «ora noi atterriti / dalla. violenza nucleare / dalla miseria orrida dei tempi / [... ] una parola dietro l'altra / gesto dietro gesto / [... ] mutiamo I sia pure per un'oncia un granello / un millimetro quadrato / il volto antico del mondo». In questo cammino lento ma continuo, intrapreso senza sviae menti, consiste appunto la Marcia di utopia proposta da Giancane, dove !'«utopia» figurata come meta aduna in sé tutti gli ideali positivi senza i quali la costruzione di una società pacifica, creativa e fraterna non è pensabile. Fin qui Giancane, adoperando con parsimonia barlumi lirici e metafore poetiche, privilegia di gran lunga i ritmi della trasparenza e della comunicazione, in quanto, come ha rilevato Giovanni Raboni nella medesima serata sulla poesia degli anni ottanta, «la forma in cui entrano cadenze narrative è di per sé intersoggettiva e ha una possibile chiave di lettura politica» o civile e sociale, si potrebbe aggiungere. Nella successiva sezione della silloge, Sempresud, il Mezzogiorno mitico degli ulivi, dei sacerdoti, dei briganti e della civiltà contadina è come allontanato sullo sfondo, perché ora il Sud è una terra in trasformazione, che va perdendo i suoi connotati tradizionali mentre «la cocaina circola come polline / fra vicoli divenuti / emporio per il turismo estivo» ed «è violata la privacy e la solitudine / dei paesi abbarbicati alle montagne / sopra un costone di gravina / dagli shorts pubblicitari». Resta allora il ricordo delle «storie narrate / nel cuore della notte / tra cenere che tepida / fermenta nei camini», e mentre il lirismo prende quota, erompe un anelito di fanciullesca incontenibile libertà: «Fatemi uscire dai cancelli / voglio respirare l'aria della strada / di mentastro e tramontana / rotolare le pietre sui muretti / come caramelle sparse al suolo / da un ilare fanciullo». È aperta così la strada alle stupende evocazioni di Archeologica, la terza sezione, dove il mistero si fa verbo ne La fanciulla di Pompei, il poeta interroga le vestigia Al tempio di Hera a Metaponto come l'Omero foscoliano scruta fra i sepolcri troiani, e il tempo corrode implacabile edifici e volti: «Sostò l'incredulo Orazio / dove ora la Basilica / le tabernae il foro / giacciono / prede del tempo / che nulla perdona / che presto incanutisce il giovane / che ride (vedi?) / sottobraccio alla sua donna» (A Egnazia). Di qui alla cupa e abbrividente elegia di Mater il passo è breve. Ma c'è pure, tenace e vivificante, una fede incontaminata nell'amicizia e nella poesia, che permea la quinta sezione Ai poeti, sì ai poeti e alimenta la speranza nel progetto palingenetico: «Verrà il giorno/ che ci ritroveremo amici / costruiremo assieme / la pace del pianeta I oltre le troppe parole nel vento», capovolgendo così il senso della dylaniana Blowin' in the wind. Tanto più eroica è tale fiducia nell'arte e negli affetti, quanto più Michelangelo Coviello TEMPO REALE pag. 101 Lit. 10.000 La prosa di un 'fabbro' del linguaggioalle prese col tempo reale:necessità e tecnica degli spostamenti rapidi. La parola è un istante subito in movimento, in un ritmo vitalistico che, uscendo ed entrando in tonalità diverse, realizza impreviste chiusure lampo presto contraddette da rapidi passaggi all'estremità grave; scontro frontale con la lirica, subito rimosso in avanti, fino all'incontro con l'altra anima cromatica, quelladel Caravaggio:qui l'arte sarà contemplata con ilcorpo. CORPO 10 Via Maroncelli, 12 Milano Te!. 02/654019 Cfr • oes1a spietata su tutto si allunga l'ombra edace del tempo e gli «idoli falsi e ingannatori» si dileguano come illusori fantasmi. Soccorre allora la fede baha'i cui è dedicata l'ultima e più nutrita sezione, L'u!ignolo di Akkà, dove spesso il canto raggiunge una cristallina purezza, a volte paragonabile alla dolcezza del Cantico dei cantici, a volte accostabile all'immaginoso misticismo delle sure coraniche meccane. Daniele Giancane Marcia di utopia Forlì, Forum I Quinta Generazione, 1987 pp. 84, lire 10.000 I primi versi di Fortini Afro Somenzari U na antica leggenda cinese narra che, in un punto imprecisato del Deserto dei Gobi, in epoca remota furono sepolte alcune chiavi, delle quali non è dato conoscere la forma né chi abbia interrato quei fantastici passepartout. L'unica certezza era per chi le avesse trovate: con esse avrebbe potuto aprire le porte della luce. Il pensiero comune era quello che attribuiva la loro numerazione di quattro unità, sotterrate in ordine sparso sotto la sabbia. Più di tremila anni fa erano giunti qui in gran numero entusiasti e fanatici ricercatori che scavarono gallerie, cunicoli, disegnarono mappe, costruirono città che ebbero vita brevissima. Le chiavi non furono mai trovate, si pensò che non esistessero e la moltitudine abbandonò l'impresa. Solo pochi, col passare del tempo e in diversi punti della Terra, continuarono la muta e lenta perlustrazione, non solo nella area desertica indicata dalla leggenda, ma su tutto il pianeta e oltre. Platone, Tommaso Moro, Tommaso Campanella, Erasmo da Rotterdam ne furono alcuni esempi. Anche i poeti facevano parte di questo manipolo, non lasciarono l'indagine e ancora oggi mostrano i loro tesori. Sostituendo i personaggi, l'evento non cambia: il progetto di benessere, la guerra, l'impegno, il lavoro sono quelli di un tempo!, il sogno, l'immaginario, la pazzia, l'utopia, la morte sono quelli di un tempo! Il poeta canta il m~le di vivere, opera il senso nella sensualità diametralmente profonda nei difformi ricettacoli dell'esistenza, lavora a fianco del «predicato-deprecato». «[... ] E nell'orrore/insensato, gli scarti acri, gli scatti/del ventre tanto tenero, il convulso/'non così'! di chi muore» (Dai giornali). Questo frammento fa parte di una recente pubblicazione di versi di Franco Fortini. Stampata in numero limitato di esemplari, la raccolta ha il titolo accattivante: Versi primi e distanti -1937/1957. Sono versi mai pubblicati (esclusi alcuni tra i quali Piazza Tasso già presente in Poesia e errore). Nella nota introduttiva Fortini è dubbioso sul fatto che il volume rappresenti una prova oltre la quale non vi siano altri residui, tuttavia per chi si nutre di poesia e della sua in particolare è importante non solo perché con questi versi si abbia un quadro più completo della sua opera, ma perché qui vi sono gli impulsi (Primi-primari), le tracce che hanno originato la sua poetica, da Foglio di via a Paesaggio con serpente. Per distanti, oltre alla demarcazione temporale, si può intendere una sorta di distanza fisica, come il presbite allontana l'oggptto per vederlo meglio. È dunque Fortini che allunga la mano, dal suo eremo, noi siamo tenuti a stare con lui e guardare giù nella valle. «[... ] A te quelle parole/che fiorirà per me la cara terra/prima che vero il tuo silenzio scenda ... » (Dedicando poesie future). Si direbbe che abbia trovato le leggendarie chiavi, ma egli stesso nega; la poesia letta, riletta, ripresa a distanza è viva se ogni volta muta la scorza e le chiavi non servono. Fortini dice i luoghi di guerra, le fabbriche occupate, gli uomini neri, le bandiere di sangue. Ci prende per il bavero, ammonisce, non per ciò che abbiamo costruito, ma per ciò che faremo. Lo strattone è breve ma vibrante, poi racconta di un. favoloso mondo primigenio: mondo di Dafne. «[... ]Quel che abbiamo saputo lo sapremo per sempre.fil resto non lo sapremo mai [... ]» (Quartieri, X). Laggiù in fondo alla valle s'intuisce una città, se chiediamo notizie egli risponde che non ricorda, eppure i suoi occhi s'illuminano, non vuole parlare, ma già di lei han detto le sue poesie. «Come è tenace l'illusione autobiografica!» afferma Fortini nell'introduzione al volume, consapevole della diàllage. Egli è una cosa e le sue poesie un'altra?, oppure l'uomo e !'opere si identificano?, dirà che la poesia ha una andatura variabile. È vero, le chiavi non furono mai trovate, eppure chi entra in questi Versi primi e distanti crede di vedere Fortini nell'atto di chiudere un cerchio, al contatto delle due estremità, una luce s'accende. Egli collega e colloca il linguaggio poetico all'interno della vorticosa spirale delle parole, cerca di bloccarne il desueto flusso, s'incunea nelle spire, s'impunta fino a fermarla e farla muovere in senso contrario: il senso della poesia. Fortini dice però che possiamo rimanere sull'eremo e lui è già sparito. Il suo commiato è l'invito pagina 19 a soffrire e giocare, mordere e baciare,«[ ... ] Ma il più raro tesoro è questa luce [... ]» (Tu sai che questo... ). Franco Fortini Versi primi e distanti (1937-1957) Milano, Scheiwiller, 1987 pp. 115, lire 22.000 Cristina Annino Daniela Marcheschi < J L'intimo non mi va, e il ~ lirico / mi spaventa. Sono dunque seduto/ per parlarvi.» Cosi, in Conferenza con sciatica edita nella raccolta L'udito cronico (Nuovi poeti italiani 3, Torino, Einaudi, 1984), scrive Cristina Annino, che è nata ad Arezzo ma risiede da molti anni a Firenze, dove si è formata culturalmente e si è laureata in lingua e letteratura spagnola. Quelli prima citati sono versi che bene si confanno a definirne la poesia e, in particolare, l'aspetto antilirico appunto, e l'andamento narrativo, caratteri che contraddistinguono anche questo nuovo notevole volume. Madrid è titolo che rende omaggio alla Spagna in cui l'autrice ha a lungo soggiornato, e che insieme vuol sottolineare il paesaggio metropolitano - in senso reale e metaforico - a cui rimandano diversi testi. Ciò che colpisce nella poesia della Annino - voce fra le più interessanti oggi - è infatti l'abbondanza, la ricchezza a profusione delle immagini, il loro imperativo imporsi, il loro rapido e quasi nevrotico susseguirsi, come fossero animate da una potente forza centrifuga. Materia allo stato solido scagliata verso di noi, bombardamento di oggetti, di immagini, di parole-cose come proiettili: è questa la condizione dell'uomo moderno, che cerca di ordinare inutilmente il reale, che si perde nello sforzo di una visione-orientamento impossibile per l'accalcarsi delle presenze. Ecco, la poesia di Cristina Annino, nasce da un effetto di straniamento, quello di chi vive una sorta di dimidiazione (o moltiplicazione - l'uomo è, deve essere centomila) che peraltro accetta, e a cui tenta di supplire con lo scarto di una vitalità istintuale («atroce vitalità»), tutta sensi come quella di un animale, per cui contano soltanto le impressioni olfattive, tattili o uditive: «Ed ho/ un bell'udito cronico /perla vita, o meglio/ per la testa impazzita / dell'uomo che ragiona, e gli sale / accanto in due, divisa / fino all'occhio glaciale», dice non a caso l'Annino nel testo che dà il titolo alla silloge einaudiana. Una estraneazione, uno stravolgimento che sono resi più evidenti dal co-

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