Al/ abeta 109 Confessioni di un lettore Alberto Capatti U n biglietto di ringraziamento per venticinque anni di letture e di giudizi, firmato da Claude Gallimard; ha concluso la collaborazione di Miche}Deguy e aperto il suo fascicolo di notule su questo esemplare e improrogabile sodalizio. Nell'estate del 1987, alcuni excerpta della sua voluminosa memoria, le battute rimangiate a suo tempo, i pensieri affiorati sulla punta della lingua e poi ritratti, gli dettero una partitura dal titolo // comitato per una interpretazione da camera, nel silenzio. Una diatriba aperta troppo tardi, valendosi di quella carta a stampa che il poeta e filosofo Deguy, accordava e lesinava ai confratelli brevi manu, scoprendo ogni volta con rinnovato stupore la libertà propria di Gallimard, nel cassare il giudizio del proprio stipendiato, nel ridurre in poltiglia cartacea i caratteri dei volonterosi autori. Dall'estate all'inverno le «confessioni di un lettore di una grande casa editrice» non entrano nel letargo, come ci si sarebbe attesi, ma gemmano, ogni germoglio portatore di qualche spina, sino a formare una insanguinata corona (Le comité, confessions d'un lecteur de grande maison). Son proprio finite le decadi in cui Paulhan o Queneau inforcavano gli occhiali dei propri aiuti, per isolare, discutere e licenziare i migliori manoscritti, galleggianti sul torrente che s'ingolfa nella rue Sébastien-Bottin. Sospeso ogni dissenso sull'avvenire della poesia e della speculazione, cedendo sempre più ai valori monetari del romanzo e del divismo pennuto, Claude Gallimard avrebbe ucciso ogni menoma critica fra gli stessi mercenari, avocato 'il portafoglio dei maggiori, e costretto il Comitato alla posizione anchilosata del pollice verso nei confronti di qualsiasi rigo pervenuto spontaneamente o per via burocratica. Con qualche migliaio di manoscritti all'anno da smaltire, più che dei lettori, al duce, abbisognano dei littori, silenziosi, implacabili e nerboruti nello stroncare. Che gli autori accarezzati e contesi divengano i commensali del festino padronale, non stupisce: è segno di urbanità. Che invece una tradizione critica, si spenga nel silenzio, per dar voce alle ugole intonate dei premi e dei critici, per fornire energia luminosa al marchio nrf, è una comprensibile ragione di sdegno anzitutto in un poeta, il primo, per la rarità della sua arte, a far le spese contro i numeri. Inoltre, da quando i padroni dei locali e delle stampatrici, nutrono idee precise su come scrivere e leggere tutti i libri, dal giallo al trattato di genetica, par ovvio che a quanti li affiancano convenga meglio l'assenso o lo zelo, raramente il giudizio. Miche! Deguy si salva dal pessimismo, volgendo lo sguardo pietoso a Jeròme Lindon delle Editions de Minuit. Non entreremo tuttavia nella valutazione, caso per caso, delle stirpi editoriali, sia perché verrebbe la tentazione di constatare un infiacchimento della razza, dai padri ai nipoti, o dai padri alla prole, sia perché il pettegolezzo fa cultura acida, mentre i fatti parlano chiaro: la «Nouvelle Revue Française» è da anni in coma profondo, sostentata dal polmone d'acciaio della famiglia, mentre la ricerca trova, da Gallimard, un comitato di ricevimento che assomiglia a un plotone di esecuzione. Forse, con un po' di furbizia un libro del genere lo si sarebbe potuto evitare. Non che bastasse prolungare di altri venticinque anni un mandato, facendo a Deguy il regalo che il «Mercure de France» Cfr aveva accordato a Léautaud, ma bisognava coinvolgerlo in qualche operazione limitata e rischiosa. Oppure no, era troppo insensibile alle sceneggiate promozionali, in cui, fra nubi di fumo e squilli di tromba, direttori di collane, editor e segretarie volteggiano come cascadeurs. Se solo si comincia a stilare l'inventario degli scoop e dei lanci, delle esplorazioni scoutistiche e delle classifiche dei passati, presenti e futuri talenti, in Francia o in Italia, o a cavallo fra i due paesi, Claude Gallimard sfila sulla passerella in fitta compagnia. Il romanzo - Miche} Deguy ha ragione - serve perfettamente a surrogare la diatriba con la critica zodiacale. Astri nascenti fulgidissimi affiancano stelle morte; non di rado una cometa traccia il cammino da seguire mentre due o tre editori la inseguono sperando di toccare il proprio salvatore. Così nasce l'idea di Alain Elkann: «Negli ultimi anni, in Francia si è fatto un grande parlare di scrittori nuovi italiani, in Italia invece non si è parlato d'altro che di 'minimalisti' americani, diamo il via all'iniziativa nuovi scrittori francesi». Supporto della trovata, «Nuovi Argomenti», gennaio-aprile 1988_.Al lettore, viene presentato un jury, Albinati, Klossowski (Thaddé), De Ceccaty, Schifano, Laclavetine e Elkann e quindi una lista di nomi, con profilo biografico e florilegio: sono i titoli in ascesa, di qui all'anno 2000, le briscole, gli assi, su cui il lettore deve mettere la posta. «Chi sa che tra loro non vi siano un nuovo Proust, un nuovo Céline, un Camus», conclude l'ideatore, Alain Elkann, passando la mano a Thaddé Klossowski «lettore informato e imparziale», oltre che gustoso ritrattista. Si dà fiato all'iniziativa: articolo di Ottolenghi su «Panorama» (27 marzo 1988), presentazione dei fascicoli all'Istituto Italiano di Cultura di Parigi, il cui organo «50 rue - de Varenne» (vicedirettore Elkann), sul tema Semplicità e Complessità, viene accluso come supplemento al numero di «Nuovi Argomenti». Acquisite le necessarie coperture, nasce la lista dei nuovi scrittori francesi, a voto palese, sacrificando ora un nome allo scrupolo, e inserendone un altro per pura onestà. Un compito non facile. Anzitutto, alcuni giudici si proclamano degni di figurarvi: Ceccaty «che ha la voce dolcissima e l'autorità dei timidi», Schifano «napoletano di cuore» e Laclavetine «con baffi e giubbotto di pelle» passano direttamente fra i laureati. Poi ci sono i parenti stretti: bisogna dare una mano a Jean Pavans, fratello di René de Ceccaty, ha ventinove anni e se lo merita. Quindi, un collega dell'editoria, vera speranza delle giovani speranze, promotore ipso facto promosso: è Gilles Barbedette, direttore della collana Letteratura straniera di Rivages (diffusione Le Sueil). Infine, per non dimenticare rue de Varenne, qualche ospite di Villa Medici: Renaud Camus, Hervé Guibert, Bertrand Visage. S'aggiungono altri quindici cui, si suppone, vada conferita la qualifica di amico, se non di vittima innocente del caricaturista Klossowski, fra cui Jean Echenoz «alto, biondo, il viso sèarno, l'aspetto dell'avventuriero» e François Bon con «un bel viso francese da marinaio o da maestro elementare, barba alla Cavour, occhiali con lenti tonde e montatura metallica». Al di fuori del gioco del pallone, le classifiche sono sempre opinabili. Questa considerazione consolatoria basterebbe a far buon viso all'idea di Alain Elkann, se non intervenisse, ulteriore e sconcertante coincidenza, la rosa delle case editrici in cui l'allevamento di talenti romanzeschi è particolarmente segnalato: Gallimard, Minuit, P.O.L che Mondadori si -- .. - ------- pagina 17 sbraccia a salutare, sbandierando un numero di «Nuovi Argomenti» il quale è tutto un programma. Si tratta insomma di un baratro della Mondgraph s.r.l.: io ti piazzo i miei, tu mi passi i tuoi, tiriamo dentro un perito esterno di letterature straniere, e qualche altro fuori dal giro. I talenti selezionati, fra cui alcuni incontestabili, faranno in futuro la loro parte, dando altro fiato alle relazioni culturali, o mozzandolo freddamente, come Renaud Camus, «baffi e colletto con le punte rivoltate», con il suo Diario Romano (P.O.L., 1987) cui dobbiamo il gaudio di questa, fra le molte citazioni: «Il più chiaro effetto dell'Italia su di me, a parte l'italofobia, è stato di riportarmi a una pratica da me pressoché negletta nel corso degli ultimi vent'anni, la masturbazione». Modesto cabotaggio, servigio domestico e piccoli pasticci, danno ragione a Miche! Deguy: nella grande editoria, i consiglieri, interni o esteri, preferiscono operare alla grande, fare molta mondanità, aiutare gli amici degli amici e riscoprire la biblioteca ideale. Mettere insieme una lista di nomi, fra cui tirare a sorte· il nuovo Proust, pare un'idea da vertigini; farla accettare come un accordo culturale, utile al profitto, al prestigio e alle lettere, un gioco machiavellico. Se le carcasse delle riviste coperte di medaglie e mantenute in vita a furia di lifting, uno più disastroso dell'altro, li servono poi in questo ufficio, c'è da giurare che hanno ricevuto ampie attestazioni di stima. Oppure no, fanno in proprio la loro brava minestra, sradicando gli ortaggi intorno a casa, la passano nel surgelatore e la spediscono in Italia. Ma la modestia delle loro idee fa persino rimpiangere quel povero psicoanalista milanese che sparava congressi ai quattro venti e si rivolgeva direttamente a Dio padre per vendere i propri programmi editoriali. Cfr/da New York Jay Leyda 1910-1988 Giuliana Bruno U na mostra di fotografie e documenti rende omaggio a Jay Leyda, il «padre» della storia del cinema, nonché cineasta, fotografo, studioso di letteratura e poeta, scomparso a febbraio.Curata con perizia e passione da Elena Pinto Simon e David Stirk, e allestita alla New York University, dove Leyda ha insegnato negli ultimi anni della sua vita, questa mostra ricostruisce il suo affascinante percorso intellettuale e artistico, innestato su salienti momenti storici di svariate culture. Jay Leyda, nato a Detroit nel 1910, è stato allievo di Eisenstein. Attratto dal fervore culturale postrivoluzionario, giovanissimo, a ventitrè anni, si era infatti recato in Unione Sovietica. Fu fotografo di scena e assistente alla regia di Eisenstein, di cui divulgò in Occidente gli scritti teorici, che tradusse, curò e raccolse nei due volumi Filmform e Film sense, oggi diffusi in tutto il mondo. Tornato in America, Leyda mantenne con Eisenstein un rapporto di amicizia e di scambio intellettuale, che la corrispondenza raccolta in questa mostra testimonia, offrendoci inedite pagine di storia non solo del cinema, ma dello stalinismo e dei s~oi effetti sulla cultura e l'arte, e le vite dei suoi protagonisti. Mentre le foto di scena di Leyda sui set di Eisenstein ci documentano l'atmosfera di lavoro, le lettere di Eisenstein ci forniscono una cronaca precisa della difficile gestazione dei progetti cinematografici di quel periodo. Vi si colgono inoltre un senso di isolamento intellettuale («Non ho nessuno con cui parlare delle mie teorie sul cinema»), l'esplicito desiderio di tenersi a contatto col mondo occidentale, da cui si sentiva tagliato fuori, e la gratitudine per Leyda che glielo documentava, tenendolo au courant di pubblicazioni e dibattiti. Dall'Unione Sovietica, invece, Lèyda aveva fatto da tramite per artisti e intellettuali interessati a ciò che vi avveniva in quegli anni (tra cui l'amico Walker Evans, Paul Strand e Lee Strasberg), e aveva facilitato la prima mostra del costruttivismo sovietico al Museo d'Arte Moderna di New York. Jay Leyda fu infatti sempre attentissimo a documentare momenti di storia culturale sommersi, repressi o lontani. Alla sua opera di storico sul campo si deve, come è noto, la redazione delle prime storie del cinema sovietico e cinese pubblicate in Occidente (trad. it.Storia del cinema russo e sovietico e Ombre elettriche). Ma un fatto non noto, che una corrispondenza con Walter Benjamin svela, è che Benjamin, spinto dal desiderio di pubblicare L'opera d'arte nel/'epoca della sua riproducibilità tecnica in America, si rivolse per prima cosa a Jay Leyda, il quale gli dette una mano per quella pubblicazione in inglese che ostracizzata attese anni. Jay Leyda si è occupato inoltre di letteratura americana e soprattutto di Emily Dickinson e Melville, cui ha dedicato alcuni importanti libri, tra cui The Me/ville log. La mostra di New York attraversa anche la sua attività di giovane poeta e di fotografo. Le fotografie eseguite da Jay Leyda ci parlano oggi come un documento diretto dell'America e soprattutto della New York degli anni della Grande Depressione, che anche il suo film A Bronx morning (1931) rappresenta. Vi si leggono infatti le atmosfere degli anni tra il 1929 e il 1931, colte da un occhio scrutatore, da quella visione capillare, «documentaria» di storico e di archivista che permea l'intera eclettica opera di Leyda. Ripercorrendo il percorso di Leyda in questa mostra, si ritrova anche la storia dell'ostracismo americano che costrinse Leyda a lasciare il posto che occupava al Museo d'Arte Moderna di New York, vagando per il mondo e vivendo, tra l'altro, prima a Hollywood e poi praticamente in esilio durante il maccartismo a Parigi, ·in Cina e a Berlino est, fino al ritorno in America nel 1969. Tra le ultime immagini di Jay Leyda, ci resta il film di Richard Foreman Strong medicine (1980), in cui simpaticamente egli aveva fatto una parte. Questa figura di intellettuale che, alla ricerca «genealogica» della documentazione diretta, ha attraversato in modo straordinario continenti, culture, momenti storici cruciali e varie forme d'espressione, lascia così scoprire, attraverso i documenti che si è lasciato dietro, le parti oscure di se stesso, in quanto, con l'umiltà e la generosità che lo caratterizzavano, di sé non parlava mai.
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