Alfabeta - anno X - n. 109 - giugno 1988

A più voci Informazione culturale Mang Ke L'argilla e 1a mente Manghi Demetrio Stratos • Robertini • €) • ~ ~ . " • • Q • D Cfr Pagine da Riviste Poesia Convegni Recensioni • --- o • o • Pacchetti Il corpo esploso Formenti Tabucchi, Fortunato, Barbaro Barilli J auss e Bourdieu Colonetti Demetrio Stratos Saggi Conservatorismo Bruno Accarino La voce narrante Giampiero Comolli Nuova serie Giugno 1988 Numero 109 / Anno 10 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo mno• Printed in Italy Prove d'artista Donne arabe . . 1n poesia Sebastiano Carta f

pagina 2 Le immagini di questo numero La non-arte di Q uando un artista interviene radicalmente nel sistema dell'arte, non solo provoca trasformazioni sostanziali nella stessa attività creativa, ma trasferisce i suoi risultati al di fuori della disciplina per diventare, attraverso il suo operare e soprattutto il suo pensare, un punto di riferimento per tutte le altre esperienze conoscitive. Dopo Duchamp non è possibile pensare né giudicare il sistema degli oggetti dell'uomo, gli artefatti, come se nulla fosse successo, come se esistesse una netta demarcazione tra oggetti artistici e oggetti utilitaristici, tra funzione estetica e funzione semantica. La rivoluzione di Duchamp, a cent'anni dalla sua nascita, è stata soprattutto linguistica, all'insegna di un totale rovesciamento della ritualità dell'opera d'arte: Non è possibile giudicare Duchamp soltanto all'interno della storia dell'arte: è altrove, nei nostri linguaggi, nel nostro modo d'intendere le relazioni con gli oggetti più comuni, anche nel nostro modo di produrre significati per il mondo, che è rintracciabile l'eredità di questo straordinario manipolatore di concetti più che di cose. Perché, scrive Hegel, «trovare nomi è facile, ma ben altra cosa è pensare per concetti»: gli artisti, spesse volte, inventano nuovi nominalismi entro i quali poi progettano l'opera. È raro, invece, trovare qualcuno che con le cose, pensa per concetti, sradicando l'oggetto dai suoi nominalismi più tradizionali per introdurlo, non in un'altra serie di significati, ma nella pura e infinita possibilità di un gioco libero da convenzioni e da definizioni aprioristiche; proprio per questa ragione hanno f atto bene l'Accademia di Brera e la sua direttrice Donatella Palazzo/i, in collaborazione con il comune di Milano e il gruppo GFT di Torino, a dedicare una mostra, nella Sala Napoleonica del Palazzo di Brera, a Marcel Duchamp, la Sposa... e i Ready made. Hanno fatto bene perché in un periodo di grandi conformismi formalistici, presentare un artista che prima riflette e poi, sedimenta l'intuizione in un oggetto che ci restituisce in parte il suo pensiero, costituisce una scelta culturale che va al di là del- /' occasione del centenario. La mostra, curata da Arturo Schwarz, indica, attraverso 92 opere (tutti i Ready made e le opere preparatorie per la realizzazione del Grande Vetro) che la via della ricerca artistica non può mai fare a meno del controllo dei processi mentali; pena, come accade spesso nell'arte di questi ultimi anni, l'abbandono della funzione centrale di ogni processo creativo: essere, a sua volta, occasione di altri itinerari creativi, di altre esperienze intellettuali. Anche l'allestimento della mostra, progettata da Pier Luigi Cerri, mette in risalto questa doppia anima di Duchamp: essere, contemporaneamente, dentro e fuori l'arte, perché ogni sua azione, ogni sua opera contiene l'ambiguità tipica di un linguaggio che vuole porsi al di fuori di ogni convenzione linguistica. Nessuno può dire ciò che è arte e ciò che non è arte, ma tutti possono riflettere sul non-senso di una rappresentazione che si origina e si sviluppa sul piano della realtà, per poi presentarsi ancora, come realtà, ma al di là della realtà e Paolo Pullega così via: come giustamente scrive Filiberto Menna, «in realtà Duchamp se ne rende conto e la sua estrema sottigliezza intellettuale consiste appunto nel porsi in bilico, come uno spericolato giocoliere, sul filo che divide ciò che appartiene ali'arte (e al linguaggio) da ciò che appartiene ali'esistenza reale: dopo di lui non è più possibile mettere i baffi alle Gioconde, ma solo prenderle a martellate». Le opere preparatorie per il Grande Vetro sono la testimonianza che Duchamp progettava, anticipava e cercava di anticipare l'evento finale, ma poi lasciava alla casualità degli avvenimenti, esterni al processo creativo, d'intervenire nell'opera: questo accadde quando lasciò per circa un anno e mezzo l'enorme lastra di vetro esposta alla polvere di New York, per dare al quadro «un certo qual carattere pittoresco, come aveva progettato», (Hans Richter). La casualità si ripresenta anche quando il quadro su vetro venne considerato finito. Infatti, durante il trasporto a Brooklyn per una mostra, «il vetro s'incrinò in modo tale che le sue figure sembravano come attraversate da una rete di sottili fenditure. La leggenda vuole che Duchamp abbia in precedenza sognato queste incrinature quali poi apparvero nel quadro!» (H. Richter). Lasciamo da parte queste letture di tipo irrazionalistico; noi crediamo che sia molto più importante analizzare il metodo progettuale di Duchamp, non chiuso, ma sempre aperto e ricettivo a qualsiasi casualità; il tutto, però, all'interno di un modello teorico che, comunque, controlla e riassorbe anche le solleciProve d'artista tazioni più imprevedibili. La distanza tra il sogno di Duchamp e l'evento, il vetro rotto, può anche ridursi a zero ma ciò non permette né aiuta una lettura dell'opera che vada al di là della cronaca: fondamentale è la sensibilità creativa di Duchamp, sensibile anche verso ciò che appartiene per tradizione alla non-artte. Questo è Duchamp: l'imprevedibile si trasforma in norma, in nuova tradizione, mentre la tradizione e i valori consolidati diventano il simbolo della non-ragionevolezza. Il pensiero assurge a opera d'arte mentre gli oggetti si presentano come occasioni, esperienze di riflessiòni artistiche: è sufficiente nominare artisticamente un oggetto, qualsiasi oggetto, perché esso si trasformi in opera d'arte. Al di là dell'influenza di Duchamp sia sull'arte pop, sia su/- New-Dada e il Concettualismo, è necessario ribadire che lo scolabottiglie, anche per lo stesso artista francese, non è un'opera d'arte per sempre, in sé e per sé: non esiste più lo scolabottiglie originale di Duchamp. «Perché .quello che doveva emergere dalla presentazione dello scolabottiglie come arte era la sua mancanza di esclusività: un qualsiasi scolabottiglie vale quello su cui Duchamp fece la sua operazione, un qualsiasi orinatoio vale quello esposto nella mostra di New York nel 1917» (E. Migliorini); siamo al di fuori del- /' arte. Ma proprio per questa ragione è necessario analizzare Duchamp con tutte quelle discipline che hanno posto al centro delle proprie riflessioni il rapporto tra essere e pensiero, tra mente e corpo; io credo che Duchamp sia stato, almeno fino a ora, un patrimoSommario Toni Robertini Demetrio Stratos pagine 7-8 Il buon uso della realtà Alfabeta 109 Giugno 1988 Giovanni Falaschi Donne arabe in poesia pagine 36-37 4./fabeta 109 nio troppo esclusivo della storia e della critica d'arte: bisogna andare oltre /'artisticità. Come scrive lo stesso Duchamp, «la scelta di ready-made non era mai dettata da un senso di godimento estetico. La scelta era fatta in base a una reazione ottica di assoluta indifferenza che prescindeva completamente dal buono e dal cattivo gusto... insomma in uno stato di completa anestesia... Ben presto compresi il pericolo di un ripetersi indiscriminato di questo tipo di espressione e decisi di limitare a un certo numero per anno la produzione di ready-made. Mi rendevo ben conto a quel tempo che, ancor più per lo spettatore che per l'artista, l'arte è un mezzo per autointossicarsi, e volevo preservare i miei ready-mades da una simile profanazione». Marce/ Duchamp è consapevole che l'arte ha in sé la possibilità di diventare un potente mezzo d'intossicazione ma, contemporaneamente, offre a tutti noi la possibilità di diventare artisti perché è sufficiente pensarlo per esserlo; e insieme, decide di limitare la produzione di ready-made perché, forse, crede ancora nel/'arte. Anche se poi la maggior parte della sua vita la trascorreràgiocando a scacchi: l'enigma Duchamp rimane tale e la mostra, soprattutto per i giovani delle accademie e non, presenta con grande chiarezza il percorso paradigmatico, non di" un artista tra gli altri, ma dell'arte in quanto tale. Che cos'è l'arte? Ciascuno potrà interpretare liberamente l'opera di Duchamp, senza dimenticare, però, che prima di creare è necessario pensare. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Lo scrittore vestito da donna pagine 8-9 (La realtà in cui viviamo, di H. Blumemberg; Contra dogmaticos, di L. Nanni) pagina 16 Sebastiano carta A cura di Claudia Salaris pagine 38-39 Mensile di informazione culturale Pubbliche relazioni: Monica Palla A più voci Informazione culturale pagina 3 Mang Ke pagina 4 Sergio Manghi . L'argilla e la mente pagina 5 Antonello Sciacchitano Elogio del matriarcato pagina 6 Antonio Porta Il romanzo di Raboni pagine 6-7 Avviso ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per / pacchetti di Alfabeto; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 Flavio Cuniberto Sul Geist pagina 9 I pacchetti di Alfabeta Carlo Fonnenti Il corpo esploso (Metafore della pubblicità, li corpo elettronico, Archeologia dell'immaginario, di A. Abruzzese; li medium nucleare, di L. Caramiello) pagina 11 Renato Barilli Tabucchi, Fortunato, Barbaro (li gioco del rovescio, di A. Tabucchi; Luoghi naturali, di M. Fortunato; Diario a due, di P. Barbaro) pagina 12 Aldo Colonetti Jauss e Bourdieu (La parola e il potere, di P. Bourdieu; Estetica della ricezione, di H.R. Jauss) pagina 13 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei liCfr Cfr/da Parigi pagina 17 Cfr/da New York pagina 17 Cfr/11lavoro delle riviste pagina 18 Cfr/Poesia pagine 19-20 Cfr/Convegni pagine 20-23 Cfr/Recensioni pagine 23-29 Saggi Bruno Accarino .. Conservatorismo pagine 30-32 Giampiero Comolli Declino della voce narrante pagine 33-35 bri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla redazioLe immagini di questo numero La non-arte di Marcel Duchamp di Aldo Colonetti In copertina: disegno di Andrea Pedrazzini ne vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabeta» è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - della cooperativa Alfabeto Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Marco Santini Antonella Baccarin Editing: Luisa Cortese Edizioni Caposile s.r.l. in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. 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I Alfabeta 109 A più voci pagina 31 ormaziòiie culturale 1 Un sondaggio recente (realizzato dalla Computel per il «Corriere • della sera», 15 maggio 1988) su un campione considerato significativo di lettori di libri, sembra dar ragione a quello che «Alfabeta» ha pubblicato in una serie di «Taccuini» dal n. 101 in avanti. La sorpresa più rilevante è la scarsa incidenza della TV sulle scelte dei lettori (appena il 9%) Chi guarda la TV non legge quasi mai libri e comunque chi li legge diffida del ben noto «vo' cumprà» televisivo. Si era appunto notato su queste pagine che gli scrittori che si sono immolati alla televisione, di Stato o privata, sembravano dirigersi verso il nulla o, peggio, verso la perdita dell'onore nei confronti degli spettatori più sensibili. Qualcuno ha notato, ma con il «senno di poi», che la diagnosi era perfino elementare, degna del Dott. Watson, il medico amico e confidente di Sherlock Holmes. Ma tanto elementare non deve ancora essere se la pubblicità de «L'indice» di domenica 15 maggio 1988 recita così: «L'Indice orienta meglio di 24 pollici». Alla luce dei dati e delle «elementari» deduzioni di cui sopra, occorre allora chiedersi a chi è rivolto l'invito de «L'Indice». Permane una notevole confusione di idee sul ruolo del libro e della TV nella cultura di oggi. La TV è ancora un mito per molti intellettuali nonostante la sua perdita di incidenza che risulta sempre più evidente (anche negli USA). 2. Seconda sorpresa del sondaggio di cui al punto 1. è la rivincita della tanto vilipesa «recensione». Il 25% dei lettori si è orientato all'acquisto di un nuovo libro tenendo conto di una recensione apparsa sulla terza pagina di un quotidiano o sull'inserto libri. ,.,,lillll --.'· ·.: .;. ........ Qualcuno aveva affermato, con una sicurezza non si sa su che cosa fondata, che in Italia non si leggono le recensioni, contrariamente a quanto accade nei paesi anglo- ~assoni. In quella che è stata definita una probabile «Bibliopoli», con circa due milioni e mezzo di abitanti, il lavoro faticoso e ingrato del recensore di libri ha sempre importanza; la condizione è che il recensore si rivolga ai lettori e non parli ammiccando agli addetti ai lavori. La vecchia società letteraria si è in pa_rte dissolta o comunque ha perso l'importanza che aveva ancora vent'anni fa (basta leggere le lettere di Pier Paolo Pasolini, soprattutto il volume II dell'Epistolario completo pubblicato da Einaudi qualche mese fa); in compenso, e vantaggiosamente, ha preso consistenza l'opinione dei lettori: il 49% delle scelte è determinato dal «consiglio di amici, conoscenti, insegnanti». Diffidenza totale, invece, per le classifiche dei libri più venduti, persino un punto meno della TV: 8% di incidenza. Un no secco alle operazioni di marketing editoriale. Contrasta con questo atteggiamento salutare dei lettori lo spazio sempre maggiore concesso alle classifiche dai quotidiani. 3. Al Salone del libro di Torino il 19 maggio si è discusso del ruolo delle riviste dell'informazione culturale. Il dibattito è stato promosso da «L'Indice». Poco prima del Salone è uscita «Leggere». Naturalmente si è tentato di metterle tutte sotto processo, e non è la prima volta, soprattutto prima del Salone, da parte dei settimanali. L'impressione è che si continua a •fraintendere il ruolo e sottovalutare l'effetto moltiplicatore che invece le riviste specializzate hanno sempre avuto. Non si tiene neppure conto che.le riviste specializzate hanno occupato il posto lasciato libero da quotidiani e settimanali dediti alla cultura spettacolo che, come si è visto, interessa ben poco chi legge libri per puro piacere culturale o per necessità d'aggiornamento (gli operatori, gli insegnanti, per esempio). Le riviste mensili scommettono solo sul futuro? Può essere, ma sembra ci sia già un presente molto attivo e ricettivo. Per rendersene conto basta andare nelle scuole e parlare con gli studenti e con gli insegnanti più impegnati. Tutte le iniziative che hanno portato gli scrittori nelle scuole (quelle della Provincia di Roma o di Lucca) hanno dato buoni risultati e hanno mostrato con chiarezza che le valutazioni di merito che si danno nei licei o nelle università sono molto diverse da quelle della «cultura spettacolo». Quella degli scrittori nelle scuole è in-· fatti autentica e duratura informazione culturale. 4. C'è anche chi non sopporta qualsiasi segno di vitalità culturale che possa essere definito «di massa». Guai a chi va a vedere i quadri di Van Gogh ! Pensano che sia in gioco il livellamento del gusto, il trionfo del kitsch ecc. Sono i reduci della scuola di Francoforte? Adorno era contrario anche ai libri tascabili, tanto per ricordare q\lalcosa di macroscopico. Sembra che nel tempo delle «lotte senza classi» il vecchio bersaglio della classe media sia ancora in grado di produrre eccitazione. Sembra che nel tempo di molteplici e contrastanti convivenze (non connivenze) si rivendichino i diritti esclusivi di una cultura che si autoproclama «alta», di una cultura-guida, con nostalgia di «centralismodemocratico». Ma è proprio la convivenza planetaria di valori molto diversi ma non incompatibili (tra ricerca artistica di punta, Brancusi, Duchamp e Mary Reynolds a Villefranche, 1925 per esempio, e linguaggio della pubblicità) che impone un'informazione chiara, netta e non solo per addetti, che impone rispetto per il pubblico, che impone di ascoltare e osservare più che tranciare e disprezzare. Si richiede un giudizio politico nuovo non ripulsa acritica. 5. Per quanto riguarda la differenza, per non dire il rifiuto, da parte dei lettori di libri, o abitanti di «Bibliopoli» (di cui al punto 2.) della politica dei «best-seller» e del marketing editoriale ricalcato su quello di altri beni di consumo, c'è un dato che conferma i risultati del sondaggio Computel (cfr. punto 1.), un dato che dimostra l'obiettiva sconfitta di quella politica; riguarda la casa editrice leader del mercato, la Mondadori Editore. Nella relazione sul settore libri della società di Segrate pubblicata sull'inserto «L'Espresso affari» allegato al n. 19, 1988, si legge infatti che nel 1987 «Dieci novità Mondadori hanno superato le 50mila copie e quattro le centomila copie. Sono Perestrojka di Gorbaciov, Il sole malato di Enzo Biagi, Giorgio e il drago di Forattini e Presunto innocente di Turow». • Chi ha memoria delle pubblicità di lancio del 1987e dei tanti «best seller» annunciati si domanderà dove sono finiti quei successi e quanto spazio è stato occupato dal magazzino delle rese, ammesso che le tirature dichiarate fossero quelle reali. In questo scenario certamente inaspettato nel clima di trionfi manageriali cui ci eravamo assuefatti, l'informazione culturale corretta assume un'importanza che troppi avevano sottovalutato, in misura proporzionale alla sottovalutazione dell'intelligenza dei lettori e del pubblico in generale. * * *

I pagina 4 La strada Ancora non è chiaro quanti anni ho vissuto qualche decina certo e forse è piena solo di cose oscene la mia testa i piedi sulla strada calpestano con rabbia l'ombra di una ragazza da dietro urtato dal mio corpo in movimento un bambino mi guarda tranne me nessuno sa che un vecchio sta raccogliendo qualcosa da terra e nessun altro si accorge di quei ragazzi che pisciano sporgendo il ventre uno sconosciuto sta vomitando in un angolo davanti a quelli che passano voltandomi di colpo mi trovo addosso due occhi sfrontati e volgari e non capisco perché mi stia fissando senza paura di perdere la faccia A più voci le dico «ciao» per scherzo lei spaventata ritira la sua testa che cosa avrà pensato mi rendo conto che una risata non ha senso una donna impaurita corre via il suo grido è la sirena dell'autoambulanza un individuo rozzo la insegue con la bocca piena di parole sconce tra quelli che guardano ridendo c'è qualcuno che fa un gesto osceno un ragazzo sputa sul corpo di una giovane donna disegnato sul muro per poco non perdo l'equilibrio accidenti a quei mucchi di immondizie alle mie spalle un mendicante gratta la terra in cerca di qualcosa è ora di cena solo se hai i soldi puoi andare al ristorante un tizio con cipria e brillantina entra in un cesso liberandosi in fretta della cinta Dall'orlo dell'acqua viene il vento Dall'orlo dell'acqua viene il vento con l'odore di un corpo maschile cammina sulla riva grondante quasi esausto ormai indossa veloce un vestito si ferma si volta a guardare nient'altro che la quiete dell'acqua il roseo petto denudato quei boccioli del loto forse per troppa eccitazione sempre sul punto di esplodere 1983 Ritorno Si scende è dipinto di verde e di tutti i colori Alfabeta 1091 gremito in un giorno estivo soffocante apparso nelle strade della città con fragore ad una fermata improvvisa che è tramonto l'autobus festivo basta un'occhiata per accorgermi di lei occupiamo due punti non lontani con le spalle rivolte ad una notte indecifrabile mi aspettava nell'inquietudine verso di me cammina un uomo grasso e pigro che mi lancia un'occhiata distratta la gente a poco a poco si dirada io prendo nota di quelli che rincasano in quel momento ho avvertito i suoi occhi i suoi occhi fatti enormi un gatto imbecille si è preso una pedata e non la smette con i suoi lamenti idioti con un gesto lo minaccio e gli dico saltagli addosso e graffiagli la faccia quel gatto imbecille scappa via io lo mando al diavolo per sempre in alto si apre una finestra si affaccia il brutto viso di una ragazza Nota Mang Ke, nato nel 1951, è il maggiore poeta della dissidenza cinese, un fenomeno· artistico e letter~rio oggi di non facile definizione, se si pensa, ad esempio, che tra gli scrittori dissidenti si può in un certo senso includere anche Wang Meng, l'attuale ministro della cultura. Differenziandola dalla dissidenza politico-culturale dei paesi dell'Est europeo, in particolare dell'Unione Sovietica, e dagli altri regimi totalitari, possiamo definire quella cinese una vera e propria corrente letteraria, che si muove lungo percorsi, modelli e affinità di gusto non accettati dalla politica culturale di Stato, rimasta ferma alle tesi di Yan'an (1937) del presidente Mao. Poiché in Cina politica e cultura sono inscindibili e complementari, ecco che le scelte letterarie estranee a quelle ufficiali persino quel sole là sembra affrettarsi verso la sua casa ansiosi di staccarsi dalle orbite e volarmi incontro e subito ho pensato alla collisione di due corpi come ad una velocità fantastica come sentire la rivoluzione degli astri una forza cosl immensa si è fatto buio continuo a camminare insieme al mal di stomaco che si sprigioni fracassando le ossa tuttavia non è accaduto niente di simile nessuno di noi due sa come ora voglio gridare come un pazzo e che la strada vibri insieme alla mia voce siamo diventati pietra 1974 diventano automaticamente scelte politiche. Optare o non optare per l'io, privilegiare il disagio sociale piuttosto che le glorie del partito, esasperare le lacerazioni di una «generazione perduta», quella che ha fatto la rivoluzione culturale, in;ece che evidenziare l'ottimismo-volontaristico delle quattro modernizzazioni, usare metri, lunghezze e metafore eterodosse sono altrettante scelte che comportano in poesia l'etichetta di «oscuro», che in Cina equivale a dissidente. In realtà la poesia «oscura» (menglong) si riferisce a un gruppo di giovani poeti, approdati, dopo la tempesta della rivoluzione culturale, a una comune volontà di cambiare pagina, di ripartire dall'oggi. «Oggi» è infatti il titolo della rivista che li ha accolti, e attraverso la quale hanno cercato di attuare una modernizzazione non 1983 Traduzione di Vilma Costantini Marce/ Duchamp in un disegno del fratello Jacques Villon, 1904 contemplata dalla nuova linea politica, quella della libertà artistica e di pensiero. Accusati di «tradimento» della tradizione cinese, di aver raccolto i rifiuti del capitalismo occidentale, rimproverati aspramente dalla critica e dalla poesia ufficiale perché oscuri e incomprensibili alle masse, i poeti di questo gruppo sono stati costretti a sospendere la pubblicazione della rivista dopo solo nove numeri, a ritirarsi nel silenzio o ad integrarsi. Mang Ke, vice-direttore di «Oggi», ha continuato per coerenza a restare in questo silenzio forzato, non mantenendo rapporti con l'ufficialità culturale, non chiedendo di entrare nell'Associazione degli scrittori cinesi. Stampa al ciclostile le sue poesie, che tuttavia circolano senza troppi problemi anche tra gli stranieri. Inviato, intorno alla metà degli anni settanta, con gli altri studenti a far finta di cambiare il mondo contadino, ha cominciato in realtà a discutere di poesia nuova entrando nel «gruppo del lago Baiyangdian», che poi è convogliato nel gruppo di «Oggi». Le sue prime opere, tra cui anche La strada, lette e discusse all'interno del gruppo, risultano cosl lontane dalla realtà politicoculturale dell'epoca da costituire un documento straordinario. Non ha mai smesso di scrivere, ricercando una via del tutto autonoma, captando segnali estranei arrivati fortunosamente nel deserto culturale in cui è vissuta la sua generazione, rielaborandoli in ritmi, cadenze e metri personalissimi. Vilma Costantini

Alfa beta 109 A più voci L'ar • 1. Pensare è una faccenda tutt'altro che semplice. Secondo Martin Heidegger, finora gli uomini hanno agito troppo e pensato poco raccontando a se stessi, in particolare dall'era moderna, all'incirca l'opposto. Con tutta la nostra scienza non abbiamo ancora imparato che cosa significa pensare. Procediamo febbrilmente nell'adattare il mondo circostante a noi stessi in modi sempre più capillari e sofisticati, fino a minare le basi più elementari della nostra esistenza di specie, convinti in buona fede di padroneggiare lo strumento degli strumenti: il pensare. È solo con il fantasma della catastrofe ecologica che siamo presi (ma ancora marginalmente) dal dubbio: stiamo pensando con la dovuta complessità (epistemologica) la complessità (vivente)? Dubbio imbarazzante, poiché impone che si dubiti di noi stessi, del nostro stesso pensare. È il dubbio sistematico applicato - diversamente che in Cartesio - anche a se stesso. Ma è l'Hic Rodhus di ogni pensiero che si voglia ecologico: non il mito dell'Arca(dia) perduta; non le bandiere verdi issate in luogo di quelle rosse; non una descrizione semplicemente più ricca e articolata delle cose del mondo. Ma l'interrogazione costante sui sottili presupposti impliciti nel nostro pensare, quello quotidiano e quello specialistico. Come suggerisce Gregory Bateson: «Se volete comprendere il processo mentale, guardate l'evoluzione biologica e, viceversa, se volete comprendere l'evoluzione biologica, guardate il processo mentale». Seguendo questa cifra, può capitare di imbattersi in maestri dell'ecologia della ·mente alquanto inattesi al senso comune ecologico, come ad esempio Sherlock Holmes. Si prenda il seguente dialogo tra il celebre detective e il fedele Watson. Watson: «Sospetta di qualcuno?» Holmes: «Di me stesso». Watson: «Cosa?» Holmes: «Di raggiungere delle conclusioni troppo affrettate». 2. Il riferimento a Holmes non sembri troppo improvvisato: è A. Graham CairnsSmith, docente di chimica all'università di Glasgow, a proporlo nel suo eterodosso Sette indizi sull'origine della vita, (Napoli, Liguori, 1986), brillante versione divulgativa di un precedente volume specialistico. Una serie di puntuali citazioni dai racconti di sir Conan Doyle fa da contrappunto allo stringente percorso analitico del testo riuscendo non soltanto a farci sorridere, ma anche a farci riflettere. Il modo di pensare, si suggerisce, è l'ingrediente principale di cui sono fatte le teorie scientifiche. «È caratteristico delle persone intelligenti - leggiamo a p. 68 - il fatto di non capire cose che per gli altri sono chiarissime. Newton non capiva la gravità, che per chiunque altro era un fatto ovvio. (Perché questa mela si muove verso la Terra?). Einstein non capiva la luce. (Cosa succederebbç se qualcuno cavalcasse un fascio di luce e guardasse nello specchio?). E naturalmente Sherlock Holmes era sempre incuriosito da cose apparentemente ovvie e triviali. Capire è bene, ma non capire può essere molto interessante. Ecco perché in questo libro si insiste tanto su ciò che è terribilmente difficile circa il problema dell'origine della vita.» Cairns-Smith- che tra l'altro è anche pittore (mancato, usa schermirsi) e ottimo sommélier - ha tutte le carte in regola per invitarci a una lettura trasversale dei «dati» fiSergio Manghi nora a disposizione circa l'origine del DNA. Oltretutto, l'ipotesi stessa del volume - in breve: che l'origine della vita sia debitrice non tanto del carbonio quanto dei silicati dell'argilla - sembra fatta su misura per sollecitare le energie più riposte del no- ·Stro immaginario, tanti sono i miti dell'antichità che la prefigurano, dal soffio fecondatore di Yahweh sulla creta-AdaJllo, al Golem della tradizione ebraica, al Cecrope balzato dal suolo ateniese per originare l'umanità. 3. Le convinzioni più diffuse nella comunità scientifica circa la lettura dei primi organismi sono sintetizzate dalla ben nota metafora del brodo primordiale, formatosi negli oceani grazie a un'atmosfera simile a quella attuale di Giove, ricca di gas non ossidati (metano, ammoniaca, idrogeno). L'evoluzione della vita sarebbe cioè stata preceduta dall'evoluzione chimica che le avrebbe fornito i materiali di base (amminoacidi, zuccheri, ecc.). S~nonché, gli esperimenti che hanno tentato di ripetere l'origine della vita a partire da quest'ipotesi (o da altre analoghe) hanno raggiunto risultati assai scarsi. Ebbene, per Holmes-Cairns-Smith ciò non è dipeso da limiti di laboratorio, ma dal fatto che la pista lungo la quale ci si ostinava a perseguire quei risultati è falsa. Meglio: il modo di pensare con cui si cercava la pista è fuorviante. Ovvero: ci si ostinava a ritenere ovvio che ciò che appare cruciale e universale nel vivente oggi - il DNA, la sua capacità di auto-replicarsi producendo in proprio le proteine di cui abbisogna - dovesse anche essere la causa prima della vita. Ma se abbiamo di fronte un ordinato arco di pietre, obietta il Nostro, non siamo obbligati a supporre che sia stato «causato» dalle parti di cui è composto (le singole pietre), venutesi a combinare in quella forma in modo del tutto casuale e in condizioni del tutto fortuite. Perché non supporre ad esempio, in via alternativa, che quell'arco sia ciò che rimane di un mucchio di pietre dopo un lungo processo di sfaldamento che ha fatto scomparire le pietre-supporto? Il fatto che queste ultime non siano oggi più visibili, non le renderebbe per questo meno fondamentali. «Caro Watson, è possibile che non vi siate accorto che il caso ruota intorno al bilancere mancante?» L'attuale meccanismo molecolare avrebbe insomma potuto evolversi in simbiosi con un'impalcatura che l'ha preceduto e favorito. Tale impalcatura, a propria volta, avrebbe potuto esser costituita da minuscoli cristalli d'argilla, materiale inorganico «a bassa tecnologia» ma già dotato di un'organizzazione capace di una relativa autonomia e di una discreta capacità di evolvere per autoreplicazione. Dei «geni di cristallo», così li chiama Cairns-Smith, presenti in gran copia sulla crosta terrestre, che si sarebbero gradualmente trasformati in molecole organiche. Dopo una prolungata convivenza fra quei geni primitivi e le prime molecole organiche, attraverso una progressiva «usurpazione genetica», l'arco sarebbe divenuto capace di reggersi da sé rendendo superflue le pietre-supporto, ridotte oggi di conseguenza allo stato di «anelli mancanti». 4. Viene in tal modo ribaltata, nientemeno, l'opinione più accreditata intorno all'origine della vita. Cioè intorno a una questione di importanza capitale che inve- .. ste direttamente e drammaticamente la cultura del nostro tempo e che troppo spesso si è lasciata agli orticelli segregati degli specialisti. Non sono né un chimico né un biologo e non posso valutare l'attendibilità degli affascinanti esiti cui perviene CairnsSmith (cui non sono peraltro mancati autorevoli segnali d'attenzione). Ma mi pare una misera operazione quella che tentasse di ridurre il suo lavo~o a quegli specifici esiti. Non soltanto perché l'autore è il primo ad aumentare le difficoltà insite nell'impiego di termini come «geni di crista~- lo», «usurpazione genetica» e altri. Ma soprattutto perché il suo racconto di come potrebbe esser stato commesso il «crimine originario» ci fa accedere ai primi passi di un possibile nuovo e appassionante capitolo del sapere. Un capitolo chissà, forse paragonabile, come si è spinto a congetturare un Primo Levi su «La Stampa» in una bella discussione del libro, a quelli di Newton e Darwin. E comunque uno sforzo intelligente di inscrivere il problema di che cosa sia la vita in una prospettiva di complessità alternativa alle ortodossie riduzioniste finora dominanti. 5. -Per apprezzare la portata dell'eterodossia insita nell'ipotesi che la vita nasca dalle argille occorre risalire a poco meno di vent'anni fa, a quando cioè Jacques Monod affermava nel suo celebre Il caso e la necessità che ormai, con la scoperta del DNA e con la nozione di «programma genetico», il mistero della vita era definitivamente svelato. Invano qualcuno faceva notare che con quel passo pur cruciale si aprivano altrettanti problemi quanti se ne chiudevano (la chiarezza dell'idea del codice genetico come programma, immagine tratta dalla cibernetica, diventa in realtà, trasposta dall'ambito artificiale a quello naturale, il mistero di come un sistema sia in grado di programmarsi da sé, osserva Henri Atlan). Invano qualcuno chiedeva se tanta ansia di «verità ultima» non denunciasse la natura intimamente mitico-religiosa di un certo presunto «materialismo» (è il Monod-ateismo che si oppone al mono-teismo, recitava un gustoso calembour di Edgar Morin). Invano altri ancora si ingegnavano a mostrare che le cose non potevano stare in quei termini così semplificati, atomistici e riduzionisti. Il nuovo paradigma con al centro il mito del gene e una visione «ortodossa» della macchian neo-darwiniana, appariva molto potente, capace di orientare ricerche di laboratorio, osservazioni etologiche, teorie evolutive, progetti di controllo dei fenomeni biologici, comportamentali e - alla lunga - sociali. Chi vi si opponesse era definito spregiativamente vitalista, oscurantista o metafisico. A chi, dal lato delle scienze sociali e umane, avvertisse l'urgenza di un ponte - un passaggio a Nord-Ovest - in direzione dell'evoluzionismo e delle scienze naturali, non era consentita altra scelta che quella fra vestire i colori del gene-riduzionismo e combattere una battaglia di retroguardia, tutta in negativo, contro le rozze incursioni di etologi e sociobiologi in campo umano. 6. Ma per lo più l'effetto del dogmatismo neodarwiniano sullo studio dell'uomo era la semplice conferma del dualismo cartesiano mente-natura già profondamente radicato nella nostra cultura. Del resto, non aveva scritto lo stesso Monod che la comparsa del codice genetico (l'arco di piepagina s j tre di Cairns-Smith} era un evento tanto improbabile che il suo esito estremo, lanascita dell'uomo, faceva di quest'ultimo, in pratica, una realtà assolutamente estranea alla natura, uno «zingaro nell'universo»? Occorre attendere gli anni ottanta perché si facciano strada, uscendo dall'isolamento e connettendosi fino a formare un arcipelago, un quasi-paradigma, ipotesi eterodosse intorno alle origini, al funzionamento e all'evoluzione della vita, ispirate all'idea di autonomia dei sistemi naturali e di complementarità fra i diversi livelli organizzativi del vivente. La nuova alleanza uomo-natura auspicata da Prigogine è apertamente polemica verso la metafora dello zingaro nell'universo. Le teorie saltazioniste dell'evoluzione (Gould-Eldredge) incrinano il pregiudizio gradualista che impediva la comprensione delle macro-emergenze viventi più complesse. Altri lavori, all'incontro fra teorie sistemiche à la Bateson e originali riletture piagetiane, pongono i meccanismi cognitivi alla base del comportamento e dello stesso processo evolutivo (Maturana-Varela). Sempre più numerose sono ormai le ricerche che avvalorano quel nuovo senso comune indispensabile a non trattare l'eterodossia in materia di vivente come residuo non vinto di istanze spiritualistiche o come curiosità letteraria .per animi stravaganti, ma come avvio di una logica della complessità in grado di ridisegnare la mappa dei saperi. 7. Il lavoro di Cairns-Simith si colloca a pieno titolo entro questo scenario, facendo uscire allo scoperto la discussione su uno dei suoi punti chiave, quello dell'origine della vita. L'ipotesi delle argille potrà anche non risultare pienamente confermata (e lo stesso autore non lesina i forse), ma il sasso è gettato. Quale che sia la risposta più attendibile, essa non potrà più «ingenuamente» applicare ai sistemi naturali un modo di pensare buono per i sistemi artificiali: «Noi - troviamo ribadito a p.76 - possiamo costruire una macchina facendone prima un disegno, poi elencando una lista di componenti necessari, in seguito acquistando i componenti e infine costruendo la macchina. Ma questo non può mai essere il modo di funzionare dell'evoluzione. [... ] È l'intera macchina che dà senso ai suoi componenti». Quale che sia la risposta più attendibile, essa non potrà più «ingenuamente» ignorare che il suo stesso intrinseco modo di pensare è responsabile primario dei prodotti del suo pensare. Finché la mente assegnerà a se stessa il compito di «stare ai dati» e racchiuderli entro un recinto meccanicista aspirando ad azzerare tendenzialmente il proprio intervento attivo e costruttivo, essa produrrà efficaci tecnologie di controllo del vivente ma non comprenderà la natura del vivente stesso. Chiamandosi fuori dall'evoluzione ne impoverirà il corso favorendo la propria stessa fine. Procederà, per tornare ad Heidegger, ad agire troppo pensando poco. Non accontentarsi, dunque, di stare ai dati: «Mi accorsi dalla faccia dell'Ispettore che la sua attenzione era stata intensamente risvegliata. 'Lo crede importante?' chiese. 'Straordinariamente'. 'C'è qualcosa che vorrebbe farmi notare?'. 'Lo strano incidente capitato al cane di notte'. 'Ma di notte il cane non ha fatto niente'. 'È questo lo strano incidente' osservò Sherlock Holmes».

I pagina 6 << Mi consente un prologo oscurantista?» «Cosa vuol dire?» «Ecco un grande libro non scientifico.» «Oh, bella! Ce n'è tanti.» «Sì?» «La Bibbia, la Divina Commedia, gli Ossi di seppia.» «Tanti? Pochi a fronte del dilagante inquinamento scientifico. Non dico l'inquinamento ambientale ma mentale.» «Ecco l'oscurantista. Lei è contro la scienza.» «Le avevo ben chiesto di esprimermi in tali termini.» «Sarebbe meglio che dica quel che ha da dire senza oscurantismi.» «Allora devo rinunciare al prologo.» «Un po' di rigore, andiamo, non farebbe male.» TeoremaSSS: Il soggetto soffre la scienza. In realtà il teorema non è tale perché il soggetto, che tanto soffre a causa della scienza, non ha le parole per dirlo. Né possiamo farlo noi per lui, che arriveremmo a dimostrare un teorema diverso, e precisamente: TeoremaASS: L'altro soffre la scienza. La dimostrazione si divide in due parti. Nella prima si dimostra che la scienza non fa posto all'altro, al secondo termine della coppia intersoggettiva io-tu. La scienza è al servizio dell'io: lo libera dalla persecuzione dell'altro. (Corollario: la scienza guarisce l'io dalla paranoia.) Nella seconda parte si dimostra che la scienza non fa posto all'altro della parola e della verità. La scienza, e qui si torna al teorema SSS, fa soffrire il soggetto precludendogli la possibilità di parlare; gli sbarra l'accesso alla parola vera. La scien.za è un sapere, non falso, ma senza verità soggettiva (tecnicamente è un sapere a-aletico). I dettagli dimostrativi sono lasciati al lettore. «No, non ci siamo. Così si passa dall'oscurantismo all'oscurità. Sarebbe meglio parlare del suo grande libro ·non scientifico.» «Lei è decisamente migliorista. Cerca sempre il meglio. Non ammette altre possibilità.» «Se ce ne sono, è meglio parlarne.» A più voci «Ci provo.» Devo spiegare in che senso ritengo che il libro di J. J. Bachofen, Il matriarcato, per la prima volta tradotto integralmente da Giulio Schiavoni per i Millenni di Einaudi, sia un grande libro non scientifico. Grande lo è anche materialmente. È appena uscito il primo tomo di LXXIV + 522 pagine (Lire 60.000) e l'annunciato secondo, che conterrà gli indici, non sarà da meno. Grande è, poi, per l'immensa cartografia preistorica attraverso cui l'autore rintraccia le origini del diritto materno: das Mutter recht (si potrebbe dire: le origini del diritto nel materno) in un'area geografica che comprende Licia, Grecia, Egitto, India e Asia Centrale (nel II tomo), identificando nei miti locali i residui, sopravvissuti nella deformazione letteraria, di una ginecocrazia mai del tutto superata dalle forme successive, paterne, dell'esercizio del potere, con particolare riguardo ai modi della trasmissione del nome. Grande è, infine, il respiro dell'argomentazione a spirale logaritmica (che taglia ogni raggio vettore sotto lo stesso angolo) la quale ribadisce e amplifica sempre lo stesso tema: in principio era la madre. La non scientificità, invece, è un merito intrinseco del libro, che poteva anche essére piccolo (in fondo basta leggere Preambolo e Introduzione), conservando questa sua peculiarità·. La non scientificità de Il matriarcato è una conquista che l'autore neppure sospettava. Bachofen partì, lancia in resta, per realizzare una Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, recita il sottotitolo. Oggi il verdetto della comunità scientifica è unanime. Bachofen, nel lontano 1861, scoprì il diritto materno contrapposto al paterno com·e il diritto naturale si contrappone al positivo, la terra al sole, la notte al giorno, la materia allo spirito. Cito dalla prefazione di Furio Jesi: «Sembra oggi ragionevole affermare che Bachofen fu davvero il primo a configurare con sufficiente organicità e chiarezza il complesso concettuale e istituzionale del diritto materno» (p. XVIII). Ma proprio questo è il punto: che l'argomentazione non è scientifica e nella non scientificità trascina la sua stessa scoperta che, si dice, è «datata», «di destra», »mitologica». L'analisi dei miti è, infatti, antistorica, le etimologie sono per lo più fasulle (siamo in epoca presaussuriana), tutta la ginecocrazia bachofeniana è un costrutto mitologico. «Se ancora oggi si è disposti ad ammettere che il diritto materno, alcune istituzioni del diritto materno, facciano parte della storia, la ginecocrazia in senso stretto sembra far parte esclusivamente della mitologia» (Ivi p. XIX). Allora, W la mitologia e M. la scienza: o viceversa? Ecco cos'è successo. Bachofen, che Benjamin dichiara «profeta», entra a pieno titolo nel discorso scientifico ma il progresso scientifico lo sopravanza e lo l,asciada parte come curiosità da museo, come un alchimista ante Lavoisier. Bachofen esordisce da scienziato ma cessa d'esserlo suo malgrado. Lo buttiamo via per questo? Lo archiviamo come caso storico? O possiamo recuperarlo a un altro livello? Un altro grande libro di un altro grande, nato scienziato, ma ora in odore di non scientificità, subì sorte analoga. Uscì nel 1912. Mezzo secolo dopo Lévi-Strauss ne sanciva la morte scientifica. Totem e tabù parlava del padre. Dava corpo mitico al massimo enunciato della filosofia moderna: «Dio è morto». Con un appiglio debole a Darwin e uno scivoloso a Frazer, Freud volle dare veste scientifica al suo mito. Ma il piccolo Claude svelò quello che tutti sapevano: l'imperatore era nudo. Evviva! Ne vorremmo tanti di questi testi ex-scientifici. Come chiamarli: filosofici, teosofici, morali? Forse mitologici o profetici sono termini più adatti. Sono loro che insegnano a pensare e a balbettare le verità del soggetto che la scienza esclude. Sono loro che trattano cose semplici ma forti, in realtà debolmente definibili: cos'è un padre, cos'è una donna, cos'è cosa (sulla cosa cfr. Lacan e la Cosa di E. Fachinelli, «Alfabeta», n. 104).1 La storia della scienza è appena cominciata. Verranno altri Freud e Bachofen. Saranno benvenuti. Per il commento serio, nel merito, dell'opera di Bachofen rimandiamo alle dotte prefazioni che la corredano. Qui vogliamo semplicemente tessere l'elogio dell'abilità Alfabeta 1091 mitopo1ettca del grande basilese; elogio che, per essere credibile, deve tenere conto delle luci e delle ombre che marezzano il corpo del mito. È luminosa la reintroduzione nel discorso colto (maschile) della valenza del desiderio femminile, sia pure ritrovata solo a livello mitico. È illuminante la trascrizione delle antiche leggi non scritte - è come assistere al miracolo di un muto che parla. Ma, d'altro canto, sono oscure certe riduzioni di questo discorso, difficile, se non impossibile, alla dimensione religiosa concepita, se così si può dire, come regressione al materno. Cos'è una donna? Una sacerdotessa, risponde Bachofen. Prostituta e vestale, amazzone o moglie, è sempre lei, col bello o col cattivo tempo, in pace o in guerra, in regime nomade o sedentario, è sempre lei, la madre, la sacerdotessa che celebra i misteri ctonii e notturni della vita: la nascita e la morte. Non è una critica. Conosciamo bene la difficoltà di pensare la trascendenza fuori dalla religione. La morte di Dio è solo l'inizio di un discorso sulla (o della) trascendenza. Ma l'imperativo morale del soggetto (postmoderno?) passa di lì, anche a costo di fallire scientificamente. È oscurantismo questo? È oscurantismo l'eccesso epistemologico della scienza che, dice Feyerabend, è solo un'ideologia tra le altre, da trattare con tutto il rispetto dovuto alle ideologie e forse un tantino di più, non grazie al suo massiccio successo, ma perché la scienza, radicata nel desiderio di sapere, cresce al posto del soggetto: è l'albero che indica dove scavare per disseppellirlo. Ma se lo schiaccia, se gli toglie la parola, allora viva l'oscurantismo, viva la mitopoiesi, chi la sa fare. Nota (1) Come passare sotto silenzio a questo punto un mirabile controesempio della stessa epoca? Erwin Rhode, con la sua Psyche. Culto delle anime presso i Greci, del 1893 (Laterza, 1982), dimostra come si può trattare un tema mitologico - l'anima - senza perdere in scientificità e senza passare per lo strutturalismo. Il controesempio è ancora dalla parte di Freud che nel 1933 poneva a Einstein la questione: «Ma non approda forse ogni scienza a una sorta di mitologia?» Il romanzòuindi Raboni 1. È buona norma leggere con attenzione quello che un autore dice di un suo libro. Nella nota finale di A tanto caro sangue (Mondad~ri Editore, pp. 152, lire 20.000) Giovanni Raboni scrive: «È probabile che io pretenda o mi aspetti un po' troppo da questo libro pensando a esso come a un nuovo libro che sia anche, nello stesso tempo, il mio ultimo e il mio unico libro». Ancora:«[ ... ] quando ci ho messo mano non sono assolutamente riuscito a mantenermi fedele all'ipotesi, da cui pure ero partito, di confezionare una semplice antologia, un semplice volume di selected poems, e ho cominciato invece a sentire il bisogno di selezionare, certo, ma anche di ripensare e in qualche modo riorganizzare, e al limite, 'riscrivere' tutto il mio lavoro ... ». Antonio Porta Ci si mette su una buona strada interpretativa individuando due passaggi fondamentali che segnalano il punto di vista che ha ispirato la nuova opera («il miQ.ultimo e il mio unico libro») e la dichiarazione di un «montaggio» tutto inedito del lavoro che si è andato accumulando dal 1953 al 1987. Punto di vista e montaggio sono due momenti essenziali per la costruzione di un romanzo, anche solo da un lato semplicemente tecnico; dunque non sarà illecito parlare di romanzo a proposito di un libro di poesie, e di «romanzo poeticamente essenziale» parla anche il risvolto editoriale. Aggiungerei una seconda definizione possibile e plausibile: romanzo familiare costruito con immagini, che è la definizione di un film. Il montaggio è il film, come è noto, dunque il montaggio fa il racconto, e solo un racconto cinematografico può avvicinarsi a quello costruito dalle sequenze della poesia. 2. Insisto su montaggio e costruzione. Leggendo qui e là e poi tutto di un fiato A tanto caro sangue ci si rende conto che per smontare e rimontare con tanta decisione il proprio lavoro poetico Giovanni Raboni ha cambiato timbro di voce; ha lasciato da parte sfumature e teneri indugi che caratterizzavano alcune sue poesie e ha scelto un piglio forte, perfino crudele e violento, per costringere l'intera sua esistenza a dirci la verità, con le buone o con le cattive. «Il mio ultimo e unico libro» è una decisione suprema che conta come tale; siamo tutti sicuri che Raboni ci darà altre opere di un tempo successivo, ma il tempo reale di questo romanzo è stato definito una volta per tutte. Perfino le poesie che avevamo letto e inteso come insinuanti e un poco cedevoli, si sono rapprese una volta inserite nella struttura del romanzo, hanno perso l'antico alone per affilare le armi di una comunicazione necessaria e perfino perentoria, quella caratteristica di un rendiconto finale. 3. A tanto caro sangue non è un «Teatro della morte» analogo a quello annunciato e praticato da Kantor; il punto di vista della fine non comporta qui un discorso che arriva dal dopo, piuttosto suscita un'oscillazione violenta tra l'essere vivi e l'essere morti, quasi non ci potesse essere scelta tra le due condizioni; si intrecciano di continuo nel dubbio di come siamo davvero (vivi o morti?) con un'opzione dichiaratamente religiosa per la vita: «se non fosse per questi

·, Alfabeta I 09 apostoli di merda, / per queste incredibili dodici persone I che fra essere morti e essere vivi / trovano sempre qualche differenza. » come è scritto nel Rammarico del vicerè (p. 19). 4. Marshall McLuhan (1911-1980) ha scritto in uno dei suoi saggi più propriamente letterari che il montaggio cinematografico ha radici che arrivano fino alla poesia laghista inglese e ha naturalmente fatto notare che le teçniche del racconto per immagini derivano tutte o quasi dal romanzo (esempio classico ilflash-back). Dove il romanzo di poesia si distanzia dal romanzo di prosa, è negli spostamenti più netti del senso, più netti e più rapidi, come quelli di un film, appunto. Sono infatti gli spostamenti fulminei di senso che reggono la scrittura poetica di Raboni e a questi spostamenti il verso si adegua, su di essi si modella. Prendiamo da Altre interviste la sezione «Il chirurgo»: «C'è colpo e colpo. Ci sono ferite di striscio I che nessuno può guarire / e uomini che muoiono a ottant'anni / di A più-voci coltellate prese in gioventù. / Non c'è regola. Qualcuno si salva / e si fa prete. A qualcuno la vista/ s'indebolisce. A volte/ i coltelli rispuntano dal cuore / nel senso della lama». Un esempio che può valere per tutti. 5. Una delle poesie più emozionanti del libro (sì, occorre dire «emozionante», occorre, perché se l'arte è fredda diventa calda nello stomaco del lettore ... ) è Anagramma, dove viene interpretato, a distanza di anni, un bisbiglio raccolto sul letto di morte della madre, rimasto sepolto per decenni nella sua indecifrabilità fino al giorno in cui la soluzione arriva da sola e il sussurrato non pròbiso diventa un «pro nobis», dunque un «per tutti», «l'anagramma d'un pezzo di preghiera». L'emozione viene anche dal collegamento istantaneo di questa poesia con Parti di un requiem, dedicata alla morte della madre, che ha quell'ultimo verso memorabile «liberaci dall'estetica e così sia.» fondamentale per tutti noi. «Liberaci dall'estetica» è una dichiarazione carica di conseguenze: significa soprattutto scegliere la via del racconto e del romanzo come soluzione prevalente per lo scrivere in versi; opzione divaricatissima rispetto a quella dell'epifania lirica, tra le altre, o dell'illuminazione. Non che manchino questi momenti nell'opera di Raboni; ma si tratta di passaggi commisurati al racconto della vita, a un rapporto tra il dentro, l'intimo, e il fuori, la storia e la cronaca. E qui"'t>ccorreprecisare che quando si è detto «romanzo familiare» si voleva dare l'idea di una struttura portante della narrazione (del montaggio), indicando il tronco dell'albero; i rami e le foglie poi, sono ricchi di riferimenti agli eventi di questi ultimi decenni. La cornice, in altre parole, racchiude le esistenze private e con esse interagisce passo dopo passo. Questa interazione ha il suo modello, una lettura del Manzoni che aggrega, come volle il gran lombardo, romanzo e «colonna infame». p-agina 7 6. Di pietas manzoniana è indispensabile parlare anche a proposito del titolo A tanto caro sangue, e di ironia sempre manzoniana. Basta rileggersi la straordinaria sequenza intitolata Il più freddo anno di grazia, con quei due versi importanti quanto quello sulla liberazione dall'estetica: «C'è poco da sperare / nella salvezza del guscio d'uovo». A questa pietas, che è poi volontà di capire, principio di una charitas irrinunciabile, si ispirano anche i commenti e i rilievi, operati più direttamente da Raboni, sulla nostra storia recente (anche al di fuori di questo libro). Ciò che ora stupisce è certa incapacità anche minima di ascolto che la scrittura di Raboni ha dovuto subire. Alla pietas si risponde dunque ringhiando? Sì, troppe volte. C'è poco da sperare «nella salvezza del guscio d'uovo», ma qualcuno deve provarci. DemetrìO Stratos I l legame tra musica rock e devianza giovanile, almeno in Italia, è probabilmente stato il tratto distintivo del movimento del 77. A differenza dell'ormai celebratissimo 68, «serio», progressista, utopista, il 77 si è subito connotato per certi elementi di degradazione e dissoluzione della politica, almeno intesa in senso tradizionale. La musica, e in particolare il rock, sono divenuti il polo di attrazione del movimento, in sintonia peraltro con quanto stava avvenendo altrove in Europa (il punk nasce proprio nel 1976... ) Ecco perché gli eroi di quella breve stagione non vanno tanto cercati tra i «leader» del movimento, quanto tra gli artisti più sensibili e attenti, pronti a captare ciò che di nuovo veniva da quello che allora venne chiamato «proletariato giovanile». Non c'è dubbio che Demetrio Stratos, ex cantante dei Ribelli, poi «testa pensante» degli Area, sia uno dei personaggi più rappresentativi del periodo. E la sua scomparsa, avvenuta nel giugno del 1979 (dunque meno di dieci anni fa: prepararsi alle celebrazioni) diviene quasi l'emblema del tramonto del movimento. Profondamente convinto della necessità di una impostazione politica dell'attività artistica, Stratos ha disegnato nell'arco di pochissimi anni una carriera in un certo senso esemplare. Al punto che la sua storia personale si intreccia con quella del movimento: il personale è politico, si diceva allora, e mai come nel caso di Stratos lo slogan assume una verità difficilmente contestabile. 1. Nato ad Alessandria d'Egitto nel 1945, Demetrio Stratos studia fisarmonica al Conservatoire National d'Athenes, poi canta in compagnia niente meno che di Demis Roussos (futuro leader degli Aphrodite's Child). Nel 1962 si trasferisce in Italia per studiare Architettura all'università di Milano. In realtà entra subito nel giro musicale: suona rhythm'n'blues (i primi critici accosteranno il suo stile di canto a quello di Tom Jones, e non senza ragione), poi è la volta dei Ribelli, formazione beat proveniente dall'entourage di Celentano. Pugni chiusi è uno dei loro successi. Gli anni settanta segnano una svolta. Mentre approfondisce i propri studi sulla voce, che sta già conducendo da diversi anni, Stratos, insieme al batterista Giulio Capiozzo, dà vita al progetto degli Area. L'idea è quella di contaminare il rock con sonorità provenienti dal jazz (soprattutto il free). In seguito si aggiungeranno la musica Toni Robertini araba e mediterranea, per creare un mix assolutamente inimitabile, profetico e attuale, che sarebbe rimasto una delle vette più alte mai toccate dal cosiddetto «rock italiano». «Cominciammo a suonare e a provare moltissimo» dirà in un 'intervista del 1977, 1 «parlammo con Mamone, ed ebbe inizio un numero incredibile di tournée, come complesso spalla, con Rod Stewart e i Faces, i Gentle Giant, per raccogliere fischi più che consensi». Ed è proprio così: agli inizi della loro carriera gli Area in un certo senso sconcertano e spaventano il pubblico. I ì tion Radiation Area. Uscito dalla formazione il sax di Busnello, Stratos, Capiozzo, Tavolazzi, Tofani e Fariselli elaborano un sound, se possibile, ancora più radicale. Un sound in cui l'elettronica (intesa innanzitutto come produzione di rumore - dunque anticipando addirittura i Père Ubu) prende decisamente il sopravvento, insieme a una ricerca sull'improvvisazione che sta ormai tagliando i ponti con i «generi» codificati. Lobotomia è il capolavoro del disco: un suono che uccide, che provoca dolore: sintetizzatori lanciati su frequenze altissime, mentre il gruppo, durante il conLa Sposa messa a nudo dagli scapoli, 1912; matita e guazzo Raccolta Cordier & Ekstrom, /ne. New York L'immagine da feddayn del loro primo album, Arbeit Macht Frei (1973) è l'ideale completamento di un sound teso e cattivissimo, in cui le dissonanze e il caos hanno largo spazio. Un album che se la. prende con la mitologia del pop (L'abbattimento dello Zeppelin) e che coniuga la violenza del rock con la spinta iconoclasta del free jazz. Su tutto, la vocalità «araba» di Stratos che raggiunge i migliori risultati in Luglio, agosto, settembre (nero): un primo tentativo di «pop mediterraneo» giocato su tempi dispari, che sarebbe divenuto in seguito il brano di apertura dei concerti della band. Ma il punto più alto del lavoro degli Area è probabilmente il successivo Caucerto, illumina gli ascoltatori con delle torce elettriche, con l'obiettivo di rovesciare il rapporto pubblico/artista. Un'idea di provocazione che la band mutua dal rapporto con gli artisti di Fluxus (una corrente artistica tutt'altro che omogenea: al suo interno personaggi come John Cage, Walter Marchetti, Nam Jum Paik, Tadeusz Kantor, Yoko Ono, Gianni Emilio Simonetti, Juan Hidalgo, tutti comunque accomunati dall'idea di intervenire politicamente in campo artistico). Gianni Sassi, allora art director degli Area e autore dei loro testi con lo pseudonimo di Frankenstein, si incarica di trasferire nel rock alcune delle tematiche di Fluxus, di cui era un esponente. Sicché gli Area divengono cassa di risonanza delle avanguardie storiche, «provocatori» rock, che si confrontano però non col pubblico colto e raffinato delle gallerie d'arte, ma con la marea montante del disagio e della protesta giovanile. L'ambiguità diventa la loro cifra espressiva. Un'ambiguità che mette in circolazione segni e immagini contrastanti: Marilyn Monroe e la radiottività, come nella copertina di Caution. Un'ambiguità non sempre capita: «Stampa Alternativa» accusa gli Area di essere «fascisti». 2. In realtà il movimento giovanile, seppur confusamente, scopre che la straordinaria «potenza del negativo» espressa dagli Area in musica non è altro che la rappresentazione artistica della forza del movimento. Ed è così che gli Area, quasi loro malgrado, divengono il gruppo l<ufficiale» del 77 italiano (con conseguenze tutt'altro che piacevoli sul piano dei guadagni: il gruppo suona quasi sempre a prezzo politico, e spesso gratis poiché, «compagni, l'incasso è andato male» ... ) Crac/ e Are(a)zione, ambedue del 1975, marcano con chiarezza il rapporto tra la band e il movimento giovanile. Il sound è meno aspro che in passato: il desiderio è quello di coniugare Gioia e rivoluzione, come recita il titolo di uno dei brani. L'internazionale, nella versione della band, come ha scritto Mario Luzzato Fegiz, appare oggi come «l'invito alla sinistra, ai burocrati nostrani come ai 'ras' dell'Est, a svecchiarsi, a confrontare corollari corrosi con le istanze di una gioventù che, da Praga a Roma, da Berkeley a Parigi, diventava sempre più insofferente ai dogmi e ai mostri sacri».2 È questa la stagione eroica del movimento italiano. Un movimento i cui luoghi di aggregazione non sono più le manifestazioni «politiche» ma i festival all'aperto che rendono possibile quel nomadismo di marca beat che diventerà una delle caratteristiche del movimento. Parco Lambro, Umbria Jazz, Licola, sono gli appuntamenti che vedono l'aggregazione del nuovo strato giovanile. E gli Area sono sempre in prima fila. Demetrio, con la sua presenza fisica massiccia e imponente, diviene il simbolo del mov~mento, di quell' Elefante bianco di cui canta le gesta. 3. Inutile dire come finì. Tra repressione poliziesca, terrorismo ed eroina il proletariato giovanile si ritrova, nel volgere di una brevissima stagione, disperso, disarmato, sconfitto. Gli artisti più sensibili e

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