Alfabeta 108 ' E difficile oggi tornare a riflettere sul politico dopo che le ipotesi di trasformazione sociale e istituzionale della sinistra italiana (ed europea), elaborate a partire dalla fine degli anni sessanta, hanno cessato, sul piano del sentire comune e della coscienza riflessa, di essere espansive. Il «compimento» dei postulati fondamentali della cultura della sinistra nella figura del welfare State e nell'estensione dei diritti di cittadinanza ha segnato il «secolo socialdemocratico» (Dahrendorf) fino all'esaurir~i della loro dinamica «progressiva» e all'emergenza dei limiti connessi alla loro applicazione. Il concetto di una «ragione emancipativa», intesa come radicalizzazione del «progetto moderno» e delle sue idee-forza (la libertà come universalizzazione di sempre maggiori chances di vita, la redistribuzione del potere come possibilità di accesso delle classi subalterne al governo dello Stato, la liberazione dai vincoli di autorità non giustificate consensualmente, l'eguaglianza come richiesta di pari oppurtunità nell'attuazione dei piani di vita individuali, ecc.) s'incontrava di fatto - in modo quasi controintuitivo - con la diffusione dei valori socio-culturali della società industriale. Alla sostanziale «apoliticità» delle borghesie nazionali tra XIX e XX secolo, su cui H. Arendt ha richiamato l'attenzione in Le origini del totalitarismo, che le spinse a delegare il disbrigo degli affari pubblici a ceti amministrativi, tecnico-professionali e militari, corrispose il primato della politica da parte di movimenti operai organizzati che tradussero il valore-del-lavoro in volontà di potenza lasciando così un segno profondo sulla rete dei rapporti d'impresa (salario, orario, contrattazione collettiva) e dello Stato (diritti politici, rappresentanza, legislazione sociale, ecc.). Ne risultò l'effetto-non-programmato (by product) di un tipo di Stato welfarista che, nell'estendere i diritti di cittadinanza, nel contempo allargava e rafforzava i meccanismi di integrazione sistemica (Luhmann) e le strategie e le pratiche di assoggettamento (Foucault). Il paradosso del mondo moderno consiste allora nel double bind (che anche Dal Lago nel suo intervento sottolineava) tra primato della politica intesa come volontà di potenza di soggetti individuali e collettivi da un lato, e alienazione dalla politica come spoliticizzazione-neutralizzazione dell'altro. Questo paradosso diviene la condizione (o la in-condizione) del mondo contemporaneo soprattutto con lo sgretolarsi della «muraglia protettiva» (Arendt) delle classi sociali e con l'apparire dell'uomo-massa, del «moderno uomo delle masse», che segna la dissoluzione del citoyen. Al culmine della parabola che registra l'estensione dei diritti di cittadinanza, la figura del cittadino (inscritta nello spazio comunicativo dell'opinione pubblica) si estingue nella sfera del privato: come soggetto proprietario di massa e portatore illimitato di desideri (Barcellona). Il «secolo socialdemocratico» incarna, dunque, l'esito della sinistra in quanto vettore critico delle promesse del «progetto moderno» insieme con gli effetti perversi e inintenzionali della loro realizzazione. In questo contesto, la democrazia come Verfassung e soprattutto come punto di riferimento normativo dei comportamenti politici della sinistra europea ha funzionato come terreno di demitizzazione dei codici simbolici della tradizione, in primo luogo della religione e della sovranità dello Stato. Già in Umano, troppo umano Nietzsche osservava che «la democrazia moderna è la forma storica della decadenza dello Stato», dal momento che con essa viene meno gradatamente la «vecchia pietà religiosa verso lo Stato». In altre parole, la democrazia è stata il fattore più potente della secolarizzazione e del «disincantamento del mondo» (Weber), in quanto ha eroso progressivamente le grammatiche normative della Tradizione. La sdivinizzazione del mondo è andata di pari passo con la spoliticizzazione e la neutralizzazione (Schmitt), con la «fuga dalla politica» o «libertà dalla politica» (Arendt) realizzando per altre vie il sogno engelsiano di sostituire il governo degli uomini con l'«amministrazione delle cose» e il credo liberale di risolvere il nocciolo duro del potere nel dominio impersonale delle leggi. Qui si colloca senza dubbio la vocazione «restaurativa» (Arendt) connaturata alla dimensione politica moderna: di fronte al cumulo di macerie di benjaminiana memoria, cui sono rid~tte sotto i nostri occhi le verità più evidenti e un tempo universalmente riconosciute; di fronte al vuoto spalancatosi nel cuore del presente tra i soggetti e la politica, si A più voci Temi. Il politico oggi .. tenta di «restaurare» in forme nuove le antiche basi delle credenze intaccate, la vecchia «adorazione religiosa per la quale lo Stato è un mistero, un'istituzione soprannaturale» (Nietzsche), e con essa l'«adorazione» verso gli apparati di integrazione sistemica cresciuti per riempire quel distacco. La teologia politica di Schmitt e il paradigma sistemico (o dell'autopoiesis) di Luhmann sono, sotto questo profilo, davvero esemplari della vocazione «restaurativa» della riflessione sul politico. Entrambi questi modelli sorgono dalla disfatta delle filosofie storicistiche della storia e della loro fiducia in quello che Kant chiamava il «costante progresso verso il meglio». Tale disfatta mette in scena, per cosi dire, la «desolante contingenza» (Kant) dell'agire umano, lo statuto incalcolabile e imprevedibile delle azioni e degli eventi, che nessuna dialettica - intesa come sforzo di razionalizzazione del nuovo e di addomesticamento del radicalmente altro - può mai controllare e interamente dominare. La teologia politica di Schmiu, che vuole reintrodurre la nozione di «miracolo» come categoria arcontica del pensiero politico, e il paradigma sistemico di Luhmann preoccupato di ritagliare l'autoIIYIIIICITIIII ,11y1·1 1111,IITATIIII LIIIITIlllPIIIIIII JIITICI OUVRIER5-PAY~fMTUOIANI PREHON5 toffEM~IVE nomia autoreferenziale del sottosistema politico garantendola dalla turbolenza dell'«ambiente», appaiono, da questo punto di vista, degli stratagemmi e delle barriere protettive nei confronti della «contingenza desolante» di Kant e di quello che la Arendt chiama «l'abisso della libertà» oppure «la sorprendente spontaneità di ogni atto libero». Tanto meno sembrano plausibili gli sforzi - anch'essi «restaurativi» - di ricostruire un'«etica del discorso» (Apel, Habermas, Wellmer, Rawls) come base fondativa (o rifondativa) del potere. La «situazione linguistica ideale» di Habermas o la «situazione originaria» di Rawls, proposte come criterio normativo di un dialogo tra partecipanti che, ai fini della formazione della volontà politica, occupano una posizione simmetrica, a ben guardare, si rivelano una sublimazione idealizzata di quel «secolo socialdemocratico» che è ormai alle nostre spalle, e che !'«etica del discorso» vorrebbe risuscitare purgato dalle sue patologie. Di fronte al «male assoluto» (Arendt) e a quelle esperienze-limite senza precedenti cui ci ha abituato l'universo totalitario le categorie dell' «etica del discorso» - come pure di tutta la filosofia politica classica - si ammutoliscono. La tragicità del mondo contemporaneo è «smisurata», ossia anch'essa è priva di una tradizione che la contenga e che la spieghi. Non è né lo pagina 71 scontro tra Antigone e Creonte, né il conflitto mortale tra la ragione e le passioni, né come ricorda la Arendt, l'odio di lago contro il Moro. Nessun sentimento di grandezza «demoniaca» caratterizza la nostra tragicità. Essa è un' «apocalisse senza apocalisse» (Derrida), quella «banalità del male» che la Arendt riscontrava emblematicamente in Eichmann. Forse l'ultimo atto del «demoniaco» è stata la decapitazione del sovrano nella Rivoluzione inglese e in quella francese. Questa sorta di parricidio politico - che reduplica l'uccisione del padre da parte dell'orda primitiva, di cui Freud ha stilizzato il racconto mitomorfico - costituisce, come ha osservato Marramao, la scena originaria della ragione politica moderna che è in-· trinsecamente «polemologica». La testa mozzata del sovrano, tuttavia; non simbolizza soltanto !'«ossessione della sovranità» (Marramao) che percorre la semantica delle filosofie politiche moderne. Nel teatralizzare l'ultimo atto del «demoniaco», essa inaugura la storia politica moderna come rapporto tra soggetti e potere nello stesso modo in cui l'Amleto di Shakespeare è il prototipo del dramma moderno e non una variante della tragedia classica. In Personaggi psicopatici sulla scena (1905) Freud individua l'essenza del conflitto tragico moderno - e·la sua differenza rispetto a quello antico che egli emblematizza nell' Edipo - nel meccanismo di «identificazione» dello spettatore del tutto incommensurabile al concetto di «riconoscimento» (e di catarsi) di cui parlava Aristotele, che sottintendeva il confronto tra due impulsi dotati all'incirca dello stesso grado di coscienza. Nel «gioco estetico» del dramma moderno l'«identificazione» presuppone uno spettatore «nevrotizzato» nel quale collidono una fonte cosciente e una fonte nascosta della sofferenza, per cui !'«identificazione» equivale al riconoscimento, per così dire, cosciente dell'impulso rimosso. Ma il problema dell'«identificazione» non è anche il problema del politico moderno e della sua rappresentazione? Esso si connette intimamente alla «perdita del soggetto» (Lacan) o, meglio, alla sua «(de)costituzione» (LacouLabarthe) che interviene nella costruzione stessa dell'«immagine» del politico moderno. Come già Hegel sapeva molto bene, la rappresentazione (anche come Darste/lung) ha a che fare strutturalmente con la morte: la «vita dello spirito» non deve arretrare di fronte alla morte, ma mantenersi in essa. Tuttavia, se non si dà spirito assoluto, non si dà nemmeno un'essenza «propria», stabile e invariante dell'imago ( della rappresentazione-rappresentanza) con cui «identificarsi». Il vuoto spalancatosi tra soggetti e potere è, dunque, colmato - né può essere altrimenti - dalla logica del «supplemento» (Derrida) e della vicarianza assoluta, se la rappresentazione non è dell'ordine della mimesi come imitazione-ripetizione di un'essenza (assente e/o trascendente che sia). Non c'è teologia politica che possa «restaurare», se mai c'è stata un'immagine eidetica della rappresentazione, interrotta drammaticamente dalla testa mozzata del sovrano. Questa è la vera idolatria della modernità: la credenza che il soggetto sia rappresentabile e, quindi, interamente inscrivibile (o, meglio, de-portabile) nell'unità e stabilità della sfera rappresentativa del politico. Il rapporto costitutivo della rappresentazione con la morte attesta che la morte non si può interiorizzare (come ha chiarito Freud nella Verneinung), ma si può solo teatralizzare, «dr·ammatizzare» (Bataille). Ciò, lungi dal significare remissività e rassegnazione stoica, ci conduce a guardare in faccia «l'abisso della libertà» e la «desolante contingenza» come luogo mai garantito della responsabilità e della decisione. Sotto questo profilo, l'impolitico (richiamato nei precedenti interventi di Esposito e Dal Lago) è il riconoscimento dell'assoluta «fatticità» del politico, della sua radicale mancanza di eidos. Questa presa di coscienza consente di coglierne lo statuto aporetico (il suo double bind): l'essere, doè, la sfera politica nel contempo un «esistenziale» e un «categoriale» (per adoperare la distinzione di Heidegger), nomos e giustizia, conflitto e scambio dialogico, facoltà di inaugurare nuovi inizi (Arendt) e ripetizione dei meccanismi della comunicazione sistemica. La scelta dell'impolitico è la scelta di attraversare ed esperire sino in fondo lo statuto aporetico della sfera politica, il nodo di questa doppia legge che ci impone di concatenare l'obbligazione e la rottura, il medesimo e il radicalmente-altro, il calcolo della decisione e l'apertura all'indecidibile.
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