pagina 6 O ra che maggio è arrivato, si può tranquillamente ammettere che forse il silenzio era preferibile a tante banalità dette e scritte in questi ultimi mesi sul 68. Come definire altrimenti quanto è apparso nei periodici più diffusi e nei quotidiani? Ricordi compiaciuti di alcuni leader, oggi sopravvissuti in politica o riciclati dai media come possibili imbonitori, inchieste sulla moda degli eskimo e sulla fortuna dei Beatles, ammonimenti e pentimenti di nuovi moralisti, memorie nostalgiche sulle origini del movimento a Catania o chissà dove, acute ipotesi storiche sulle origini del terrorismo. In questo panorama di futilità o di rese dei conti spacciate per interpretazioni. spicca per fortuna qualche eccezione, come il libro di Romolo Gobbi, Il 68 alla rovescia, che ha il merito di offrire, accanto a ipotesi molto discutibili (il 68 come festa collettiva) dei frammenti di esperienza vissuta più veri di tante agiografie (come il libro di Capanna, con tutta la sua buona coscienza di virtuoso della lotta di classe). E certamente un'eccezione è costituita dalla serie di inserti pubblicata dal «Manifesto», finora il tentativo più serio di scrivere la storia di quell'anno e delle sue ragioni. Alcuni di questi materiali restituiscono qualche dignità a un evento, o meglio a un processo, che molti oggi vogliono minimizzare (o trasformare in folklore) in nome del senno di poi, e cioè non solo delle sciagure nazionali che sono seguite, ma soprattutto dell'impasto di mitologie individualistiche, culto dell'isolamento, passività politica organizzata ed etica bocconiana che viene definito cultura degli anni ottanta. In nome di tutto ciò si può apprendere - dai soliti analisti del costume nazionale, commentatori televisivi, giovanotti di allora divenuti guru dei nuovi movimenti religiosi - che il famoso 68 sarebbe stato un carnevale estemporaneo, una rivolta maldestra e populista contro la razionalizzazione inevitabile della società italiana, un abbaglio collettivo di intellettuali straccioni, o, nel caso migliore, l'oscuro risveglio di una spiritualità che avrebbe trovato poi in Raijnesh e nel fondamentalismo religioso il suo vero sbocco. Qualche osservatore più benevolo riconosce in questi eventi un primo mutamento necessario della cultura di massa, l'inizio delle battaglie per i diritti civili e per la laicizzazione della società, e comunque una sorta di generosità pubblica, anche se mal riposta. Ma sarebbero aspetti secondari in un panorama retrospettivo che si vuole dominato dall'utopismo e dal folklore. Invece di marciare verso il loro destino informatico e produttivistico, alcune società, come quella italiana e francese (in cui non ci si doveva nemmeno battere contro guerre insensate o invasioni sovietiche) si sarebbero prese una bella vacanza, foriera di pericolose illusioni e durata troppo a lungo. Finita la vacanza, non resterebbero nella cosiddetta memoria collettiva che dettagli di costume, e tutt'al più patetiche istantanee di giovanotti che si accapigliano, chissà perché, con dei loro coetanei in divisa. Il modo peggiore per affrontare questa celebrazione depressiva è probabilmente quello di rinchiudersi nel narcisismo settario dei reduci, nella coltivazione dei propri ricordi e nell'adorazione di quelle istantanee, come Valle Giulia o la sera della Scala (tentazione a cui non sempre sfuggono gli inserti .del «Manifesto»). Ma forse la reazione più sterile (e questo non vale solo per i reduci, ma per l'intera sinistra, sessantottesca e no) è continuare a ignorare gli equivoci da cui il 68 è stato dominato, e che si sono trascinati a sinistra fino alla soglia di questi anni. Tra gli equivoci durati troppo a lungo c'è sicuramente il mito politico della rivoluzione - su cui oggi si sorride o si sorvola, ma che, se non altro a parole, ha occupato il cosiddetto immaginario di gruppi e movimenti per quasi dieci anni dal 68. E soprattutto c'è quel linguaggio stereotipato, ereditato in parte dalla cultura tradizionale della sinistra, e alimentato da esperienze politiche intraducibili nelle società occidentali, che ha bloccato - con tutti i suoi meccanismi discorsivi automatici, i suoi slogan truculenti, le sue parole d'ordine insensate ed estatiche - la possibilità di definire realisticamente, già allora, i fenomeni sociali e politici in corso. E c'è pure il discorso sulla violenza, la disponibilità anche solo verbale alla violenza, a cui pressoché nessuno «che abbia fatto il 68» è rimasto estraneo. Ma non vale la pena di insistere più di tanto su questi equivoci, su questa sottocultura, che in fondo (anche se con le sfumature più varie) era ampiamente diffusa nella sinistra, istituzionale o no, verso la metà degli anni sessanta. E non vale la pena insistere, non solo perché i relativi mea culpa sono stati abbondamente recitati, ma perché anch'essa aveva a modo suo delle ragioni. Se tutti noi abbiamo una responsabilità per aver accettato o riprodotto quella sottocultura - con i suoi miti politici, i suoi linguaggi stereotipati e opachi, la sua intriseca disponibilità alla violenza - è anche vero che la cosiddetta cultura delle istituzioni non era immune da una pratica della violenza, per così dire, speculare a quella della !>inistra. Bisogna aver vissuto nei primi anni sessanta per poter ricordare la «cultura» dei grandi gruppi industriali, dei sistemi istituzionali o dei partiti al A più voci governo. Varrebbe forse la pena di ricordare, ai nostri lettori più giovani, che cosa sia stato il caso Braibanti. Ma l'equivoco più grosso, su cui la sinistra si è interrogata ben poco, è il senso politico di quei movimenti. Ora, per impostare decentemente il problema bisognerà ammettere che il fenomeno per cui un numero enorme di soggetti scopre improvvisamente - nel bene e nel male, e con tutti gli equivoci e i miti accennati - la dimensione politica dell'esistenza è qualcosa di eccezionale nelle società occidentali del dopoguerra. E questo per almeno due motivi: in primo luogo per il carattere improvviso e spontaneo della scoperta - ché né la politicizzazione tradizionale di ampi strati studenteschi, né fatti in fondo sporadici o reattivi (come la mobilitazione all'Università di Roma dopo la morte di Paolo Rossi) facevano presagire; e in secondo luogo per il carattere per così dire primordiale, politico ma pre-ideologico dell'improvvisa irruzione degli studenti sulla scena pubblica. Bisogna sottolineare questo punto: né la cultura di governo, né quella all'opposizione erano preparate a qualcosa del genere, e da qui nascono le reazioni immediatamente negative, con tutte le contro-reazioni simmetriche e le violenze risultanti: certamente innescate dall'ottusità politica di rettori e ministri dell'interno, ma anche rese possibili dal sospetto e dall'indifferenza dei partiti di sinistra. Ma ancora una volta questo non è il punto. L'aspetto paradossale della vicenda, almeno ai suoi primordi, è infatti che quel movimento collettivo e non ideologico, quell'improvvisa scoperta dello spazio pubblico, metteva a nudo la cattiva coscienza di una democrazia organizzata, il suo carattere necessariamente fittizio: si potrebbe dire, in poche parole, che l'irruzione degli studenti sulla scena pubblica realizzava, e all'improvviso, ciò che in una democrazia viene virtuosamente proclamato, ma realisticamente impedito, e cioè la pratica diffusa dell'attività politica. e ' è in alcune testimonianze sulla prima fase del 68 (continueremo a chiamarlo così per comodità), e per esempio nel libro di Gobbi, qualche indicazione su questo aspetto non necessariamente eversivo, ma sicuramente straordinario: studenti fuorisede iscritti alle grandi università di massa, piccolo-borghesi sbalzati fuori dal comfort familiare, soggetti fin lì incolori o atomizzati scoprivano la vertigine della socializzazione in pubblico. E se l'aspetto ludico non deve essere sopravvalutato, è anche vero che l'accesso a questi spazi inconcepibili era, almeno all'inizio, divertente, e cioè letteralmente una diversione dalle traiettorie di vita che chiunque potesse tradizionalmente immaginarsi. E bisogna dire che le forme di socialità così delineate non avevano nulla di quel populismo esasperato e caricaturale che è stato poi identificato con il movimento studentesco. Se tali sono potute sembrare (e sono in seguito spesso diventate) è perché esse implicavano una curiosità verso gli altri compartimenti della società, che una democrazia vorrebbe a parole trasparenti, ma che tende a recintare ferocemente (ed è l'esperienza che oggi è divenuta normale e normativa): il mondo operaio, in primo luogo, ma anche la sfera delle istituzioni, e tutte le articolazioni dei poteri, e in primo luogo della cultura organizzata. Prima ancora di essere uno slogan di massa, o un'etichetta politico-sindacale, il tema dell'egualitarismo ha rappresentato, in quell'epoca e sullo sfondo di quella società (di cui oggi si dimenticano le chiusure) un'espressione di tale curiosità collettiva, e in particolare la rottura delle intercapedini, in primo luogo sociali e politiche, che sembrano intrinseche a un sistema sociale complesso. In primo luogo politiche; se il 68 ha avuto un significato, al di là dei suoi slogan populisti o presi in prestito dal terzo mondo, è l'aver dichiarato, da un giorno all'altro, la vacuità della rappresentanza politica: ciò che era scoperto, detto e denunciato (e almeno all'inizio, con un tasso trascurabile di violenza) era quanto, qualche anno dopo, si sarebbe potuto leggere in qualsiasi libro dell'insospettabile Niklas Luhmann: il carattere automatico, ritualistico e procedurale - dunque, necessariamente arbitrario - della legittimazione del sistema politico, del funzionamento della giustizia, dell'organizzazione della cultura e dct consenso nonché della riproduzione empirica e quotidiana delle cosiddette alternative strutturali intrinseche a ogni cultura; giusto/ingiusto, normale/deviante. centrale/periferico, razionale/irrazionale, legittimo/illegittimo e così via. L'espressione «scoperta di uno spazio politico» va così intesa in un senso più ampio di quanto non sembri in base ai significati consunti dell'aggettivo «politico»: con esso ci si potrebbe riferire allo sguardo, necessariamente «ingenuo», (come lo era quello della bambina nella novella di Andersen, I vestiti dell'imperatore) che dei nuovi soggetti rivolgono alla società, alla cultura e al potere. Questo sguardo (con tutto ciò che lo accompagnava, la curiosità, il piacere dello spazio pubblico, la pratica dell'agire, e le qualità morali su cui non bisognerehhc fare delle facili ironie. come il disinteAlfa beta /081 resse personale, e ciò che potremmo chiamare la disponibilità all'esistenza d'Altri) è il bene duraturo e indimenticabile che rimane di quelle esperienze di vent'anni fa. Ma proprio sul significato di questo bene la cultura di sinistra ha prodotto più equivoci. Primo fra tutti, il fraintendimento del carattere autonomo, rnlido in sé, non strumentale, di quelle esperienze e di quello sguardo. Perfino nelle letture più interessanti (allora e oggi) del movimento degli studenti (penso al noto saggio di Donolo, La politica ridefinita, pubblicato sui «Quaderni piacentini» nel luglio 1968) la ricognizione positiva di quelle esperienze viene subordinata - non importa se per effetto degli automatismi discorsivi già citati - a una «pratica dell'eversione», insomma al luogo comune e già dominante dello sbocco pratico, delle alleanze e della strategia, in cui le stesse esperienze si sarebbero dissolte. È questa la tragedia del «partitismo», su cui non vale la pena di diffondersi, ma che ha rapidamente stroncato il senso collettivo e libertario del movimento. E non è neanche il caso di rammaricarsi o di immaginare vie d'uscita alternative. La trasformazione dei movimenti in sette era probabilmente inevitabile data la cultura dominante nella sinistra. Qui non conta tanto lo stalinismo teorico - quel paradossale culto dello stato e dell'autoritarismo che veniva assunto, per la necessità di ricollegarsi alla tradizione politica della sinistra, proprio da movimenti nati come antiautoritari. Conta piuttosto la pratica autoritaria del far politica che in pochissimo tempo ha occupato lo spazio liberato dal movimento degli studenti. Ora che tanti interdetti sono caduti, bisognerà ammettere che nella solita forma farsesca si riproduceva la vecchia storia che Hannah Arendt (una pensatrice che ancora oggi tanti marxisti leggono con sospetto) ha analizzzato nel suo saggio Sulla rivoluzione. Una storia legata soprattutto al disprezzo dell'autonomia di quello spazio politico. Se le riviste teoriche fiorite intorno ai fatti del 68 sono uno specchio di queste trasformazioni, dobbiamo considerarle come uno specchio opaco. Se, a modo suo, una rivista come «Quaderni rossi» aveva contribuito, nei primi anni sessanta, a rimettere in discussione l'immagine stereotipata e paternalistica che i partiti di sinistra si erano fatta della nuova classe operaia e del neo-capitalismo, gli organi teorici del nuovo movimento sembravano fare a gara a irrigidire e ridurre il senso del cambiamento al nocciolo duro della lotta di classe, e quest'ultima al suo luogo deputato, la fabbrica. Ora, le ricadute negative di questa ossessione non erano tanto dovute al lavoro teorico in sé - al carattere teologico di tanti dibattiti su questioni di interpretazione che allora sembravano capitali - ma a ciò che quel lavoro teorico escludeva quasi automaticamente, a priori, all'intolleranza logica che esso comportava. Situazione schizofrenica di una cultura marxista, tanto più raffinata, distruttiva, radicale quanto più dipendente da suoi miti: miti materialisti, operaisti, razionalisti, che portavano a escludere come sospetto ogni discorso che non ripartisse, eternamente, dal commento a Marx (la sorte dei primi libri di Foucault, pensatore sradicato, estraneo alla cultura di sinistra, e quindi necessariamente autore di dispositivi ingannevoli e «ideologici», è in qualche modo legata a questa intolleranza logica prima che politica). Schizofrenia di un'elaborazione teorica che quanto più si interroga sulla soggettività (che è in fondo un risultato culturale irrinunciabile del 68), tanto più sembra voler ignorare l'articolazione pluralista delle soggettività, la loro irriducibilità alla macchina teorica marxiana. Una categoria come «operaio sociale», che qualche anno dopo ha giocato un suo ruolo notoriamente pratico, è un riflesso di questa schizofrenia: l'apparente uscita «nel sociale» (come si diceva nel gommoso linguaggio d'allora) vincolata sempre a questa icona indistruttibile, l'Operaio. Eppure, questa schizofrenia ha finito per divorare la macchina. Attraverso l'autocorrosione della centralità teorica del proletariato (e l'impasse pratica e luttuosa che essa ha finito per comportare) è stato soprattutto a sinistra che il lavoro teorico ha cominciato a liberarsi dalle mitologie razionalistiche, progressiste, sopravvissuto a sinistra per ciò che Paul Veyne chiamerebbe «la viscosità del pensiero». Per una strana forma di giustizia (odi ironia) del tempo, quello sguardo ingenuo di vent'anni fa ha trovato qualche riparazione. Ciò che per comoda convenzione chiamiamo il 68 non appare oggi solo come un groviglio di esperienze, di aperture e di chiusure, abbastanza indecifrabili, e che resteranno tali. Appare piuttosto come il manifestarsi di un 'insofferenza (verso il modo di vivere e di stare in società, in primo luogo), oggi taciuta, ridicolizzata o rimossa, su uno sfondo di nuove e sottili intolleranze, di conformismi di massa e di manipolazioni impalpabili, di passività e di piaghe cosmiche. Un'insofferenza che ha prodotto sbocchi perversi ed equivoci infiniti - ma il cui senso ha ancora strane relazioni con l'eterna illusione di un agire libero.
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