Alfabeta - anno X - n. 108 - maggio 1988

pagina 36 Prove d'artista Alfabeto 108 Omero, Odissea dal Libro IV Prese la frusta e le lucenti briglie Nausica, e a correre incitò, sferzando; si alzava un tintinnio dalle due mule che al trotto senza posa si allungavano portando i panni e lei, non sola; insieme la seguivano, a piedi, anche le ancelle. Giunte all'onda bellissima del fiume e ai lavatoi che sempre erano colmi - molta acqua chiara vi sgorgava, tale da togliere del sudicio anche l'ombra - qui dal carro esse sciolsero le mule, spingendole a brucare, lungo il fiume vorticoso, erba dolce come il miele; poi dal carro le vesti sulle braccia presero e immersero nell'acqua bruna, pestandole nei botri, agili, a gara. Lavati e ripuliti da ogni macchia, stesero i panni in fila lungo il lido del mare, dove più polita e tersa dal battere dell'onda era la ghiaia. Unte di lucido olio, dopo il bagno quelle presero il pasto sulle sponde del fiume, ed aspettavano che i panni stesi asciugasse il folgorio del sole. Quindi le ancelle e lei, sazie di cibo, sciolti dal capo i veli, insieme a palla giocavano, e intonava in mezzo a loro Nausica dalle bianche braccia un canto. Quale Artemide va per gli alti monti, sopra il Taigeto eccelso o l'Erimanto, godendo di cinghiali e svelti cervi, saettatrice e intorno a lei le ninfe silvestri, figlie dell'egioco Giove, scherzano - esulta in cuore suo Latona -; e tutte ella col capo e con la fronte sovrasta, e belle sono tutte, eppure ben si distingue: tale, fra le ancelle, spiccava, intatta vergine, Nausica. Ma quando a casa stava per tornare, ripiegate le belle vesti, e al carro sottoposte le mule, venne un altro pensiero in mente all'occhiazzurra Atena: perché si svegli Ulisse, e la fanciulla dal bel volto gli appaia. che alla rocca degli illustri Feaci a lui sia guida. La principessa allora a una compagna gettò la palla, ma fallì il bersaglio: la scagliò dentro un vortice profondo. Quelle mandarono un grido alto. Ulisse divino si svegliò, sedette, incerto sul da farsi, e con l'animo turbato: «Di quali uomini, ahimè, sono di nuovo giunto alla terra? prepotenti, incolti, senza giustizia, oppure hanno la mente che rispetta gli dei, sono ospitali? Mi giunse un grido come di fanciulle, femmineo grido, di fanciulle ninfe che stanno sulle cime alte dei monti, le sorgenti dei fiumi e i prati erbosi. Ch'io sia vicino ad esseri parlanti? Voglio vedere io stesso e farne prova». Detto questo, uscì fuori dai cespugli l'eroe divino, e dalla folta macchia spezzò con mano energica un virgulto che gli coprisse i fianchi e le vergogne. Poi si avviò come un leone alpestre che, in sé fidando, se ne va sicuro battuto dalla pioggia e contro il vento: con gli occhi che fiammeggiano, aggredisce pecore e buoi, silvestri cerve insegue; e la fame lo spinge anche a tentare l'assalto al gregge dentro un chiuso ovile: così, tra tante splendide fanciulle si accingeva a mostrarsi, benché nudo, l'eroe: ma dal bisogno era costretto. E orrendo apparve a loro, di marina salsedine imbrattato, e via fuggirono chi qua, chi là, per le sporgenti rive. Ma la figlia di Alcinoo, a cui coraggio mise Atena nell'animo, togliendo dalle sue membra ogni timore, sola davanti a lui ferma restava; e Ulisse fu incerto se abbracciare le ginocchia, supplice, alla fanciulla dal bel volto, o così, con parole lusinghiere, pregarla di lontano, se indicargli volesse la città, dargli una veste. E questa gli sembrò l'idea migliore: Sonetti di William Shakespeare XIX Spunta, Tempo, gli artigli del Leone, Strappa al Tigre le zanne irte e feroci, Fa' che la terra i suoi figli divori, Brucia nel suo immortale sangue la Fenice, Fa' dolci e amare a turno le stagioni, Turba, se vuoi, o Tempo rapinoso, Del vasto mondo le caduche gioie, Ma sosta innanzi al crimine più odioso: Oh, non scolpire la sua bella fronte, Non vi tracciare il marchio delle ore, Lascialo intatto, che alle nuove genti Resti a modello il volto del mio amore. Ovver, fa' del tuo peggio, Tempo avverso, Giovane vivrà sempre nel mio verso. xx Volto di donna da Natura pinto Hai tu, Sire Signora del mio amore, Gentil cuore di donna ma non finto, Non, com'è d'uso in donne, traditore. Occhi più luminosi, meno scaltri, Che ciò che guardan san cangiare in oro: Un uomo che in sé incentra tutti gli altri, E ruba ad essi gli occhi e ad esse i cuori. Di te, creato donna primamente, S'innamorò, nel farti, la Natura, E con un tocco mi tolse l'amante, Con un'aggiunta che è la mia iattura. Ma poi che per le donne è il tuo tesoro, Loro _siail godimento, mio l'amore. pregarla con parole lusinghiere di lontano, che in cuore la fanciulla non si sdegnasse, stretta alle ginocchia. Subito prese a dire, dolce e accorto: «Ti supplico, signora: una dea forse o una donna tu sei? Se una di quelle tu sei che stanno nell'immenso cielo ti confronto ad Artemide, la figlia del grande Giove: a lei simile in tutto, nella statura, in volto e in ogni forma. Se invece sei mortale, una di quelle che sulla terra vivono, oh tre volte beati il padre tuo, la madre augusta, oh beati tre volte i tuoi fratelli: certo si scalda e brilla il loro cuore sempre per te di gioia, quando entrare vedono nella danza un tal germoglio! Ma più ancora nell'intimo è felice sopra gli altri quell'uomo che prevalga con ricchi doni, e a casa ti conduca. Mai, né uomo né donna, una mortale creatura i miei occhi hanno veduto simile a te: ti guardo, e mi stupisco. Vidi una volta, in Delo, presso l'ara d'Apollo, come te levarsi un giovane stelo di palma: quando anche là venni, con molte genti armate, in quel viaggio che diede inizio a tante mie sventure. E come, contemplando quello, a lungo nell'animo io stupii - mai dalla terra sorse un albero eguale - così, o donna dinanzi a te resto incantato, ammiro, tremo e non oso stringerti i ginocchi, benché sia grave il male che mi opprime. Ieri, dopo venti giorni, al livido mare sfuggii; fino ad allora sempre • le onde e procelle rapide mi spinsero dall'isola di Ogigia: ora qui un nume mi gettò, perché soffra altre sciagure: dubito che con questa avranno fine, molte gli dei me ne daranno ancora. Ma tu, signora, abbi pietà: la prima tu sei che incontro, dopo tante pene. Non conosco, tra gli uomini nessuno che abiti nel paese e in questa terra. LXXIII Tu mostrami la rocca; dammi un cencLo, ch'io mi ricopra, se portasti un panno, venendo qui, da avvolgere le vesti. E gli dei ti concedano ogni affetto che il tuo cuore desidera: un marito e una casa ti diano, e per compagna la felice concordia: non c'è bene più prezioso e invidiabile di quando regna armonia perfetta, nel governo della tua casa, tra un uomo ed una donna: con gran dispetto dei maligni, gioia dei buoni, e fama splendida per loro». E a lui Nausica dalle bianche braccia: «Straniero, poiché tu non sembri un uomo né malvagio né stolto, è Giove Olimpio che la fortuna agli uomini dispensa, buoni o malvagi, come vuole, a ognuno: diede a te questa sorte, e tu per forza devi soffrirla. Ma ora che alla nostra terra e città sei giunto, tu di vesti non mancherai, né d'altro che sia degno di un misero che supplice a noi giunge. Quindi ti mostrerò la rocca, e il nome ti dirò delle genti. In questa terra, questa città, la sede hanno i Feaci; figlia sono io di Alcinoo dal gran cuore che dei Feaci è l'anima e la forza». Disse; e incitò, sgridandole le ancelle: «State un po' ferme voi! dove fuggite alla vista di un uomo? avete il dubbio che sia qualche mortale a noi nemico? Non è mai nato, o nascerà, qualcuno che arrivi al lido dei Feaci illustri portando guerra: molto cari al cielo siamo, e abitiamo all'ultimo confine del mondo, in mezzo all'ondeggiante mare, dove non c'è chi voglia avventurarsi. Ma questo è un infelice che qui naufrago giunge, e occorre di lui prendersi cura: gli stranieri e i mendichi tutti vengono da Giove; e un dono anche modesto è caro. Su dunque, ancelle, date allo straniero cibo e bevanda, e poi fategli un bagno nel fiume, là dove non soffia il vento». Tu puoi vedere in me quella stagione Che sui rami tremanti alle gelate Son poche foglie gialle ovver nessuna, Cori in rovina ai canti dell'estate. In me tu vedi il declinar d'un giorno Che nel tramonto a occidente vacilla, Cui già la nera notte sale attorno, Gemella a morte che tutto sigilla. Tu vedi in me il barbaglio d'un fuoco Su ceneri di gioventù annidato, Letto di morte ove morrà fra poco, Consunto assieme a ciò che l'ha nutrito. Questo tu vedi, e più forte è il tuo amore, Per più amar ciò che dovrai lasciare. CIV Tu non sarai mai vecchio, dolce amico, Per me, ma bello come il primo giorno Che i miei occhi nei tuoi presero fuoco: Tre Inverni hanno dai boschi scosso attorno Tre gaie Estati, e Autunno ha ingiallito Tre Primavere, e il volger delle ore In tre Giugni tre Aprili ha già abbruciato Da che te vidi in boccio, che or sei in fiore. E pur bellezza, come lenta lancia Di meridiana, impercettibilmente Si muove, ed il color della tua guancia Forse ai miei occhi innamorati mente. Oh, ascolta, tu che ancora non sei nato, La bellezza ha già perso la sua estate.

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