Alfabeta - anno X - n. 108 - maggio 1988

Alfabeta 108 caso nascono quasi contemporaneamente: ambedue segnano il tentativo di individualizzare la produzione di massa, gli uni nel consumo, l'altro in fase di progettazione. Il rock non come genere musicale, dunque, ma come vettore di ideologie e comportamenti. Una tesi non nuovissima, ma sostenuta con rigore. Il rischio è però quello di dissolvere la materia sul piano meramente sociologico: di non parlare di musica, insomma, e soprattutto di rinunciare al tentativo di interpr~tarla. Più maturo e interessante il lavoro di Chambers, che si rivolge al rock tentando un'analisi che di volta in volta è sociologica, storica, musicologica, filosofica. Attratto da ciò che di «plastico» fa parte della cultura rock (e il riferimento esplicito è al Roland Barthes di Miti d'oggi), Chambers respinge decisamente la tesi che il rock sia una musica d'evasione. Esso in realtà è un mezzo di esplorazione della realtà, e il principale strumento di questa esplorazione è il corpo: «Il corpo è al centro del pop. Concentrato nella danza e nella visceralità di un'esibizione musicale è proprio questo il senso di immediatezza musicale che risulta fondamentale nella cultura pop» (p. 208). La tesi è sostenuta attraverso un lungo excursus storico che, se per un verso individua personaggi chiave già ampiamente noti (Presley, i Beatles e i Rolling Stones, Dylan, Sex Pistols), per altri versi fa in modo che l'analisi si situi a diversi livelli, investendo di volta in volta il farsi e disfarsi di mode e dinamiche di classe, la storia delle innovazioni tecniche e del rapporto tra rock e media. Il tutto attraverso un uso di temi e contributi presi di peso dall'«alta» cultura. Così anche la percezione distratta di Benjamin diviene un attrezzo per smontare il rock, insieme a Lyotard, Marcuse, Barthes. E l'obiettivo del libro è ambizioso: tentare di costruire una sorta di «estetica del rock» che si elevi un gradino al di sopra del superficiale impressionismo della critica cosiddetta specializzata. Chambers non si nasconde la storicità della questione: fu negli anni settanta, in concomitanza con l'affermarsi della controcultura, che nel rock si manifestò «l'avvento di un orientamento estetico autocosciente» (p. 89), in accordo con la rivolta politico-estetica teorizzata da Marcuse. Oggi peraltro la critica è più attenta a non cadere nelle ingenuità, sicché, paradossalmente, forse il rock più «artistico» è quello che allude più spudoratamente alla propria superficialità (come la disco o il glam-rock). La consapevolezza è che, dopo il «vuoto perverso» del punk, il rock sia entrato in pieno nella sua età postmoderna, e dunque anch'esso sfugga ormai a una evoluzione lineare: «Una versione lineare della storia del pop è stata trasgredita, violata. Le spiegazioni causali sono state eluse da una serie di trasgressioni culturali, dai revival, dal ciclico ritorno di musiche e di stili del passato» (p. 196). Il libro prende in esame anche il rock del dopo-punk (ed è un pregio non indifferente, visto che gran parte delle varie storie del rock offrono solo rapidi e sommari cenni di quello che è avvenuto dopo il 1976) e soprattutto mette in rilievo l'enorme importanza della musica nera (la fisicità del rock d'altronde deriva in linea retta da quella della musica afroamericana), reggae incluso (al quale è dedicato uno dei capitoli più preziosi dell'intero volume). Completano l'opera un'interessante bibliografia e una vasta e informatissima discografia. David Buxton Rock. Star System e società dei consumi Suppi. al n. 119 de «il mucchio selvaggio» dicembre 1987 pp.170, lire 9.000 Iain Chambers Ritmi urbani Genova, Costa & Nolan, 1986 pp. 233, lire 22.000 Viaggio in URSS Giacomo Manzoni L a musica è un'arte che, per affermarsi e prosperare, ha bisogno di stabilità politico-sociale, di strutture costose, di principi, mecenati o infine stati che per essa siano disposti ad aprire le casse senza calcoli di utile materiale. I paesi più poveri o ancora poco «civilizzati» se sempre ebbero una grande fioritura di musica etnica, tramandata oralmente, non sortirono grandi risultati Cfr noi si sa pochissimo, i pur numerosi uomini di c~ltura, inviati, viaggiatori curiosi che negli ultimi decenni hanno per quanto sporadicamente messo il naso un po' dappertutto in Unione Sovietica, della musica non si sono mai praticamente occupati (la storica insensibilità dell'intellettuale italiano per quest'arte!). Ed ecco che il libro di Pestalozza, nato da un'esperienza recente (un viaggio di quasi due mesi nel 1985) attira l'attentlone proprio verso l'emergere di questo aspetto pressoché ignoto della realtà sovietica. Pestalozza ha visitato città dell'URSS «occidentale» ma anche Baku, Tbilisi ed Erevan, e soprattutto non ha dimenticato stendendo il volume le esperienze analoghe compiute nel passato in centri più periferici come Alma Ata, Taskent o altri. Immensa è la problematica dell'attività musicale in un paese così vasto e multiforme perché il libro possa fornire una trattazione esauriente. L'autore ha opportunamente scelto di procedere per assaggi, quasi giornalisticamente, mescolando impressioni diverse - anche poetiche, politiche, culturali di vario tipo - talché la vita musicale sovietica ci viene proposta nel suo rapporto costante con la vita nel suo complesso, APPA R'lfAJR SURVEILLANT C ONTRE'M.. ~~TRFStudenti, operai, 110 alla polizia nel campo colto: e fu il caso della Russia almeno fino a tutto il Seicento. Questo paese si affacciò alla ribalta musicale colta nel Settecento aprendosi all'influsso occidentale e soprattutto dell'opera italiana, e ben presto ricuperò il tempo perduto: da Glinka a Mussorgskij Chaikovskij Prokofiev e tanti altri la musica russa non può essere pensata che come parte integrante della cultura europea, influenzante questa e da questa influenzata attraverso infiniti esempi (non ultimo quello di Claude Debussy). Ma quando al termine «russo» si sostituisce quello di «sovietico» il discorso cambia. Allorché l'URSS prese corpo, negli anni venti, numerose popolazioni, specie al sud e all'est dell'immenso territorio, erano ancora nella fase puramente etnica, con tradizioni musicali colte, ovvero scritte, praticamente uguali a zero. Ma se oggi i grandi centri musicali dell'URSS rimangono Mosca e Leningrado, dagli altri territori e repubbliche dell'Unione si vengono affacciando con sempre maggiore evidenza e corposità le musiche «colte~ di popoli usciti si può dire or ora dall'analfabetismo non solo musicale. Di che cosa questo fenomeno rappresenti, come si articoli e definisca, da con le esigenze e i bisogni culturali della gente, tra cui a quelli musicali viene per l'occasione prestata particolare considerazione. L'attenzione precipua di Pestalozza va ai problemi della creazione musicale, a cui egli sempre ha del resto dedicato la parte forse più rilevante della sua attività critica. I temi del linguaggio, della ricerca musicale sono quelli che continuamente riemergono con prepotenza in mezzo alle altre considerazioni, e che schiudono campi davvero sconosciuti: sfilano davanti agli occhi nomi di compositori spesso ignoti a noi che operano a vari livelli di coscienza e di approfondimento, anche in rapporto ai diversi sostrati etnici, e immersi in una problematica del «consumo» musicale spesso profondamente diversa dalla nostra, occidentale, che ci fa vedere come il compositore possa diventare parte integrante e necessaria di una complessa attività e struttura culturale-sociale, quale da noi egli riesce sempre meno a essere. L'individualismo quasi patologico del compositore occidentale sembra trovare qui scarsi riscontri, e la domanda sociale di musica, anche di quella scritta oggi, sembra essere autenticamente radicata nella struttura civile e culturale. Qui si potrebbe semmai aprire il discorso sulla subalternità - al fin fine - della musica, della composizione musicale, al sociale: nel senso che il fatto stesso che una domanda collettiva determina i mezzi di sussistenza dei compositori, potrebbe non far nemmeno affiorare l'esigenza di approfondimenti particolari di linguaggi e di modi espressivi, magari individuali o individualistici ma non per questo meno essenziali - ne sono profondamente convinto - alla vita stessa dell'arte. E paradossalmente si potrebbe intravvedere quasi un parallelo, mutando tutto quello che va mutato, ed è moltissimo, con grandi società di massa dell'Occidente, USA in testa: nel senso di una musica intesa come «servizio» della o alla società, e non come autonomo campo di arricchimento culturale· e intellettuale. Sono in questione la funzione e il carattere stessi dell'arte in una società socialista: e su questo si dovrà sicuramente ancora riflettere. Nella sua carrellata sovietica Pestalozza parla spesso anche di istruzione (professionale) ed educazione (di massa) musicali; illustra i criteri organizzativi e amministrativi da cui è guidata l'attività musicale; si sofferma sui livelli esecutivi in varie situazioni, sino a quelle amatoriali; non trascura di riferire opinioni e idee di studiosi e critici lucidamente attenti a quanto avviene attorno a loro anche nel confronto con altri paesi; e più di una volta infine si lascia scappare critiche pesanti contro il hurocratismo, l'immobilismo, l'ufficialismo, contro quanto di paralizzante esisteva ancora nell'anno del suo viaggio, denunciando gravi rischi involutivi in rapporto a una vitalità e un brulichio di idee e iniziative che denotano alla base una grande tensione intellettuale e creativa. Ma quando egli viaggiava in URSS di perestrojka si cominciava a stento a parlare. Sono passati quasi tre anni, e tre anni in questa fase dello sviluppo dell'Unione sono un tempo quasi incommensurabile. E allora dobbiamo pensare che se i fermenti e la vitalità che Pestalozza ha osservato erano qualcosa davvero di radicato e di sentito e di autentico, già oggi, dopo mille giorni, questo paese si stia liberando di quelle remore e di quell'immobilismo per riprendere il cammino di uno sviluppo innovatore anche nel campo troppo spesso considerato marginale della creazione e dell'organizzazione musicali. Luigi Pestalozza La musica in URSS: cronaca di un viaggio Milano, Ricordi-Unicopli, 1987 pp. 186, lire 20.000 Baj: per una ecologia del sogno Luciano Capri/e .,,,/.,,,/ L'arte è un sistema di co- '' noscenze e di aspirazioni che tende a migliorare la qualità della vita: per una ecologia del sogno». Così Enrico Baj conclude l'introduziÒne a Cose, fatti, persone, che raccoglie alcuni saggi inediti e altri pubblicati negli ultimi anni da quotidiani e riviste. «In effetti l'arte consiste nell'impossibile e nella sua resa attraverso le soluzioni immaginarie», scrive ancora Baj proponendoci una filosofia esistenziale nel segno di Alfred Jarry e della «patafisica», la scienza per cui «tutto è la pagina 27 stessa cosa». Ciò che rende possibile l'impossibile è quella particolare arte che per l'appunto «migliora la vita» poiché ce la fa accettare filtrata dall'ironia. Alla berlina la supponenza, la prevaricazione, la violenza del potere! Si perviene così a quella ecologia della mente che rende attuabile il sogno. È un ragionamento utopico, e Baj lo sa bene, ma prodigo di vacanze salutari per il nostro equilibrio psichico minato dalle sollecitazioni e dalle imposizioni del quotidiano. Gli scritti, una quarantina, che concorrono al libro sono permeati da un piacere ludico e trasgressivo che, prima ancora di scatenare i rimproveri degli immancabili ortodossi (le vestali mummificate della cultura) o proprio a causa di ciò, avvincono per la freschezza espressiva, per lo slancio esente da remore insito da sempre in questo giovanotto di sessantatré primavere. Ci troviamo di fronte a uno stile coerente di arte, di scrittura e di vita. Cose, fatti, persone suddividono sfumature dello stesso problema: talora è un personaggio a condurre prevalentemente il discorso, talaltra è un evento o un aneddoto a servire da pretesto, oppure è una disquisizione sui bottoni (a proposito di Queneau) o sulla spazzatura a suscitare riflessioni meta (o pata?) fisiche. Baj ama lanciare il sasso in piccionaia per vedere che effetto fa: Ma Carrà sapeva disegnare?, intitola un brano; «Amleto somiglia alla Gioconda», non esita ad asserire ben sapendo di sconcertare i cultori di Shakespeare; in Note di idraulica per Marce/ Duchamp la trasgressione sposa altra trasgressione dal momento che Marce! i baffi alla Gioconda li aveva messi per davvero forse leggendo nel futuro la conclusione amletica dell'amico Baj. E anche sul terreno dei neologismi Enrico non scherza: «L'ubuismo travolge nella sua marcia tutti gli ostacoli della patamerdra». Neppure il D'Annunzio dei tempi migliori riusciva a spararne due in una riga o poco più (vedere in apertura del capitolo: L'ascensione di Ubu). E la divertita curiosità o l'indagine lenticolare che spazia da Milano a New York, a Parigi non si sofferma soltanto nel campo dell'arte ma si allarga alle problematiche di maitres à penser come Baudrillard, Morin e Lévi-Strauss, di registi impegnati come Zanussi, di autori di teatro e nel contempo pittori come Kantor e Ionesco, di anglisti come Almansi o di un socioantropologo come Bellasi. In che modo concludere questa rapida peregrinazione attraverso le pagine di Baj? Con la frase di Baj, tratta dal capitolo Cavaliere alias Pigmalione, che sigilla il volume: «Il tempo per noi è veramente circolare e, colle sue evoluzioni, ci riporta sempre agli stessi punti, ove ci incontriamo nuovamente, in situazioni di perenne variabilità. Questo nostro tempo che tra equilibri sempre più ardui, tra simulacri sfuggenti e soluzioni immaginarie, ci sospinge perennemente verso il divenire della memoria». E del sogno che, col pensiero speculare al fraterno amico e scultore Alik Cavaliere, ci fa riapprodare alle considerazioni di partenza. Enrico Baj Cose, fatti, persone Milano, Eléuthera, 1988 pp. Ì62, lire 22.000

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