Alfabeta - anno X - n. 108 - maggio 1988

J. -P. / l>:UPV.Y: J}(L \.{/ ORoonEb~ì:+·•,,t::tI•:•ril:::::'• lnchit$ta_ su:u;>:ijifuv9.,p~f •... -.-.· ... o> R~HÒFST~Prt:~1:%.<>t: ~:J:=~==~~~l;i~~ . ·.··.•-·.••.·-··-·-:--.·.•.·.·-·- ~ isi5:T9~1:~B!5:iil:::::::::::I: GLIINCROC:n>FL LAB • :-·-·.;. :··;··:·-:.:-; .-·;-:-;-:::-; G/ZORìof:i}J> .,,,-,)<•••? •'/'·'·. Mòtfogr~fiì\J~ifi?}•:t•!):/}j!f t•!!•! :•••: .:(\\ :,,,::::?l1itfib~itiit}t.1>1[ Collana "Classici del ridere.. direttada R. Bonchio K. Capek LAGUERRA DELLESALAMANDRE J. K. Jerome APPUNTDI IROMANZO E. A. Poe STRAVAGANZE E. Scarfoglio ILPROCESSDOIFRINE E. DeQueir6s ILMANDARINO M. deCervantes NOVELLPEICARESCHE W.M.Thackeray ILLIBRODEGLISNOB J. Swift I VIAGGDI IGULLIVER Il'f e Petrov LEDODICISEDIE ,. R. Fucini TIPICHESPARISCONO pagina 22 Parola . . come 1mmag1ne Stelio Rescio U n evento espositivo che si distingue per linearità di assunto e coerenza di svolgimento è la mostra Parola come immagine organizzata dall'Assessorato alla Cultura di Senigallia, che ha trovato conveniente sede nei nuovi spazi dell'Expo Ex, nei giardini della Rocca Roveresca. La mostra documenta la produzione che nell'arco di un triennio si è espressa in campo internazionale (dall'Europa mediterranea, orientale e occidentale, agli Stati Uniti e all'Estremo Oriente) in quella frastagliata area della sperimentazione artistica che è situabile nel punto d'incrocio fra i codici verbale e iconico: un'esperienza «di frontiera» (se vogliamo stare allo specifico linguistico, che è discriminante) verso la quale la stessa critica ufficiale è finora incorsa in peccato di disattenzione. A maggior ragione è da registrare all'attivo il contributo di Mirella Bentivoglio (che ha presentato la rassegna, e al cui Archivio appartengono le opere esposte) alla ricostruzione storica e alla sistemazione critica di questo peculiare settore della ricerca; un lavoro «sul campo» che non si è limitato alla registrazione dell'esistente, ma che procede da ormai quindici anni con un'opera di scavo intesa da una parte al recupero del retroterra storico e dall'altra ad ampliate di volta in volta il quadro con una costante opera di censimento delle nuove presenze. Un lavoro di cui gli stessi momenti espositivi (ultimo, in ordine di tempo, questo di Senigallia) si propongono come altrettanti «rendiconti». L'opera della Bentivoglio non si configura come un apporto «aggiuntivo» a una ricostruzione storico-criti_cache peraltro resta ancora da fare (se per storia s'intende non una mera successione di eventi, autori, scuole). Il suo taglio interpretativo punta a cogliere il sistema di relazioni a cui l'opera rimanda e, saltando il chiuso orizzonte della codificazione specialistica, a stringere il rapporto originario, fondante, tra «le parole e le cose». Non diversamente dalla sua opera creativa, nella quale gli «atti di parola» - che sono il ri-conoscere il mondo, nominandolo - danno luogo a concrezioni di significati, potere evocativo, valenze simboliche; sono istantanei, penetranti colpi di sonda - di cui 1a sintesi teorica è necessaria premessa - che riportano alla superficie i «materiali» del giacimento linguistico, liberati dal pesante apparato della formalizzazione - in qualche modo burocratica - che abbiamo finito per stendervi sopra. Il discorso cade sulla individuazione del punto di sutura tra le due dimensioni operative. La prima considerazione da fare è che entrambe presuppongono un uso «esperto» della parola e l'esercizio della concettualizzazione, quali sono per l'appunto richiesti, oltre che dall'indagine critica, dal ricorso a modalità espressive che, siCfr e tuandosi al di là del rapporto istituzionalizzato «significante-significato», lo problematizzano. Non a caso, non è la sola Bentivoglio, in questa non affollata area della comunicazione visiva, a marcare la propria presenza nel duplice ambito operativo (e questa non è l'ultima delle ragioni che danno conto di un'autonomia, rispetto alla «critica d'arte», che non trova riscontro in nessun'altra scuola o tendenza). La scelta di lavorare su quella «tecnologia astratta» che è la parola dichiara la provenienza dei poeti visuali dalla «scrittura». In termini storici, s'intende. E bastestre di un esercizio «pittorico», comunque inteso. Ha lavorato, già a partire dalle tavole parolibere di Marinetti, alla ricomposizione di ciò che il consolidato senso comune aveva condannato alla reciproca separatezza: la parola e l'immagine. Realizzando la sintesi fra pratica artistica e letteratura ha compiuto un duplice «salto di corsia» toccando un punto di non ritorno. Nel senso che nessun ripiegamento è possibile. Parola come immagine Senigallia, Expo Ex ottobre 1987-marzo 1988 wllaJ' ~ IIJU luaa. 111a •ama 1r Sceglietevi il vostro culo, cagoni! rà anche una rapida scorsa all'elenco degli autori proposti nella mostra di Senigallia per ritrovare questa «filiazione» tra le presenze significative: dai fratelli De Campos, a Nanni Balestrini, a Emilio lsgrò; da Lamberto Pignotti ad Adriano Spatola e alla stessa Mirella Bentivoglio. È da riflettere sulla tenuta nel tempo (la stessa rassegna ce ne offre la prova) di questo filone operativo che ha attraversato indenne l'intera fase sperimentale dell'arte visiva e, quel che più conta, la stessa crisi seguita alla rovinosa caduta dell'arte concettuale. Una tenuta le cui ragioni a nostro parere sono da ricercare nella radicalità della rottura che le pratiche artistiche riconducibili alla generica definizione di «poesia visuale» (dalla poesia concreta alla scrittura visuale, al libro-oggetto e, per citare la più recente fase operativa della Bentivoglio, alla poesia oggettuale) hanno operato rispetto alle convenzioni; è un'esperienza che, diversamente da tutte le altre che hanno segnato la complessa vicenda dell'avanguardia storica e della neoavanguardia, non ha postulato l'innovazione dall'interno Richard Serra a Monaco Maurizio Barberis A Ila Lembachhaus di Monaco una importante mostra dell'artista americano, organizzata in contemporanea con la Kunsthalle di Basilea. Si tratta nella maggior parte di opere recenti con la sola eccezione di un lavoro eseguito in un lasso di tempo relativamente lungo (19741986). I pezzi esposti sono stati eseguiti appositamente per lo spazio della Lembach, galleria dalla struttura ottocentesca. Il lavoro di Serra possiede la capacità di adattare felicemente la propria poetica al luogo che lo ospita. La mostra si snoda in una successione di piccoli, medi, grandi spazi che vengono via via occupati dai suoi blocchi metallici. I materiali, quelli di sempre, sono ferro e acciaio, mentre le superfici adottano una texture intenzionalmente informale. Alcuni pezzi sono stati graffiati da segni, parole in parte cancellate, che ostentano casualità nella trama superficiale. Il tema della mostra, modulato in sette variazioni di dimensioni e Alfabeta 108 formati diversi, è dato dalla contrapposizione (contrappunto) delle forme metalliche. Molti i suggerimenti che questa continua «duplicazione» dell'oggetto propone. Innanzitutto lo sdoppiarsi dei blocchi genera una sensazione di sospensione, di attesa dialettica dell'altro, di germinazione di una poetica dello scontro, che risolve in maniera geniale l'ipostasi della materia metallica. Ciascun elemento produce un doppio che nello spazio del museo entra in risonanza con il primo e, pur nella ridotta dimensione dei luoghi, ~ibra di intensità dinamica. Il primo contatto con il lavoro di Serra esposto alla Lembach è, nonostante la forza dei materiali usati, assai discreto, quasi distratto. Due blocchi di ferro rugginoso si affrontano all'ingresso del museo, disponendosi a una distanza di dieci metri l'uno dall'altro. Poiché i due pezzi sono assai simili è solo un'attenta osservazione che consente di individuare una rotazione di 180 gradi dell'asse principale del secondo solido rispetto al primo, introducendo così il contrappunto tematico che diviene guida dell'intero percorso. Due, a nostro parere, i lavori più felici, che spiccano per qualità e forza di impatto. Il primo, The gate, datato 1987, è collocato nella quarta sala e propone una riflessione antica e di sapore vagamente metafisico. A quale porta allude Richard Serra? Forse a quella fisica, che le sue strutture consentono di individuare nel centro geometrico della sala, dove, alla intersezione di travi e pilastri metallici, si aprono allo sguardo quattro vaste aperture. O forse si allude alla porta spirituale, a quella sorta di soglia che la magia dello spazio mitico incarna nel luogo fisico dell'opera, rendendo sensibile e concreta la percezione del passaggio: da un luogo a un altro luogo, da una condizione dello spirito a un'altra condizione dello spirito. Il secondo lavoro, Delineator Il, collocato nell'ultima sala è un opera di grande impegno concettuale. Le date parlano chiaro: dal 1974 al 1986, dodici anni di riflessione sul soggetto dell'opera. Due grandi lastre di pochi centimetri di spessore si fronteggiano, collocandosi una sul pavimento e l'altra contro il soffitto. La disposizione dei pezzi è slittata di 180 gradi. L'insolita collocazione rompe alcune convenzioni spaziali, introducendoci in un universo del tutto particolare, dove la riflessione del «sopra» nel «sotto» diviene l'elemento principale. I due grandi pezzi di metallo si guardano, transfigurando l'uno nell'altro qualità e virtù che coincidono solo nell'occhio dell'osservatore. La leggerezza diviene il contrasto fondamentale dell'opera che sembra voler rompere l'ultima condizione della materialità della scultura: la forza di gravità. Richard Serra Stadtische Gallerie im Lembach haus Monaco di Baviera marzo-maggio 1988

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