Alfabeto 108 Pier Aldo Rovatti Il declino della luce Genova, Marietti, 1988 pp. 122, lire 20.000 Milan Kundera L'arte del romanzo Milano, Adelphi, 1988 pp. 228, lire 10.000 Cristina Campo Gli imperdonabili Milano, Adelphi, 1987 pp. 282, lire 20.000 1. Esiste un paesaggio filosofico oltre la metafisica? Una possibilità per il pensiero filosofico di penetrare in questi territori, e di percorrerne le vie? Questi mi paiono essere gli interrogativi che muovono l'opera di Rovatti, e che spingono quella che era sembrata una mera ipotesi descrittiva - «il pensiero debole» - a misurarsi con un linguaggio che possa effettivamente dare una risposta a questi interrogativi, dislocando il pensiero filosofico stesso al di fuori delle sue strade consuete. Rovatti individua questo linguaggio nel «carattere oscillante e contraddittorio» della metafora, riconoscendo in questa sua precarietà ciò che è decisivo per la filosofia contemporanea. La metafora, infatti, funziona come metafora soltanto per «il suo statuto incerto, oscillante, rischioso», che rinuncia, in una parola, a una decisione ultima sulla verità, in quanto «la verità senza finzione non riesce a inseguire le ondulazioni della realtà». Ma il carattere paradossale della metafora è che non si può sostare a lungo in essa, senza correre il rischio che questa si trasformi in un «fiore secco in un libro», o magari in un concetto, che renderebbe inconsistente proprio la sua capacità di oscillare fra poli diversi del pensiero e del discorso. L'insonnia di Lévinas, per esempio, è una «figura», è una metafora, che si dissolve completamente quando sia tradotta in un presunto equivalente concettuale. La metafora vive proprio di questa sua morte incombente, sull'orlo del suo inabissamento in una parola dura, rigida, che ne spezza l'oscillazione e la restituisce ali' «aut aut» perentorio della decisione metafisica. Ne è un esempio la «metafora della metafora heideggeriana»: la Lichtung. La parola Lichtung, afferma Rovatti, «resta inabituale e intraducibile» come se «Heidegger si prendesse cura di preservarne l'oscillazione», creando, attraverso un continuo spostamento significativo, attraverso un costante supplemento di senso, uno «scompiglio» nella referenza abituale. Ma l'ascesi heideggeriana verso ìa parola originaria, che aleggia nel discorso della poesia, «rischia di far scomparire il campo di•intensità aperto dalla divergenza» del discorso filosofico e del discorso poetico, portando la metafora stessa a una sorta di «deriva o isterilimento», che potrebbe essere insito nella vocazione della metafora (filosofica) a una sorta di rimpatrio all'interno dell'ipostasi concettuale e ideale. D'altronde il pensiero filosofico deve resistere allo slittamento nella parola poetica sostitutiva, e muoversi in questo spazio di assenza, senza, forse, mai poter entrare compiutamente in quella sorta di erramento in cui la metafora si sposta continuamente su un'altra metafora, come «in una narI pacchetti di Alfabeta pagina 11 nos _ardo senzagQssesso razione mmterrotta di metafore, come vi fosse sempre una metafora in più», erramento che manifesta, attraverso la sua figurazione stessa «la precarietà di ogni figurazione». Il discorso di Rovatti, che si muove attraverso i nodi decisivi del pensiero filosofico del Novecento, sembra affacciarsi su una dimensione di impossibilità: su un vero e proprio impossibile filosofico. La scrittura filosofica, nella sua prospettiva, può forse figurarsi come una scrittura del «disastro» di un pensiero che si affaccia sul ... dell'incertezza, che intende il mondo come ambiguità, come un insieme complesso di varietà contraddittorie, che si incarnano in io immaginari «chiamati personaggi». Il romanzo, proprio come l'erramento intravvisto da Rovatti, ha un potere straordinariamente inclusivo: riesce a declinare in sé anche il discorso filosofico, anche il discorso apodittico, trasformando l' «aut aut» filosofico nel «se», nella saggezza dell'incertezza. ~~, ~~ o~// ••~ r.,oA non dicibile, ma che è costretto, per la sua natura, a ripiegare, o meglio a inabissarsi nel dicibile. 2. Husserl ha parlato, dice Kundera, della crisi dei Tempi moderni; Heidegger dell'oblio dell'essere nell'ambito di una metafisica che oppone il soggetto a tutti gli enti. Ma tutti i grandi temi che Heidegger analizza in Essere e tempo, prosegue Kundera, «sono svelati, mostrati, illuminati da quattro secoli di romanzo». Uno dei grandi errori dell'Europa è stato proprio quello «di non aver capito l'arte più europea, il romanzo: né il suo spirito, né le sue immense conoscenze e scoperte, né l'autonomia della sua storia». Don Chisciotte esce di casa e non è più in grado di riconoscere il mondo: vede soltanto una terribile ambiguità. Accanto dunque, al gesto «eroico» di Descartes, che ha posto l'io pensante come fondamento di tutto, sta Cervantes, con la sua saggezza "~" A nche il «pensiero debole», non totalitario, è caratteristica costitutiva del romanzo, di questa forma del pensiero («la conoscenza è la sola morale del romanzo»). In quanto «fondato sulla relatività e sull'ambiguità», esso è «incompatibile con l'universo totalitario», con un'immagine del mondo basata su una sola verità. Anzi, fra romanzo e Verità (nel senso forte del termine) c'è «incompatibilità ontologica» in quanto «sono faui di due materie diversissime l'uno dall'altra». Il romanzo non rimpatria nell'ipostasi, nella parola dura e definitiva, in quanto «lo spirito del romanzo» è il dubbio, l'interrogativo, la complessità. E l'interrogativo sull'io, eh~ si apre sempre quando si «crea un essere immaginario», un personaggio, «si concluderà sem.pre in un paradossale inappagamento», nello «stupore di fronte all'incertezza dell'io e della sua identità». Ma questa incertezza è il campo stesso della possibilità. Infatti, se il discorso filosofico si chiude su un impossibile, il discorso romanzesco si apre sul possibile: «Il romanzo non indaga la realtà, ma l'esistenza. E l'esistenza non è ciò che è avvenuto, l'esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l'uomo può divenire [... ]. I romanzieri disegnano la carta del/'esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. [... ] Il mondo kafkiano non assomiglia a nessuna realtà nota, esso è una possibilità estrema e non realizzata del mondo umano». 3. C'è una scrittura intermedia tra quella filosofica e quella narrativa. È la scrittura di Cristina Campo, che pure si muove nell'ambito di un pensiero immaginale e figurale. Nelle poche righe di presentazione del Flauto e il tappeto (contenuto ne Gli imperdonabili), Cristina Campo esprime l'impegno implacabile, definitivo, del suo lavoro: «Un piccolo tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, una 'professione di incredulità nell'onnipotenza del visibile'». È questa «dissidenza» che apre «al non licet della pienezza sovrabbondante, la quasi mortale felicità dello sguardo senza possesso». Siamo, in un certo senso, nell'area che Rovatti chiamerebbe «pensiero debole». Siamo comunque in uno dei nodi decisivi, da un punto di vista etico e conoscitivo, del nostro tempo: l'unica via d'accesso, forse, alla felicità è qui, nello sguardo senza possesso, che va oltre i decreti del visibile, dove si apre la possibilità che «interrogazione e memoria» dialoghino insieme, e che si possa «intrattenersi in pace con i morti». Il vivente, che ha rinunciato allo sguardo del possesso (e del potere), e che si è spinto fino a questa regione, «è fatto simile a Giano dai due volti, o addirittura, come certi aracnidi, ha plurimi occhi che gli rischiarano ogni lato della strada». In Simone Weil, una delle grandi letture di Cristina Campo, c'è questa stessa tensione, che è mescolanza di tripudio e di paura, di certezza e di interrogazione. E questa tensione, proprio perché è uno dei tratti più significativi del nostro tempo, si incrocia e incontra altre «dissidenze», altre grandi battaglie non per il potere, ma contro il potere coercitivo di un visibile. Cristina Campo ci ha lasciato poche pagine. Ma in questi rari testi, in queste parole rarefatte, i suoi occhi aracnidi, si spingono verso un'altra visibilità del mondo, al di là del bordo opaco delle cose e degli eventi, raccogliendo, mi pare, l'eredità della «polifonia» dei romanzi di Dostoevskij, la sovrabbondanza magica di Proust, la tensione alla seconda vista di Balzac, la furia visionaria di Zola. Il suo «trappismo della perfezione», la sua ansia di «rarefazione» paradossalmente rinviano proprio alla sovrabbondanza, addirittura all'eccesso di scritture, che hanno conosciuto quella che Cristina Campo chiama «la vita moltiplicata». Questo è forse il sole segreto e non declinante del nostro tempo, a cui, in una sorta di eliotropismo, tendono filosofie che si pongono drammaticamente il problema dell'uscita dal potere della parola e dell'ipostasi, la narrazione come disponibilità al possibile, il pensiero nella sua apertura più rischiosa, ma anche più prossima alla sua autentica vocazione.
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