•M~TEDIS( N• ><1 l:fl-J{A PROGETTCOULTURA ANNOQUINTO CONTINUAILDIALOGO CONI GIOVANI, LASCUOLAL,ASOCIETÀ, fl monTEDISOn SCIENZA RICERCA TECNOLOGIA A piùvoci Nel68 Leonetti,Dal Lago Il politico oggi Fistetti Tradizione del nuovo Grazio/i ~........,.__ ...,........... ......................................... ..........-~ Pacchetti Chomsky politico Fiabe esotiche Filosofi cattolici in polemica Il divenire musicale Saggi I luoghi di Michel Serres Polizzi Cfr Evidenziatore Classifiche Poesia Letteratura maghrebina MajidEl Houssi Mostre Recensioni s~totto Laparola • • mmun ~ i b • . . o -e~,_----~-. Nuova serie Maggio 1988 Numero 108 / Anno IO Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in Italy Proved'artista Gregotti, Santoro, Costantini, Dell'Arte, Campanile, Vasia, Bemporad, D'Errico, Garraffa, Grillo, Premiata Ditta, Wemer
pagina 2 Le immagini di questo numero Alfabeta 108 L a contestazione è diventata merce da vendere: pietre, ciottolato di gomma venduti nei drugstore con dentro un soffietto in modo tale da fare rumore quando sono lanciati contro un ostacolo. Anche i manifesti di quel maggio di vent'anni fa sono venduti ali'asta ali'Hotel Drouot, insieme ai libretti giornalistici di quei giorni; c'è anche un'esposizione ufficiale di questi reperti al Museo di Storia Contemporanea di Parigi: bel colpo! li tutto commentato dal presentatore di Antenne 2: «Gli studenti avevano ragione perché occupando il rettorato della facoltà di Nanterre si erano posti un problema di tipo etico: volevano contare di più». chestra, nessun ufficio politico clandestino alle spalle. Il movimento, questo soggetto creativo, era formato da persone di tutte le classi, per cui ha saputo e potuto inventare nuovi modi di comunicazione, nuove forme di protesta, originali proprio perché originale era l'aggregazione sociale e quindi il cosiddetto soggetto politico. Sono nati linguaggi nuovi: la differenza con la documentazione visiva della Comune di Parigi non sta tanto nelle qualità estetiche delle opere di Daumier, Doré, ma nel fatto che durante il maggio francese il creatore era collettivo. Infatti nell'Atelier popolare delle Belle arti, ma anche in altre botteghe, le capacità dei disegnatori erano messe al servizio di una volontà politica che doveva scegliere, in assemblea, che tipo d'immagine utilizzare. Lo stesso Atelier di Parigi funzionava come una vera e propria officina: una volta scelti il testo e gli slogan, i disegnatori non dovevano fare altro che interpretare e tradurre visivamente sul manifesto questa decisione. Il potere di decisione artistico era nelle mani di un gruppo di artisti, politicamente in sintonia con il movimento. per informare (senza fare violenza a/l'autonomia dei grafici parigini) sulle tendenze, sulle parole d'ordìti questi segni, allo stesso modo di certi grafiti anonimi e di certe manifestazioni anonime, hanno conme a Torino, a Berlino, a Tokyo, a Praga, a Varsavia; nuove speranze nel sogno di un immaginario liberato, di una pratica di libertà che non ha confini, né può avere censure, perché ogni dispositivo si scontra con la libertà del pensiero. I linguaggi dei mass-media, invece, erano e sono tuttora obsoleti, scadenti e prevedibili. oes GR1eux Che delusione, viene svenduto al migliore offerente il più importante sciopero generale del XX secolo! Tutto si è trasformato in comunicazione, in spettacolo, in commercio di memorie, di vite vissute pericolosamente. La censura, in questo caso, esaltando acriticamente quel maggio di 20 anni fa, non fa altro che il proprio dovere! Fortunatamente ci sono delle fotografie, dei film, dei manifesti; ci sono tutti questi segni che sono il risultato di una libera creatività, di una sconfinata bellezza proprio perché senza alcuna ideologia, nessun direttore d' orSi può discutere questa organizzazione del lavoro ma, secondo me, era il modo più congeniale ne, sulle tensioni politiche di quel momento indimenticabile. È importante riconoscere che, nel loro insieme, tutti questi manifesti, tuttribuito a cambiare il mondo proprio perché poema collettivo. I muri di allora portavano allo scoperto nuove speranze, a Parigi coMa è proprio in questo sinistro ritorno alla normalità e alle più tetre convenzioni (tipico del nostro tempo) che emerge la grande novità delle immagini del 68 francese: non commerciali, la creatività al servizio di una speranza politica non di pochi, ma di un movimento, un'intera generazione. Queste immagini presentate in «Alfabeta» permetteranno alle persone che hanno perso la memoria o che non vogliono ricordare di ricuperare quel sottile senso di humour che sempre accompagnava l'impegno politico di allora: un ministro francese di vent'anni fa, disse che «la rivoluzione di maggio, appestata di febbre anarchica, non ha in se stessa un significato molto ricco, non segnerà un solco nella storia». Apra gli occhi, signor Ministro di allora, e forse capirà di aver perso ancora una volta un'occasione di tacere! Jean Jacques Lebel Sommario Alfa beta 108 Maggio 1988 A più voci Daniele Barbieri Computer e intelligenza pagina 3 Per un haiku A cura di Carla Vasio pagina 4 Francesco Leonetti Alcuni aforismi pagine 4-5 Alessandro Dal Lago Vent'anni dopo pagina 6 Francesco Fistetti Idoli del politico pagina 7 Elio Grazioll Tirarsi fuori pagina 8 Avvlso ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per / pacchetti di AtfaMta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 Michele Porzio La musica di Morton Feldman pagina 9 I pacche/li di Alfabeta Franco Rella Uno sguardo senza possesso (li declino della luce, di P.A. Rovai/i; L'arte del romanzo, di M. Kundera; Gli imperdonabili, di C. Campo) pagina 11 Salvo Vaccaro Chomsky politico (The Politica/ Economy of Human Rights, di N. Chomsky e E.S. Herman; Radical Priorities, Towards a New Co/d War, Ecrits politiques, The Fateful Triangle, La quinta libertà, Pirates and Emperor e The Scandals of 1986, di N. Chomsky) pagina 12 Pietro Kobau Le buone maniera dell'etica (L'uomo di mondo fra morale e ceto, di N. Piri/lo; La civil «conversazione» in Germania, di E. Bonfaui; Dal «Cortegiano» all'«uomo di mondo», di C. Ossola) pagina 13 Pino Blasone Fiabe esotiche (L'individuazione della fiaba, di M.L. vo11Franz; Favole del mondo arabo, a cura di I. Bushnaq; Antiche fiabe persiane, a cura di S. Livoti e F. Hejazi; li mondo i11ca11tatod,i B. Beuelheim) pagine 15-16 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) gli articoli delle sezioni rccensivc devono ~sere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei liFederico La Sala Filosofi cattolici in polemica (Gloria o miseria della metafisica cauolica italiana?, Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, Verso una teoria non giustificazionista della ragione, di D. Antiseri; li pensiero debole, di AA. VV; L'irrazionale ieri e oggi, di U. Eco) pagine 16-17 Alessandro Arbo Il divenire musicale (li discorso musicale, di J.J. Nauiez; Linguaggio, musica, poesia, di N. Ruwet) pagina 17 Cfr Cfr / da Berlino pagina 19 Cfr / da New York pagina 19 Evidenziatore pagine 20-21 La classifica di Mario Vegetti Roberto Esposito pagina 20 Cfr / Mostre pagina 22 ~ Cfr I Poesia pagina 23 Cfr I Convegni pagine 23-25 Cfr I Recensioni pagine 25-27 bri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data). numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia cd è richiesta l'indicazione del domicilio del collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla rcdazioSaggi Gaspare Polizzi I luoghi di Miche! Serres pagine 28-29 Majid El Houssi Letteratura maghrebina pagine 30-32 Intervista a Ben Jelloun A cura di Monica Mondo pagina 32 Prove d'artista Donne in poesia A cura di Antonio Porta pagine 33-36 Prova d'artista grafica Jean-Jacques Lebel pagina 37 Toti Garraffa Mimmo Grillo Premiata Ditta Bettina Werner pagine 38-39 Fulvio Abbate Quattro idee di un Mondo pagine 38-39 Francesco Leonetti In un grande avvio: versi di circostanza pagina 39 Le Immagini di questo numero La parola ai muri di Jean Jacques Lebel In copertina disegno di Andrea Pedrazzini ne vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabcta,. è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi. dei temi dei libri - Mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeto Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Ancilla Tagliaferri Antonella Baccarin Ecliting: Luisa Cortese in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono. «Alfabcta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere. salvo che non siano Edizioni Caposile s.r.l. Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Pubbliche relazioni: Monica Palla Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici S.p.A. V.le Famagosta 75 20142 Milano Telefono (02) 8467545 Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato dire1ti110
Alfabeta 108 e i fu un periodo in cui si discuteva del sesso degli angeli. Era una discussione paludata e accademica fra filosofi bizantini, passati alla storia - loro e il dibattito - come esempi di cavillosa inutilità. Ma poiché nulla si dù senza una ragione, è evidente che anche il discutere su un argomento palesemente indecidibile come quello doveva avere la sua. Ci diventa più facile accettare questa idea se riflettiamo sul fatto che quell'argomento è palesemente indecidibile per noi, mentre è plausibile che per loro l'imporsi di una qualche soluzione fosse solo questione di tempo - il tempo di cui la verità ha bisogno per farsi strada. E col tempo, infatti, una risposta è venuta, e non a favore di una parte o dell'altra. Tramontati i motivi - politici - della necessità di un simile dibattito, la sua stessa sterilità lo ha ucciso, lo ha fatto mettere da parte. Qualcosa di questo genere incomincia ad accadere forse anche al dibattito sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale forte, ovvero al dibattito sulla posizione di quegli studiosi che ritengono che, opportunamente programmato, un computer possa essere nel senso pieno del termine una mente, come lo è quella umana. Questo dibattito ha avuto negli anni scorsi punte polemiche molto accese, culminanti nell'ormai storico articolo di John Searle Menti, cervelli e programmi, con le reazioni da esso provocate ad esempio nell'omonimo volume curato da Graziella Tonfani per la ClupClued nel 1984. Se c'è qualcosa che è stato messo in luce da quel dibattito è infatti proprio l'assenza, da entrambe le parti, di argomenti che si possano considerare conclusivi a favore o contro la AI forte. Due libri mi hanno condotto a riflettere sul profondo malinteso teorico che sta alla base di questo dibattito, un malinteso che è comune tanto ai sostenitori quanto ai detrattori della mente artificiale, John Searle non escluso. Si tratta da una parte di un vecchio libro di Joseph Weizenbaum, uno dei padri della Al, (li potere del computer e la ragione umana, Torino, 1987), da poco tradotto e stampato in Italia, dall'altra della ormai classica raccolta di saggi sulla complessità realizzata da Boechi e Ceruti (La sfida della complessità, Milano, 1985). Questi due libri hanno in realtà poco in comune, e in nessuno dei due si trova il discorso che mi propongo di fare, ma non sarei arrivato a questo discorso se non me li fossi trovati di fronte insieme. Singolare mi è apparso che in due contesti così diversi compaia lo stesso termine, e in entrambi i casi come punto nodale dell'argomentazione. Weizenbaum parla di hybris della intellighenzia artificiale, come ricorrente adesione degli studiosi di AI «alla conclusione di essere vicini a una comprensione teorica generale dell'universo o anche alla conclusione di aver dimostrato, siccome le loro macchine funzionano, la validità del)'idea che le leggi dell'universo siano esprimibili in termini matematici». Ceruti, non molto lontano da questo, parla di hybris dell'onniscenza, ponendo l'accento sulla finitezza della conoscenza umana, e sul fatto che la presa in considerazione della posizione dell'osservatore nella ricerca scientifica rende problematica qualsiasi pretesa di imparziale attività conoscitiva. Del libro di Weizenbaum, in generale interessante e estremamente charificatorio in ogni sua parte, vorrei prendere in considerazione due momenti. Il primo riguarda una distinzione molto importante per gli addetti ai lavori della Al, quella tra regime A più voci di prestazione e regime di simulazione (performance mode e simulation mode). Per chi lavora in regime di prestazione infatti, quello che conta è l'efficienza del programma; poco importa, per esempio, che un programma di traduzione automatica si comporti in un modo riconducibile a quello in cui si comporta un uomo nel compiere la medesima operazione; l'importante è che funzioni, e nel modo più efficiente possibile. In regime di simulazione, d'altra parte, l'efficienza è poco rilevante, e quello che conta è la somiglianza con il processo che si intende simulare. La maggior parte delle persone che si occupano di Al lavora comunque in regime di prestazione. Il secondo momento riguarda il discorso della base fisiologica. Ci dice Weizenbaum - e dal 1976, anno di uscita di questo libro in America, ce lo siamo poi sentiti ripetere spesso - che l'essere umano - ciascun essere umano nel corso della propria storia individuale - è definito dai problemi che incontra, allora tra questi problemi ce ne saranno una grossa parte legati alla sua biologia, al suo essere costituito di materia molle e organizzata in un certo modo. Per quanta intelligenza possiamo fornire a un calcolatore, per quanto accurata possa essere la sua simulazione dei processi neuronali umani, il calcolatore non potrà mai sentire nel medesimo modo in cui un essere umano sente, e questo per ragioni che non vanno a scomodare nessuna mistica dell'irrazionalità (alla quale tuttavia Weizenbaum pare ogni tanto avvicinarsi) e nessuno spiritualismo. Ci sono, sepolte nel nostro inconscio, una serie di conoscenze di base che dipendono profondamente dalla nostra primitiva interazione col mondo in quanto esseri fatti di carne, e, di conseguenza, per quanto insegnamo a un calcolatore ad apprendere, tutto quello che è legato alla sua struttura fisica sarà per lui diverso da quello che è per noi. Partiamo ora dall'idea di base dei teorici della complessità, della fondamentale presenza dell'osservatore nella valutazione dell'osservato. Fondamentale presenza dell'osservatore significa fondamentale presenza dei suoi scopi conoscitivi, significa, come fa notare Ceruti, che noi non possiamo mai uscire dalla dinamica osservatore-osservato, per sorvolare la mappa del sapere; e che di conseguenza l'insieme delle conoscenze che abbiamo del mondo non riguarda una realtà assoluta, conosciuta «per quella che è», ma più semplicemente il nostro rapporto operativo con quella realtà, il nostro bisogno di modificarla per i nostri scopi. Detto in altri termini, conosciamo la realtà in relazione ai nostri scopi, e valutiamo l'efficienza di un modello non tanto in base alla sua somiglianza con la realtà, quanto in base alla sua somiglianza con quegli aspetti della realtà che ci sono utili, trascurando tutti gli altri, somiglianza che potremmo oltretutto definire come una «identità sotto rispetti pertinenti» - e nuovamente la pertinenza è qualcosa che riguarda una finalità. Valutiamo inoltre l'efficienza di un manufatto in base alla sua capacità di aiutarci a risolvere specifici problemi - senza con questo crearcene troppi altri. Insomma, senza una intrinseca finalità non esiste conoscenza e non esiste tecnologia. Non si costruisce nulla se non ci si è chiariti prima a che scopo lo si costruisce, e se ne valuta poi l'efficienza sulla base del suo raggiungere quello scopo. Ma - e qui arriviamo al nodo che ci interessa - a quale scopo della nostra esistenza è legata l'esistenza dell'uomo? A che scopo, per quello che riguarda me stesso, esistono e io percepisco gli altri esseri umani? Nel momento in cui io definissi - per quanto in maniera magari anche estremamente complessa - una finalità dell'uomo in cui poterlo completamente riconoscere, accetterei la possibilità teorica di una sua simulazione artificiale, anzi, di una sua riproduzione artificiale. Il problema, da quel punto in poi, sarebbe solamente tecnico - per quanto certamente di enorme complessità. Ma, nella prospettiva che stiamo esponendo, nel momento in cui io avessi definito una finalità dell'uomo nei cui termini riconoscerlo in toto, avrei anche definito una mia finalità conoscitiva, sulla base della quale avrei potuto dare quella definizione. Di nuovo, non avrei definito l'uomo, ma solo ciò che me ne serve, così come i modelli scientifici non definiscono la natura ma solo ciò che ce ne serve. Il punto è che, mentre è piuttosto pacifico che possiamo conoscere la natura solo in relazione a quanto ce ne serve, non altrettanto si può dire dell'uomo, quando si parla del quale ogni oggetto di conoscenza è a sua volta un soggetto, che può avere opinioni proprie, e quindi finalità conoscitive diverse dalle nostre. L'automobile è un ottimo sostituto del cavallo, se lo scopo è quello di spostarsi; i diamanti artificiali sono ottimi sostituti di quelli naturali per numerosi scopi, probabilmente al momento tutti quelli che abbiamo, ma questo non significa che automobile e cavallo o diamanti artificiali e naturali siano del tutto interscambiabili, come ben sanno i commercianti. Niente è del tutto interscambiabile con qualche cosa, l'interscambiabilità è sempre relativa a qualche scopo. pagina 31 Nei sistemi totalitari l'uomo è davvero ridotto a un insieme di scopi precisi, secondo la finalità conoscitiva di chi detiene il potere. Potremmo definire la democrazia come l'assenza di privilegi degli scopi conoscitivi di ciascuno nei confronti di quelli degli altri. La democrazia è un contratto tra pari, ciascuno dei quali riconosce il di ritto di tutti gli altri. Ma questo contrat to esclude necessariamente «qualcuno», esclude i non uomini. Fino a poco più di un secolo fa in molte democrazie la qualifica di uomo non era riconosciuta a chi aveva la pelle nera, l'esistenza del quale poteva tranquillamente venire ridotta a un insieme di finalità. Lo schiavo esiste infatti in funzione della sua utilità, non ha diritti perché è fuori dal contratto. Nessun ragionamento conclusivo poteva allora dimostrare il diritto all'uguaglianza di coloro che avevano la pelle nera, perché non si può dimostrare di appartenere a un insieme - quello degli uomini - la cui definizione è necessariamente sfuggente. L'unico sistema per entrare nel contratto tra pari era di imporre politicamente il proprio ingresso, costringend_o una collettività a rinunciare alla pretesa della propria finalità conoscitiva nei confronti della comunità sottoposta. Per tornare al dibattito sull'Intelligenza Artificiale, trovo che per certi versi esso ricordi quello del sesso degli angeli, in quanto parte dal presupposto implicito (tanto in chi afferma quanto in chi nega) che sia possibile conoscere o non-conoscere la natura conclusivamente. Contrariamente a quanto la maggior parte di questi studiosi pensano, infatti, il problema della macchina intelligente o meno non è un problema filosofico in senso stretto, che si possa risolvere a tavolino, come non lo era il problema dell'umanità dei negri, o dell'umanità delle donne, o come non lo è il problema dell'umanità di qualsiasi essere umano. Finché le macchine sono utili apparati per simulare caratteristiche specifiche del nostro pensiero, nessun problema si pone, ma nel momento in cui supponiamo che ci possa essere in loro un'intelligenza, ovvero un diritto di entrare nel contratto, il problema diventa politico, diventa il problema del loro imporsi, o del fatto che qualcun altro le imponga, in quanto aventi diritto a una propria finalità conoscitiva che le esenti dal soggiacere totalmente alla finalità conoscitiva degli umani. Detto questo, non ha più nessuna importanza che l'intelligenza di queste macchine abbia qualche somiglianza con quella umana. Il problema dei risultati del regime di prestazione e quello del supporto non biologico sono problemi che non hanno più a che fare con quello del riconoscimento di un'intelligenza, benché continuino ad avere a che fare con lo studio della mente umana. Insomma, costruzione di macchine intelligenti, e loro riconoscimento in quanto tali da una parte, e riproduzione dell'intelligenza umana dall'altra sono problemi diversi, comunicanti ma da non confondere. Se si è discusso tanto una volta sul sesso degli angeli, è forse perché quella discussione richiamava l'attenzione sulla necessità di un approfondimento filosofico su un tema ancora giovane ma molto più vasto, come era allora quello della religione cristiana: ben altri problemi gli stavano dunque alle spalle. E direi che il punto, per quanto riguarda l'Intelligenza Artificiale, sta proprio lì: non è di quello, alla fine, che si sta parlando, ma forse dell'entusiasmo di un nuova disciplina e certamente del rapporto tra conoscenza e potere.
pagina 4 A più voci Alfabeta 1081 Taccuini Perunhaiku Poesie premiate dalla giuria del primo Concorso per un haiku in lingua italiana o latina A farsi vento ventaglio ad ala immota il falco ruota e non vediamo come invecchia un sasso da un'estate all'altra. Silent omnia nivea prima luce fruor quiete Sul monte il pesco Se vi penetra il corvo festa di fiori! Nicola Ciola, Napoli Jolanda Quinti, Roma Tiziana Buonfiglio, Roma Luigi Manzi, Roma La vecchia serpe il vino dei tini tinge di luna. L'oscuro talento dei bracchi inventa il salto della lepre nel fuoco dell'autunno Un nido ormai vuoto tra i rami scarni si riempie di neve. In mezzo al grano il berretto più rosso è quello di un ladro. Argo Suglia, Roma Felice Ballero, Genova Alfonso Canteruccio, Roma Luigi Manzi, Roma Nota Quasi tutti gli autori scelti dalla giuria, di cui hanno fatto parte Silvio d'Arco Avalle, Edoardo Sanguineti, Sono Uchida, Carla Vasio, hanno in qualche modo a che fare con la letteratura. E la «spontaneità» del haiku? Non esiste, naturalmente, se la si ponga al di qua dell'elaborazione di scrittura. In Giappone esiste una pratica intellettuale completamente diversa dalla nostra. Quasi tutti sono in grado di scrivere un haiku corretto: in occasione del compleanno dell'Imperatore vengono mandate al palazzo migliaia di poesie composte su un tema prestabilito. D'altra parte l'opera ha una sua vita e presenza indipendente dall'autore: nelle riunioni di poesia si svolge un complesso rituale affinché sia cancellata qualsiasi traccia che porti a una attribuzione; ma già i poeti erranti del XVII e del XVIII secolo abbandonavano lungo la strada foglietti con poesie che altri viandanti avrebbero raccolto. Al Concorso promosso in Italia da alcuni poeti giapponesi lo scorso anno sono arrivati circa 5.000 componimenti poetici, che _Temi. Nel 68 spesso non tenevano neppure conto della matrice stabilita. Un risultato che ha stupito gli stessi promotori. Che sia una risposta al giusto intervento di Maria Corti su Repubblica del 17 dicembre? Perché se ci saranno migliaia di poeti spontanei che vengono allo scoperto, forse si comincerà a distinguere fra lo sfogo del cuore e il mestiere di letterato, mentre i trafficanti in poesia perderanno quegli spazi intermedi ed equivoci nei quali operano. Carla Vasio cuniaforismi A priamo, leggiamo il grande passaggio del cambiamento mancato con la «nuova sinistra» (per correggere profondamente le lacune, gli errori, le stupidità che la ricorrenza ventennale produce). Il periodo è lungo: andiamo dal 1962 alla prima metà buona dei sessanta. Per i gio.vaniche vogliono ricostruire quel tempo - su cui si cerca di confonderli - i libri ci sono; e lo studio occorre perché ci sono tutti i problemi al punto. Gli intellettuali Fra i libri, riviste e giornali dell'epoca, ce ne sono anche miei; io svolgo e commento qui tre aforismi di Fortini in Questioni di frontiera (Einaudi, 1977). Il filosofo o saggista è Franco Fortini; poeta, in altri libri; e qui, autore di prose fra le maggiori del secolo. È un Campanella, un Machiavelli di «!storie» di oggi. Ciò va detto con ogni semplicità. Egli pare solo un moralista, che tocca cioè con etica verbalistica e con sapienza gnomica cose di meditazione comune; talora si può sospettarlo di retorica, perché svolge un 'analisi raziocinante in forme di equilibrio sintattico, e quasi oratorio, comunicazionale e didattico, piuttosto che con ellissi o con propria elaborazione teorica pura. Ma è questo il suo stile aforistico e filosofico. E se Nietzsche non si sente dietro, col suo timbro invasivo e sfalsante, si sente Adorno a tratti, e molte altre frequentazioni e compagnie. Tocchiamo con mano anzitutto, immergendoci nell'epoca poi spezzata (Scritti di politica e letteratura, 1965-1977), la differenza posta tra ruolo e funzione degli intellettuali. Sembra intempestiva e certo è tale, ma torna precisa. Degli intellettuali Fortini segnala come ipotesi e previsione la «dissoluzione in un ceto di attività terziarie», dove essi si esercitano accanto al «verbalismo generalizzato» della mistificazione culturale di massa. Ecco, è già avvenuto, è l'oggi. Era inoltre prevista, l'altro ieri, e sbagliata, degli stessi intellettuali «la scomparsa», come un «dover essere» in una situazione di nuova società. Esplicitamente Fortini dice: «Io che parlo sono un intellettuale di formazione borghese, anzi piccolo-borghese, cresciuto in un tempo e un luogo in cui gli intellettuali come casta avevano ancora la possibilità di far coincidere il proprio ruolo con la propria funzione, in cui cioè la mistificazione da essi subita e quella esercitata, relativamente equilibrandosi, lasciavano spazio per attività gobbe, ma, in quanto gobbe, ben fatte». (Questa citazione mi sembra esemplare del timbro di Fortini.) Egli quindi impreca a quanti parlano sempre di prassi sociale «quasi questa consistesse solo nel distribuire volanti- ... Francesco Leonetti ni davanti alle fabbriche e picchiarsi con i questurini» ... Oh come pare quel periodo di anni un sogno! Siamo nel 1971. Oggi di nuovo vorremmo dire a tutti gli intellettuali seduti: che occorre il volantinaggio ... Oggi ritornerebbe giusto e buono. E quanto allora si è sprecato! E così Fortini replica: «Non si stia lì a colpevolizzarsi in perpetuo con l'immagine della pratica militante». Giunge a contrapporre la funzione al ruolo. Afferma insostituibile la funzione intellettuale di approfondimento specifico e di precisione professionale «nell'atto stesso in cui si nega il ruolo dei portatori specializzati di questa funzione, ossia degli intellettuali». Che il suicidio degli intellettuali ci sia, dice, per entrare come eguali nella base generale degli uomini, un giorno: purché, per ora, nell'attuale situazione di potere venga esaltata la funzione: e nel senso che così si esalti la funzione di precisione e approfondimento in tutti. Perfettissimo; retorico, ma tagliente: avversario del «casino», consapevole delle tappe difficili «verso il comunismo», allora e sempre. E aggiunge che l'intellettuale «non ha da vergognarsi della sua specializzazione e del privilegio esplicito (capacità di fare qualcosa meglio di chi non la sa fare) ma solo dei privilegi impliciti che ne trae o che la società gli conferisce (collocazione dell'individuo in una gerarchia di poteri invece che di una funzione in una gerarchia di valori)». Siamo nel 1971. Fortini contraddice il disordine di superficie, per andare a quello radicalizzato, rovesciante. Non gli va bene la semplice pratica rivoluzionaria ragionata con cui, presto, si riteneva di rendere attivisti i più vari strati sociali e mestieri e servizi. E a questo livello andiamo subito d'accordo con Fortini, anche se a noi, per esempio, una festa piace non formalizzata, e in lui sentiamo qualche pedanteria ... Non c'è pedanteria, c'è rigore. A un altro livello Fortini, qui come in altri luoghi del suo libro dell'epoca, lrn qualche ritegno dubbioso, in termini non espliciti ma netti, verso ogni scelta di chi, intellettuali di estrazione, rapidamente più o meno si renda «quadro politico», dirigente, responsabile di compiti organizzativi con salario operaio, propagandista, attaccante. Chi ha visto in quel tempo la straordinaria, complicata, spumeggiante, incredibile mescolanza e turbolenza di passaggi da compito a compito sa che tutto ciò è un bene, è un portento del «nuovo nella strada», anche se prevalgono i tappi sulla schiuma ... E dunque Fortini non ci convince; ma ascoltiamolo. Egli arriva a parlare di un «conflitto fra intellettuali-politici e politici-intellettuali» che «ha segnato (anche di sangue) gli ultimi secoli». E ci ricorda come è precisamente decisivo nella modernità un confronto oggi dimenticato, quello fra i Lenin e i Maiakowskij, i Bretone i Trotzkij, ecc. Oggi non c'è pm passione per i problemi dei dissidenti che hanno stravinto: e, anzi, vale la pena di rammentare che l'organizzazione comporta sacrifici, e soccombenti, ma senza di essa forse tutto è inutile ... Ci interessano però tutte le contraddizioni «secondarie»: questa che Fortini dice; quella fra gli operai e gli intellettuali, che è autentica così nella storia strana dei partiti comunisti come in quella del sessanta-settanta, decidendo - sotto il più chiaro flusso - le scommesse e le tensioni sull'orlo del «militare» ... E però Fortini ripiglia noi con un vero tuono di parole - insieme oracolari e illuministe, singolarissime sue, aforistiche - e ci travolge verso una verità insieme: «ma non c'è altra via» e «ognuno scelga il suo posto, la realtà farà la sua giustizia, la grotta del monaco non sarà, alla fine, più protetta né più pericolosa di quanto sia la barricata del combattente, non sappiamo quali parole morranno e quali vivranno, non resta che tenersi alla breve zona certa di doveri ancora illuminati». Un dibattito interno acutissimo è svelato qui. Fortini contraddice Sartre (che ha scelto il suicidio e cioè la militanza politica, tout court, il farsi quadro o punta politica, anche nella teoria, che diviene azione teorica politica). Questo dibattito pare austero e scostante: riguarda solo l'atteggiamento nel lavoro intellettuale. Dell'altro, del politico, diremo fra poco. Qui, intanto, ci serve oggi, pur non essendo d'accordo in tutto con Fortini, porre in evidenza quale giusta domanda egli ha portato: non discendere nel magma per ora ... •Inutilmente. I rapporti di amore Ciò si salda subito con una trattazione di problemi di libero amore. Che giunge a quest'altra conclusione stupenda «il desiderio del proprio nell'altrui piacere e dall'altrui promozione nella propria - il cosiddetto amore - passa [... ] attraverso l'aggregazione tendenziale, a una coppia autentica, di sempre più numerosi e diversi esseri, in una condizione di parità, di autonomia e di rischio». Qui non c'è facile libertà sessuale secondo Reich - che urta sia in una esistenza attua- •le di soggetti traumatici sia in un'esigenza più piena o più pura. S'intravvede piuttosto la comune, il gruppo sociale autentico, la nuova società, la comunicazione sincera o «contatto» con contraddizioni nuove, le forme embrionali di collettivismo di base: non per confusione, ma per continua scelta di reciprocità. Quali talora si sono - in anticipo - date nelle situazioni del periodo di «nuova sinistra». (E sono state lette come mode, costumi di liceità, abusi del variabile: invece rompono gli aspetti della «coppia» che sono relativi al codice gene-
Alfa beta I 08 tico e all'istituzione mentre la continuità non importa che ci sia, non vale di più, può darsi e può non darsi, fra compagni.) Ma leggiamo con più cura per capire meglio. Siamo nel 1974, Fortini sviscera un aforisma di Kraus: «L'uomo erotico concede alla donna chiunque al quale non la concederebbe». Fortini lo svolge e lo spiega, anzitutto, traducendolo così: «L'uomo erotico, con proprio godimento, concede alla donna quello o quei tipi di uomini che sente in qualche modo inferiori a sé, e quindi alla donna, e che combatterebbe se si presentassero invece come rivali». E spiega che tale situazione è frequente nella vita e anche nella letteratura, quando la terza persona non si pone alla pari con la prima o seconda persona del rapporto; ma ne è separata da un «dislivello» o sociale o culturale, o di età, di esperienza, di classe: è un'ingenua, una lavandaia, un giardiniere, un adolescente; è poi «sedotto». In Laclos, in Proust, ancora in Lawrence, ecc. In questo caso estesissimo, dagli adultèri flaubertiani alle complicità del romanzo nero e della cronaca di malavita o di alta società - in questo caso di amour à trois diretto o indiretto, il fatto che il terzo non sia posto come pari semplifica tutto, nella tradizione «borghese» anteriore della vita interindividuale e amorosa. A poco a poco Fortini ci porta a rovesciare l'acuta e fulminea frase di Kraus di mezzo secolo fa; e tuttavia non ci porta a nessun esclusivismo; così: «L'uomo erotico concede alla donna chiunque perché non sta a lui concederla a nessuno e nessuno ha da concedere o da essere concesso, ma ognuno ha da scegliersi nei propri desideri, ognuno ha da decidere di essere quel che vuol essere» (p. 77). Ecco questo è già tendenzialmente il modo di pensare di oggi; è diventata matura una parità di scelte, quali che variamente siano; ci sono solo gli stereotipi istituzionali, oppure le autenticità: che sono difficili, e gli stili di vita. È dunque avvenuto intanto un certo mutamento di struttura, nel senso di Braudel: che in uno scritto famoso ha precisato come il movimento del 68 sconfitto politicamente abbia però colpito il sentimento vecchio del dovere, sostituendolo col principio della felicità individuale: che non è semplice, ma pone un problema etico nuovo col suo disordine che non è di eccesso, ma di altro ritmo. Né di felicità tanto si tratta, a me pare, quanto di verifica di se stessi: con rifiuto del condizionamento, quanto è possibile, con rottura della convenzione comportamentale. Sì, certo, è stato il movimento del 68, anticonsumista e con proprie esigenze di altri bisogni, valori, consumi, ad agitare tutto ciò. Il principio di felicità (o di piacere in senso freudiano) comporta difficoltà, ma nuove: e dà un 'autentica «differenza» alla donna, con una sua diversa scelta di stile, nell'atteggiamento proprio, nell'esperienza; mentre ciò prima era non giusto, sia seguendo il proposito di emancipazione - proprio delle classi alte o intellettuali - sia rompendo la tradizione ma solo per una parità di nuovi «diritti». Le grandi scelte di linea politica Veniamo ora a discutere di linea. Più brevemente possibile rendiamo chiaro, leggendo e commentando Fortini, le diversità di strategia politica che si sono confrontate e contrastate (talora riunendosi per alleanza e difesa) nel decennio vivo e terribile. Si fa un salto indietro: lo scritto è infatti del 1962; si comincia infatti allora; e al 68 è premessa - o sottostà come fiume inte~no - una lunga preparazione, quale sempre corre nei moti dal 1789 in poi (e anzi è essa, elaborazione continua, che conta, mentre gli eventi esterni, che in parte ne derivano, talora la disperdono). Fortini ci dà una chiave fulminea in una lettera a Raniero Panzieri. Chiede «prove» su una situazione che altri ritiene matura per un processo di mutamento radicalizzato. E sempre sarà così per dieci e più anni: ci sono delle analisi che accelerano (poi fuggendo in avanti) la carica critica di organizzazione e lotta e altre che tengono fermi i principi di analisi. Fortini: «Ma, diciamolo chiaro, la sola garanzia può venire dalla rilevazione di indici non controvertibili, dalla verifica della premessa maggiore: l'esistenza di un dato grado di tensione anticapitalistica e la sua traducibilità in prospettiva politica». E aggiunge infine: «So bene che, in assenza di tali prove, mi precipiterei, egualmente, con affannosa debolezza, verso le vostre 'volontà buone', verso il nostro moralismo, insomma verso la nostra sconfitta». Con ciò, Fortini si riserva: si preferisce poeta che «cappellano», non vuol credersi «nella rivoluzione» quando si è solo «nella storia» ... Ma, soprattutto, solleva una obiezione teorica precisissima, relativa al rapporto fra masse e avanguardie, fra proletariato e gruppuscoli, fra base e organizzazione, che è precisione propria del materialismo teorico (dialettico). E siamo in una fase - dal 1962 in poi - dove tale rapporto è (in Cina) posto come mobile, quale è nella teoria stessa di Lenin, non bloccato dal partito-Stato, né svuotato dalla fede nella spontaneità o dal teoricismo assoluto. Per capire bene questa obiezione, che condividiamo, dinanzi ai più acuti amici del tempo dei «Quaderni rossi», ricostruiamo il grande dibattito, seguendo qui le valutazioni di un altro teorico, Eleonora Fiorani (cfr. J/ respiro de/l'Occidente, in La scienza tra filosofia e storia in Italia nel • Novecento, Roma, Presidenza del Consiglio, 1987). Sul soggettivismo attivistico che è proprio della posizione di Panzieri e di altri teorici operaisti, dice Eleonora Fiorani: «Secondo l'affermazione centrale di Raniero Panzieri, 'i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive' e 'queste sono state plasmate dal capitale' [... ] È una presa di A più voci posizione polemica, rispetto a una tradizione che più che ·economicista' mi sembra giusto dire 'produttivistica' del movimento operaio. In tale tradizione si è infatti identificato il socialismo con lo sviluppo delle forze produttive non già nel senso di una prospettiva di eliminazione del lavoro superfluo, con le tappe verso il comunismo, ma nel senso di un'espansione indefinita del macchinismo e dell'etica del lavoro. Rispetto a questo stravolgimento, che si è dato processualmente in modo quasi insensibile o via via necessitato da motivi impellenti di ogni ordine, si è mossa come teoricamente attiva la critica di Panzieri, assai stimolante per una riconsiderazione materialistica reale del processo produttivo e della lotta di classe. Tuttavia da un..punto di vista di rigore teorico il punto citato è paradossale: e nel migliore dei casi si pone come rappresentazione non mediata del/'esperienza operaia, (corsivo nostro). Non mediata vuol dire qui: non complessiva ma sorgente dalla base operaia, autenticata dal quotidiano operaio con la sua verifica e però non misurata con l'analisi di tutti i livelli». E ancora scrive la Fiorani: «La nuova sinistra, particolarmente di matrice operaista, considera allora che la contraddizione classica tra forze produttive e rapporti di produzione è insoddisfacente per l'analisi del capitalismo attuale e in sede disciplinare specifica. (O, più estensivamente, la ritiene sbagliata, quasi solo una metafora, come Colletti dice a proposito delle categorie di struttura e sovrastruttura.) Mi pare di dare così una spiegazione storiografica soddisfacente, benché minima, di questo nodo della esperienza della sinistra italiana» (pp. 614-615). e Poco oltre, in questo scritto magistrale, la Fiorani passa a considerare con ogni limpidità il quesito importantissimo che è l'argomento specifico della sua riflessione: se si dia un «uso capitalistico della scienza» (tesi classica) o un «incorporamento» della scienza nel capitale (tesi operaista nella nuova sinistra, che è di tipo sociologico). E vuole discutere entrambe, e lo stesso rapporto fra ricerca scientifica e tecnologia, in un presente ancora più problematico qual è l'oggi con base spoliticizzata sempre più. Torniamo al vecchio punto. È ben chiaro che se la via rivoluzionaria è in uno sviluppo al cui interno si compatta uno strato operaio di fabbrica, che ha un buon rapporto con intellettuali-politici, si tratta di una via. E se essa è basista ed emergente da ogni strato, con le teste immerse nella prassi operaia, e teoriciste insieme, è un'altra via: che può sognare (come e più della prima). L'accelerazione di processi ben finalizzati, nella moderna entropia, è un sogno infatti! Essenziale è l'obiezione di Fortini, che è pure una scelta dell'interlocutore. Si chiarisce in ciò il punto più difficile e interessante della storia di movimento disperso che ci precede, dopo la storia di partito comunista bloccato (già fra le tesi di Roma del 1923 e quelle di Lione del 1926 con una «sinistra che si fa centro», e che oltre è centrista, tanto più dopo l'esilio e carcere e la grande Resistenza, nel 19451948, quando in Italia sono mischiati e confusi «partito» e «fronte» con influenti cattolici, e lo sviluppo puramente produttivistico diviene vincente). pagina 5 j Certo è venuto innovatore dal 68 il «rifiuto della delega»: il basismo, la verifica dei mandati rappresentativi, i delegati intercambiabili, le assemblee per i comitati dovunque: una ipotesi di democrazia diretta. E dentro essa, tuttavia, i problemi di linea - oggi seppelliti nella nostra tensione inutile di eticità senza più nessuna analisi - sono quelli che abbiamo toccati qui. La posizione di Fortini che è di «marxismo critico» (attento a rendere utili gli apporti anche di teorici di altre correnti, con un filo di continuità anche «bolscevica» e un filo di aggiornamento), registra da una parte la differenziazione dell'operaismo, e dall'altra è critica verso il «revisionismo» presso Togliatti e il centrismo interno del PCI, in termini che poi confluiscono nel «Manifesto», fuori partito, in un'attenzione «maoista» ai problemi dei popoli del terzo mondo e alle loro culture. E a questa posizione sono connessi, e relativamente contrastanti, gli indirizzi maggiori di leninismo (in Italia proveniente da Bordiga) e di operaismo (con matrice presso Cook e Pomnekook, nel movimento operaio olandese, ecc. ecc.), già detti. Per completare l'insieme dei riferimenti intorno a Fortini nel periodo fra 1965 (data di rivolta nel campus di Berkeley) e settanta operavano inoltre in Italia i comitati di base operaia, il situazionismo inventivo, le formazioni di «avanguardia operaia» e quindi di «democrazia proletaria» con vicinanza alla base, studentesca e richiamo al gramsciano autentico e attivo ancora nel PCI del 1945nel nostro passato che è diviso da noi, o come remoto. •
pagina 6 O ra che maggio è arrivato, si può tranquillamente ammettere che forse il silenzio era preferibile a tante banalità dette e scritte in questi ultimi mesi sul 68. Come definire altrimenti quanto è apparso nei periodici più diffusi e nei quotidiani? Ricordi compiaciuti di alcuni leader, oggi sopravvissuti in politica o riciclati dai media come possibili imbonitori, inchieste sulla moda degli eskimo e sulla fortuna dei Beatles, ammonimenti e pentimenti di nuovi moralisti, memorie nostalgiche sulle origini del movimento a Catania o chissà dove, acute ipotesi storiche sulle origini del terrorismo. In questo panorama di futilità o di rese dei conti spacciate per interpretazioni. spicca per fortuna qualche eccezione, come il libro di Romolo Gobbi, Il 68 alla rovescia, che ha il merito di offrire, accanto a ipotesi molto discutibili (il 68 come festa collettiva) dei frammenti di esperienza vissuta più veri di tante agiografie (come il libro di Capanna, con tutta la sua buona coscienza di virtuoso della lotta di classe). E certamente un'eccezione è costituita dalla serie di inserti pubblicata dal «Manifesto», finora il tentativo più serio di scrivere la storia di quell'anno e delle sue ragioni. Alcuni di questi materiali restituiscono qualche dignità a un evento, o meglio a un processo, che molti oggi vogliono minimizzare (o trasformare in folklore) in nome del senno di poi, e cioè non solo delle sciagure nazionali che sono seguite, ma soprattutto dell'impasto di mitologie individualistiche, culto dell'isolamento, passività politica organizzata ed etica bocconiana che viene definito cultura degli anni ottanta. In nome di tutto ciò si può apprendere - dai soliti analisti del costume nazionale, commentatori televisivi, giovanotti di allora divenuti guru dei nuovi movimenti religiosi - che il famoso 68 sarebbe stato un carnevale estemporaneo, una rivolta maldestra e populista contro la razionalizzazione inevitabile della società italiana, un abbaglio collettivo di intellettuali straccioni, o, nel caso migliore, l'oscuro risveglio di una spiritualità che avrebbe trovato poi in Raijnesh e nel fondamentalismo religioso il suo vero sbocco. Qualche osservatore più benevolo riconosce in questi eventi un primo mutamento necessario della cultura di massa, l'inizio delle battaglie per i diritti civili e per la laicizzazione della società, e comunque una sorta di generosità pubblica, anche se mal riposta. Ma sarebbero aspetti secondari in un panorama retrospettivo che si vuole dominato dall'utopismo e dal folklore. Invece di marciare verso il loro destino informatico e produttivistico, alcune società, come quella italiana e francese (in cui non ci si doveva nemmeno battere contro guerre insensate o invasioni sovietiche) si sarebbero prese una bella vacanza, foriera di pericolose illusioni e durata troppo a lungo. Finita la vacanza, non resterebbero nella cosiddetta memoria collettiva che dettagli di costume, e tutt'al più patetiche istantanee di giovanotti che si accapigliano, chissà perché, con dei loro coetanei in divisa. Il modo peggiore per affrontare questa celebrazione depressiva è probabilmente quello di rinchiudersi nel narcisismo settario dei reduci, nella coltivazione dei propri ricordi e nell'adorazione di quelle istantanee, come Valle Giulia o la sera della Scala (tentazione a cui non sempre sfuggono gli inserti .del «Manifesto»). Ma forse la reazione più sterile (e questo non vale solo per i reduci, ma per l'intera sinistra, sessantottesca e no) è continuare a ignorare gli equivoci da cui il 68 è stato dominato, e che si sono trascinati a sinistra fino alla soglia di questi anni. Tra gli equivoci durati troppo a lungo c'è sicuramente il mito politico della rivoluzione - su cui oggi si sorride o si sorvola, ma che, se non altro a parole, ha occupato il cosiddetto immaginario di gruppi e movimenti per quasi dieci anni dal 68. E soprattutto c'è quel linguaggio stereotipato, ereditato in parte dalla cultura tradizionale della sinistra, e alimentato da esperienze politiche intraducibili nelle società occidentali, che ha bloccato - con tutti i suoi meccanismi discorsivi automatici, i suoi slogan truculenti, le sue parole d'ordine insensate ed estatiche - la possibilità di definire realisticamente, già allora, i fenomeni sociali e politici in corso. E c'è pure il discorso sulla violenza, la disponibilità anche solo verbale alla violenza, a cui pressoché nessuno «che abbia fatto il 68» è rimasto estraneo. Ma non vale la pena di insistere più di tanto su questi equivoci, su questa sottocultura, che in fondo (anche se con le sfumature più varie) era ampiamente diffusa nella sinistra, istituzionale o no, verso la metà degli anni sessanta. E non vale la pena insistere, non solo perché i relativi mea culpa sono stati abbondamente recitati, ma perché anch'essa aveva a modo suo delle ragioni. Se tutti noi abbiamo una responsabilità per aver accettato o riprodotto quella sottocultura - con i suoi miti politici, i suoi linguaggi stereotipati e opachi, la sua intriseca disponibilità alla violenza - è anche vero che la cosiddetta cultura delle istituzioni non era immune da una pratica della violenza, per così dire, speculare a quella della !>inistra. Bisogna aver vissuto nei primi anni sessanta per poter ricordare la «cultura» dei grandi gruppi industriali, dei sistemi istituzionali o dei partiti al A più voci governo. Varrebbe forse la pena di ricordare, ai nostri lettori più giovani, che cosa sia stato il caso Braibanti. Ma l'equivoco più grosso, su cui la sinistra si è interrogata ben poco, è il senso politico di quei movimenti. Ora, per impostare decentemente il problema bisognerà ammettere che il fenomeno per cui un numero enorme di soggetti scopre improvvisamente - nel bene e nel male, e con tutti gli equivoci e i miti accennati - la dimensione politica dell'esistenza è qualcosa di eccezionale nelle società occidentali del dopoguerra. E questo per almeno due motivi: in primo luogo per il carattere improvviso e spontaneo della scoperta - ché né la politicizzazione tradizionale di ampi strati studenteschi, né fatti in fondo sporadici o reattivi (come la mobilitazione all'Università di Roma dopo la morte di Paolo Rossi) facevano presagire; e in secondo luogo per il carattere per così dire primordiale, politico ma pre-ideologico dell'improvvisa irruzione degli studenti sulla scena pubblica. Bisogna sottolineare questo punto: né la cultura di governo, né quella all'opposizione erano preparate a qualcosa del genere, e da qui nascono le reazioni immediatamente negative, con tutte le contro-reazioni simmetriche e le violenze risultanti: certamente innescate dall'ottusità politica di rettori e ministri dell'interno, ma anche rese possibili dal sospetto e dall'indifferenza dei partiti di sinistra. Ma ancora una volta questo non è il punto. L'aspetto paradossale della vicenda, almeno ai suoi primordi, è infatti che quel movimento collettivo e non ideologico, quell'improvvisa scoperta dello spazio pubblico, metteva a nudo la cattiva coscienza di una democrazia organizzata, il suo carattere necessariamente fittizio: si potrebbe dire, in poche parole, che l'irruzione degli studenti sulla scena pubblica realizzava, e all'improvviso, ciò che in una democrazia viene virtuosamente proclamato, ma realisticamente impedito, e cioè la pratica diffusa dell'attività politica. e ' è in alcune testimonianze sulla prima fase del 68 (continueremo a chiamarlo così per comodità), e per esempio nel libro di Gobbi, qualche indicazione su questo aspetto non necessariamente eversivo, ma sicuramente straordinario: studenti fuorisede iscritti alle grandi università di massa, piccolo-borghesi sbalzati fuori dal comfort familiare, soggetti fin lì incolori o atomizzati scoprivano la vertigine della socializzazione in pubblico. E se l'aspetto ludico non deve essere sopravvalutato, è anche vero che l'accesso a questi spazi inconcepibili era, almeno all'inizio, divertente, e cioè letteralmente una diversione dalle traiettorie di vita che chiunque potesse tradizionalmente immaginarsi. E bisogna dire che le forme di socialità così delineate non avevano nulla di quel populismo esasperato e caricaturale che è stato poi identificato con il movimento studentesco. Se tali sono potute sembrare (e sono in seguito spesso diventate) è perché esse implicavano una curiosità verso gli altri compartimenti della società, che una democrazia vorrebbe a parole trasparenti, ma che tende a recintare ferocemente (ed è l'esperienza che oggi è divenuta normale e normativa): il mondo operaio, in primo luogo, ma anche la sfera delle istituzioni, e tutte le articolazioni dei poteri, e in primo luogo della cultura organizzata. Prima ancora di essere uno slogan di massa, o un'etichetta politico-sindacale, il tema dell'egualitarismo ha rappresentato, in quell'epoca e sullo sfondo di quella società (di cui oggi si dimenticano le chiusure) un'espressione di tale curiosità collettiva, e in particolare la rottura delle intercapedini, in primo luogo sociali e politiche, che sembrano intrinseche a un sistema sociale complesso. In primo luogo politiche; se il 68 ha avuto un significato, al di là dei suoi slogan populisti o presi in prestito dal terzo mondo, è l'aver dichiarato, da un giorno all'altro, la vacuità della rappresentanza politica: ciò che era scoperto, detto e denunciato (e almeno all'inizio, con un tasso trascurabile di violenza) era quanto, qualche anno dopo, si sarebbe potuto leggere in qualsiasi libro dell'insospettabile Niklas Luhmann: il carattere automatico, ritualistico e procedurale - dunque, necessariamente arbitrario - della legittimazione del sistema politico, del funzionamento della giustizia, dell'organizzazione della cultura e dct consenso nonché della riproduzione empirica e quotidiana delle cosiddette alternative strutturali intrinseche a ogni cultura; giusto/ingiusto, normale/deviante. centrale/periferico, razionale/irrazionale, legittimo/illegittimo e così via. L'espressione «scoperta di uno spazio politico» va così intesa in un senso più ampio di quanto non sembri in base ai significati consunti dell'aggettivo «politico»: con esso ci si potrebbe riferire allo sguardo, necessariamente «ingenuo», (come lo era quello della bambina nella novella di Andersen, I vestiti dell'imperatore) che dei nuovi soggetti rivolgono alla società, alla cultura e al potere. Questo sguardo (con tutto ciò che lo accompagnava, la curiosità, il piacere dello spazio pubblico, la pratica dell'agire, e le qualità morali su cui non bisognerehhc fare delle facili ironie. come il disinteAlfa beta /081 resse personale, e ciò che potremmo chiamare la disponibilità all'esistenza d'Altri) è il bene duraturo e indimenticabile che rimane di quelle esperienze di vent'anni fa. Ma proprio sul significato di questo bene la cultura di sinistra ha prodotto più equivoci. Primo fra tutti, il fraintendimento del carattere autonomo, rnlido in sé, non strumentale, di quelle esperienze e di quello sguardo. Perfino nelle letture più interessanti (allora e oggi) del movimento degli studenti (penso al noto saggio di Donolo, La politica ridefinita, pubblicato sui «Quaderni piacentini» nel luglio 1968) la ricognizione positiva di quelle esperienze viene subordinata - non importa se per effetto degli automatismi discorsivi già citati - a una «pratica dell'eversione», insomma al luogo comune e già dominante dello sbocco pratico, delle alleanze e della strategia, in cui le stesse esperienze si sarebbero dissolte. È questa la tragedia del «partitismo», su cui non vale la pena di diffondersi, ma che ha rapidamente stroncato il senso collettivo e libertario del movimento. E non è neanche il caso di rammaricarsi o di immaginare vie d'uscita alternative. La trasformazione dei movimenti in sette era probabilmente inevitabile data la cultura dominante nella sinistra. Qui non conta tanto lo stalinismo teorico - quel paradossale culto dello stato e dell'autoritarismo che veniva assunto, per la necessità di ricollegarsi alla tradizione politica della sinistra, proprio da movimenti nati come antiautoritari. Conta piuttosto la pratica autoritaria del far politica che in pochissimo tempo ha occupato lo spazio liberato dal movimento degli studenti. Ora che tanti interdetti sono caduti, bisognerà ammettere che nella solita forma farsesca si riproduceva la vecchia storia che Hannah Arendt (una pensatrice che ancora oggi tanti marxisti leggono con sospetto) ha analizzzato nel suo saggio Sulla rivoluzione. Una storia legata soprattutto al disprezzo dell'autonomia di quello spazio politico. Se le riviste teoriche fiorite intorno ai fatti del 68 sono uno specchio di queste trasformazioni, dobbiamo considerarle come uno specchio opaco. Se, a modo suo, una rivista come «Quaderni rossi» aveva contribuito, nei primi anni sessanta, a rimettere in discussione l'immagine stereotipata e paternalistica che i partiti di sinistra si erano fatta della nuova classe operaia e del neo-capitalismo, gli organi teorici del nuovo movimento sembravano fare a gara a irrigidire e ridurre il senso del cambiamento al nocciolo duro della lotta di classe, e quest'ultima al suo luogo deputato, la fabbrica. Ora, le ricadute negative di questa ossessione non erano tanto dovute al lavoro teorico in sé - al carattere teologico di tanti dibattiti su questioni di interpretazione che allora sembravano capitali - ma a ciò che quel lavoro teorico escludeva quasi automaticamente, a priori, all'intolleranza logica che esso comportava. Situazione schizofrenica di una cultura marxista, tanto più raffinata, distruttiva, radicale quanto più dipendente da suoi miti: miti materialisti, operaisti, razionalisti, che portavano a escludere come sospetto ogni discorso che non ripartisse, eternamente, dal commento a Marx (la sorte dei primi libri di Foucault, pensatore sradicato, estraneo alla cultura di sinistra, e quindi necessariamente autore di dispositivi ingannevoli e «ideologici», è in qualche modo legata a questa intolleranza logica prima che politica). Schizofrenia di un'elaborazione teorica che quanto più si interroga sulla soggettività (che è in fondo un risultato culturale irrinunciabile del 68), tanto più sembra voler ignorare l'articolazione pluralista delle soggettività, la loro irriducibilità alla macchina teorica marxiana. Una categoria come «operaio sociale», che qualche anno dopo ha giocato un suo ruolo notoriamente pratico, è un riflesso di questa schizofrenia: l'apparente uscita «nel sociale» (come si diceva nel gommoso linguaggio d'allora) vincolata sempre a questa icona indistruttibile, l'Operaio. Eppure, questa schizofrenia ha finito per divorare la macchina. Attraverso l'autocorrosione della centralità teorica del proletariato (e l'impasse pratica e luttuosa che essa ha finito per comportare) è stato soprattutto a sinistra che il lavoro teorico ha cominciato a liberarsi dalle mitologie razionalistiche, progressiste, sopravvissuto a sinistra per ciò che Paul Veyne chiamerebbe «la viscosità del pensiero». Per una strana forma di giustizia (odi ironia) del tempo, quello sguardo ingenuo di vent'anni fa ha trovato qualche riparazione. Ciò che per comoda convenzione chiamiamo il 68 non appare oggi solo come un groviglio di esperienze, di aperture e di chiusure, abbastanza indecifrabili, e che resteranno tali. Appare piuttosto come il manifestarsi di un 'insofferenza (verso il modo di vivere e di stare in società, in primo luogo), oggi taciuta, ridicolizzata o rimossa, su uno sfondo di nuove e sottili intolleranze, di conformismi di massa e di manipolazioni impalpabili, di passività e di piaghe cosmiche. Un'insofferenza che ha prodotto sbocchi perversi ed equivoci infiniti - ma il cui senso ha ancora strane relazioni con l'eterna illusione di un agire libero.
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