Alfabeta - anno X - n. 107 - aprile 1988

Alfabeta 107 P iù giro per l'Italia a parlare (criticamente, spero) dell'etica di Aristotele e dei neo-aristotelismi moderni (dalla politica/ Philosophy alla praktische Philosophie), e più mi rendo conto di venir ascoltato, certo con la garbata attenzione che si deve a un serio specialista, ma anche con la ferma sfiducia dovuta a chi parla della, ma non nella tradizione: in essa sta la certezza, e metterla in questione può dar luogo a un utile esercizio intellettuale, non certo a solide verità. Un aggiornato ossequio, mi chiedo, alla voga dell'ermeneutica gadameriana? Ma no, qualcosa di più vecchio e radicato, di cui quell'ermeneutica è magari recepita come una versione sofisticata: il peso della buona tradizione cattolica, in cui Aristotele, per via scolastica, ha A più voci Taccuini da sempre il suo diritto di cittadinanza come auctor indiscusso, e alla quale in questo paese non si cessa di rivolgersi, lo si sappia o no, nei momenti difficili. E non solo in questo paese. Ho stentato a lungo a capire perché in Germania, per ricostruire un'etica sulle rovine della dialettica hegeliana, ci si dividesse tra i pochi fautori di un più ovvio ritorno a Kant (Riedel, Vollrath) e i più numerosi ed agguerriti fautori di una ripresa di Aristotele. Eppure anche qui, almeno in prima approssimazione, la risposta era semplice e di fatto - se non sbaglio - incontrovertibile: protestanti i kantiani, cattolici al solito gli aristotelici. Un brutto colpo per chi ha ingenuamente creduto, come me, che dopo secoli di .. laicizzazione tutto ciò non avesse ancora un peso determinante. Non sarò comunque solo, pensavo. Sorpresa! Trovo chi, fra gli amici filosoficamente più vicini, scrolla le spalle di fronte alla vecchia controversia fra protestanti e cattolici solo per schierarsi armi e bagagli tra le file - che gli sono peraltro allogene - di una tradizione ancor più arcaica, come quella di un profetismo ebraico riproposto, in piena legittimità ma, per chi non le appartiene, in modo almeno un po' bizzarro per esempio da Lévinas. Oppure trovo proprio tra gli amici e proprio su «Alfabeta» chi mi garantisce che quello di Heidegger è in realtà un nazismo simpatico, un po' agreste un po' pastorale (i pascoli dell'Essere), che non ha a che fare con l'aborrita età della tecnica ma TomaRobbeS iamo all'atto secondo (dopo Le miroir qui revient, uscito nel 1985) di una nuova serie che Robbe-Grillet ha posto all'insegna del romanesque, sentendo così il bisogno di distinguerla dal roman propriamente detto. Si può parlare infatti di Angélique ou l'enchantement (Paris, 1988) come di un genere misto, senza esitare, magari, a sollevare lo spettro manzoniano del «romanzo misto di storia e di invenzione». Così è infatti, Robbe-Grillet in questa sua nuova veste si compiace di dare pieno spazio a ricordi, memorie, spunti autobiografici, riflessioni, quasi in una specie di «letteratura-verità». E se nel romanesque precedente egli attingeva dal materiale familiare dell'infanzia e dell'adolescenza, che inevitabilmente si presenta già nobilitato dal filtro della distanza, in questo secondo lavoro non perde tempo, fa affluire le circostanze immediate. Chi ha qualche dimestichezza con lui sfoglia trepidante le pagine del libro, nella speranza, o nel timore, di vedersi citato per qualche incontro, magari solo di natura pubblica (dibattiti, conferenze). Infatti sono tirati in ballo Eco, Tom Bishop, altri colleghi, anche del mondo accademico, che Robbe-Grillet incontra nei suoi frequenti soggiorni presso le università di mezzo mondo; e soprattutto ci sono tanti affettuosi riferimenti a Barthes, anche se non di rado accompagnati da una crescente presa di distacco critico. E c'è anche l'editore Lindon, con cui l'autore confessa di aver fatto molte prosaiche escursioni alla ricerca di un castello in Normandia da acquistare come inevitabile casa di campagna. Robbe-Grillet, insomma, si compiace di riversare totalmente la vita nell'opera, dimostrando che tutto può servire, che anzi non c'è brano di produzione narrativa, o testuale che dir si voglia, il quale non abbia le sue radici, appunto, nella vita di tutti i giorni. Ma l'assunto è perfettamente rovesciabile nel suo esatto contrario. La vita, la verità del documento non bastano, o tutt'al Renato Bari/li più costituiscono una condizione necessaria, non certo sufficiente. Il diario, il giornale intimo si avvolge nella sua inconcludenza, ovvero, per usare la parola tematica proposta dall'autore stesso, nella sua incertezza, che non conduce a nulla. La «storia» non è una buona generatrice di valori letterari, come del resto diceva già a suo tempo Aristotele. Perché dalla condizione necessaria si passi a quella sufficiente, occorre lo scatto di un quid; e la scommessa di Robbe-Grillet, in questi romanesques, è di farci assistere in vitro a un tale scatto. La piattezza del referto tratto dalla vita di tanto in tanto si concentra, si irrigidisce, subisce una carica «eccessiva» (in netta contrapposizione alla incertezza di cui si diceva prima). E allora abbiamo splendidi squarci di narratività, di quella buona, di pura marca robbe-grillettiana, dove cioè appaiono al diapason le virtù di iper-oggettività, o di iper-realismo, che si rovesciano poi anche in irrealismo totale. Dalla dimensione del vero, del prosaico, del banale, ci trasferiamo in quella del magico, o appunto dell'eccessivo, quasi per magia, per tocco discreto di una bacchetta incantatoria. O è come se l'autore venisse apponendo qua e là delle virgolette di sospensione, degli indici di intensificazione. In linguaggio più tecnico, potremmo parlare di un intervento di «intenzioni» che si rivolgono a quello stesso materiale oggettivo biografico, ma mettendolo in forma, concentrando su di esso ossessioni, incubi, attese, proiezioni. Per tali aspetti, nulla di sostanzialmente nuovo, all'interno della «fabbrica» robbegrillettiana. Il fatto nuovo è, per così dire, di natura trasversale, in quanto nei «romanzi», da buon «fabbro», egli sapeva che quei mirabili spezzoni di magia creativa, occorreva pure distribuirli secondo un certo ordine, assegnando loro un montaggio, una costruzione, fino a ritrovare una totalità ben organizzata, un meccanismo ben congegnato. Ora invece egli si risparmia, almeno per il momento, una simile fase successiva. È come quando in un procedimento chimico ci si ferma allo stadio dell'elettrolisi, scindendo i vari nuclei molecolari, ma lasciandoli errare nel liquido allo stato sciolto, magari in attesa che si incontrino da sé e diano luogo a nuovi composti. Fuor di metafora, dopo i momenti di tensione e di «intenzione», offerti dimostrativamente al lettore, oppure emersi da sé, per forza spontanea, il narratore arretra nel terrain vague della prosaicità, là si riposa e riprende a vagabondare, in attesa del prossimo spunto creativo. Per questo appare giusto parlare di un genere «misto», precisando però che una tale eterogeneità è lucidamente prevista, dal nostro autore, fino a proporre davvero una nuova dimensione di ricerca. Viene fatto di pensare anche a certe proprietà matematiche, per esempio ai numeri complessi, che vedono la compresenza di numeri reali e di numeri immagioori (se ben mi soccorrono i ricordi scolastici). Un'altra caratteristica singolare di questo stato elettrolitico, più che mai «aperto» o non-finito, raggiunto da Robbe-Grillet nei due romanesques, è che così egli non si predispone soltanto per il futuro, offrendo i materiali per eventuali nuove creazioni; ma getta anche una luce retrospettiva sull'opera precedente. Questi nuclei sciolti, infatti, vanno a illuminare i romanzi passati, li bombardano quasi coi loro nuclei scatenati, come in un microscopio elettronico, ne fanno emergere aspetti imprevisti. L'intertestualità diventa una pratica effettiva, concreta, quasi da toccar con mano. Il Voyeur, la Jalousie, Dans le labyrinthe risorgono, messi in forma, affrontati da punti di vista impensati e inediti, confermando con ciò la natura trasversale di questa produzione recente, quasi che essa non avesse un corpo proprio, ma dovesse vivere di vita parassitaria alle spalle del passato, e magari anche del futuro. Se poi ci chiediamo quali siano le «intenpagina 71 piuttosto con i Wandervògeln (i verdi non sanno chi fossero, ma dovrebbero) e con l'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, insomma col romanticismo prenazista e preciellino che nulla ha a che spartire con l'odioso moderno. A questo punto ho capito tutto, e non mi consolano affinità «inattuali». Farò anch'io le mie scelte, fra drusi e sciiti, fra Amish e neo-gnostici. Il giorno in cui parlerò di Aristotele come erede di Zoroastro avrò probabilmente un'attenzione plti partecipe; potrò anche dire che la Verità è nuda come i fachiri indiani. La ragione sarà tornata al suo posto, di ancella della Tradizione. Invece che su «Alfabeta», scriverò finalmente su Alpha e Omega. zioni» che consentono a Robbe-Grillet di rivedere e correggere i materiali del suo «vissuto», egli stesso ci aiuterebbe nel dare la prevalenza alle ossessioni di specie sadica, ovvero, in termini freudiani, alla coppia dinamica eros-thanatos. Ma appunto il genere misto, ovvero il numero complesso, gli consentono di inseguire questa ossessione lungo tutti i salti e i piani dimensionali. Egli ci narra così delle prime letture dell'infanzia, di certe immagini (bagni di sangue, storie di harem, turcherie ecc.) che hanno risvegliato l'eros della sua lontana fanciullezza. I pretesti esterni di tanto in tanto divengono «testi», intenzionati dall'autore in proprio o da uno dei suoi molti prestanome e alter ego, tra i quali in primo luogo Henri de Corynthe, lo stereotipato alto ufficiale che segue codici d'onore, di galanteria, ma anche di sadismo propri d'altri tempi. Ed ecco allora che risulta «intenzionata» l'Angelica del titolo, corrispondente, beninteso, a un fantasma errante, pronto a cambiare nome, circostanze, destino, anche se più o meno tragico, legato a oscure vicende di violenza, di stupro, di morte. La lingua francese ha un vocabolo intraducibile, per indicare questa capacità di «ritornare», insita in simili fantasmi ossessivi, definendoli appunto come dei revenants. E Angélique ou l'enchantement si trasforma in una gigantesca macchina per dimostrare come avvengono, questi ritorni, queste pratiche incantatorie, sul filo dei ricordi privati come anche su quello delle reminiscenze culturali (entrano in gioco, infatti, i riferimenti alla saga dei Nibelunghi, o certe immagini terrifiche riguardanti Caterina la Grande, nonché le perfidie sadiche del Nazismo). La storia partorisce l'invenzione, e questa, dopo essersi esibita in un bellissimo acuto, ci riconduce alla prima, in attesa dell'affondo successivo, risparmiandosi la fatica di creare una pretestuosa cucitura logica tra i vari «eccessi».

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