Alfabeta - anno X - n. 107 - aprile 1988

pagina 4 A più voci Alfabeta 107 Simolle eil A una giovane ricca Climene, col tempo vedrò nel tuo incanto Sgorgare di giorno in giorno il dono delle lacrime. Ancora la tua bellezza è un'armatura d'orgoglio; Lo scorrere dei giorni la ridurrà in cenere; Nessuno ti vedrà discendere, splendente, Nel buio della bara, fiera, la maschera calata. A qual promesso destino, nel tuo fiore fugace, Scendi? Quale destino? Che fredda miseria Verrà a serrarti il cuore fino al grido? Niente si leverà per salvare tanta grazia; Il cielo rimane muto mentre un giorno cancella I tratti puri, il dolce carnato che vide brillare. Un giorno può impallidirti il viso, straziarti Il fianco per la fame; un brivido mordere La tua fragile carne abituata al calore profondo; Un giorno, e saresti uno spettro nella ronda Che senza tregua, stanca, per la prigione del mondo Corre, corre, spinta nel ventre dalla fame. Come bestia braccata di notte per le secche, Dove trovare ormai la tua mano nobile e fine, Il portamento, la fronte, la tua bocca dalla piega altera? L'acqua brilla. Tremi? Perché lo sguardo è vuoto? Férmati, carne livida, già troppo morta per morire, Mucchio di stracci abbandonato nel grigio mattino! Apre la fabbrica. Andrai a soffrire alla catena? Rinuncia al gesto lento della tua grazia regale. Presto. Più presto. Andiamo! Presto, più presto. Vai A sera, lo sguardo spento, le ginocchia rotte, vinta, Senza parola; sulla tua bocca umida e pallida si legga Dura obbedienza all'ordine nel disperato sforzo. Andrai, di sera, nella città rumorosa, Per pochi soldi ti farai sporcare la carne schiava, La carne morta, mutata in pietra dalla fame? Essa non freme se una mano la sfiora; Né si ritrae, ti è impedito il sussulto. Il pianto è un lusso a cui si aspira invano. Ma tu sorridi. Per te son favole le sventure. Calma, estranea alla sorte di sorelle infelici, Mai doni loro un benevolo sguardo. Tu puoi, a occhi chiusi, dispensare elemosine; Anche il t_uosonno è puro da questi fantasmi cupi Passano chiari i tuoi giorni al riparo di mura. Mucchi di carta, più duri d'una muraglia, Ti proteggono. Se bruceranno, il tuo cuore, le viscere Saranno preda di colpi che infrangono l'essere intero. Ma quella carta ti soffoca, nasconde cielo e terra, Nasconde i mortali e Dio. Esci dalla tua serra, Nuda e tremante al vento d'un gelato universo. Lampo Che il cielo puro mi mandi sul viso - Questo cielo spezzato da lunghe nubi - Un vento così forte, profumato di gioia, Che tutto nasca, mondato dai sogni: Per me nasceranno le umane città Che un soffio puro ha pulito da brume, I tetti, i passi, i gridi, i cento lumi, Rumori umani, quanto consuma il tempo. Nasceranno i mari, l'ondeggiante barca, Il colpo di remo e i fuochi della notte; Nasceranno i campi, il giavellotto lanciato; Nasceranno le sere, stella che a stella segue. Nasceranno il lampo e le ginocchia chine, L'ombra, l'urto alle svolte della miniera; Nasceranno le mani, i duri metalli rotti, Il ferro morso nell'urlo della macchina. Il mondo è nato: fallo durare, vento, nel tuo soffio! Ma esso muore coperto di fumo. M'era nato in uno squarcio Di pallido cielo verde tra le nubi. Nota del traduttore L'opera poetica di Simone Weil accompagna, con la sua esigua e discreta presenza, l'evoluzione del suo pensiero. La sventura, il senso del destino e delle forze, la capacità e la volontà di inginocchiarsi per accogliere la luce e la grazia sono motivi che troviamo felicemente presenti, come un'eco indispensabile della parola pensata, in una voce poetica che appare fragile eppure sorretta da Prometeo Un animale smarrito e solo, Morso nel ventre da un rovello incessante Che lo fa correre, tremante di stanchezza, Per fuggire la fame che solo morendo sfugge; In cerca della vita per oscure selve; Cieco quando la notte manda le sue ombre; Colpito nel cuore della roccia da freddo mortale; Pronto all'accoppiamento in casuali strette; Preda di déi, dei loro oltraggi che lo fanno urlare. Tale saresti, uomo, senza Prometeo. Fuoco che crei e distruggi, o fiamma artista! Erede dei bagliori del tramonto! L'aurora sale al cuore di luttuosa sera; Il dolce focolare unisce le mani; il campo Ha preso posto dei riar i rovi. Duro metallo sgorga nelle colate, Il ferro si piega ardente e al metallo cede. Colma l'anima un lume sotto un tetto. Come un frutto matura il pane nella fiamma. Quanto vi amò, per farvi un tale dono! Vi dette ruota e leva. O meraviglia! Il destino si piega al lieve peso delle mani. Il bisogno teme la mano che di lontano veglia Sulle leve, signora delle strade. O venti marini sconfitti da una vela! O terra aperta al vomere, sanguinante e nuda! Abisso dove discende una lampada tremante! Il ferro corre, morde, afferra, distende e trita, Docile e duro. Le braccia portano la loro preda, Il pesante universo che dà sangue e lo beve. Fu Prometeo artefice dei riti e del tempio, Magico cerchio per tenere gli dèi Lontani dal mondo; così l'uomo contempla, Solo e muto, la sorte, la morte e i cieli. Egli creò linguaggio e segni. Vanno attraverso il tempo parole alate Per monti e valli a muovere cuori e braccia. L'anima parla con sé e cerca di capirsi. Cielo, terra e mare tacciono per sentire Due amici, due amanti che si parlano piano. Ancora più luminoso fu il dono dei numeri. Fantasmi e demoni dileguano morendo. Sa scacciare le ombre la voce che conta. È calmo e trasparente perfino l'uragano. Ogni stella ha il suo posto nella profondità del cielo; Non mente mai quando parla alla vela. Atto si aggiunge ad atto; nessuna cosa è sola; Tutto si corrisponde sulla giusta bilancia. Nascono canti puri come il silenzio. Talvolta si schiude il sudario del tempo. Grazie a lui l'alba è una gioia immortale. Ma un destino funesto lo tiene piegato. Il ferro lo inchioda alla roccia; la fronte trema; E mentre pende crocifisso, in lui Entra il dolore freddo come lama. Ore, stagioni, secoli gli divorano l'anima, Di giorno in giorno gli si strugge il cuore. Invano gli si torce il corpo sotto la stretta; L'istante fuggendo sperde il suo pianto al vento; Solo, senza più nome, carne preda di sventura. .. quella «forza di movimento» che già Paul Valéry, in una lettera del 1937, riconobbe nel poemetto Prometeo. Lo scatto e la pienezza di queste poesie non hanno radici di ordine estetico o letterario bensì, come sempre accade in Simone Weil, si bagnano di un'energia debole e trasparente, di un sangue che rende ovvio e perfino insolente ogni giudizio critico. I testi qui tradotti fanno parte dei dieci componimenti pubblicati Il mare Mare docile al freno, sottomesso in silenzio, Mare sparso, flutti per sempre incatenati, Massa offerta al cielo, specchio d'obbedienza; Vi tesse ogni notte nuove pieghe La lontana potenza degli astri. Quando il mattino colma l'intero spazio Lo accoglie rendendo la luce in dono. Un lampo leggero si posa in superficie. Si stende in attesa e senza desiderio Sotto il giorno che cresce, risplende e dilegua. Di riflessi serali luccicherà improvvisa L'ala sospesa tra il cielo e l'acqua. I flutti oscillanti e fermi, Dove ogni goccia sale e ridiscende, Restano in basso per sovrano decreto. Bilancia dai segreti bracci d'acqua trasparente Trova in sé la misura, e schiuma, e ferro, Giustizia invisibile per ogni barca errante. Sullo scafo un filo azzurro traccia rapporti Senza errore alcuno nella riga apparente. Mare immenso, sii propizio agli infelici mortali, Stretti ai tuoi bordi, persi sul tuo deserto, A colui che affonda parla prima che muoia. Entra nell'anima, o nostro fratello mare; Donale la purezza delle tue acque giuste. Necessità La ruota dei giorni dal cielo deserto si volge In silenzio agli sguardi mortali, Gola aperta quaggiù, dove ogni ora inghiotte Gridi così supplicanti e crudeli; Tutti gli astri lenti nei passi della loro danza, Unica danza immobile, lampo muto dall'alto, Informi malgrado noi, senza nome o cadenza, Troppo perfetti, senza mancanza alcuna; La nostra collera è vana a quei sospesi. Si calma la nostra sete se ci spezzate i cuori. In desideri e grida la loro ruota ci trascina; I nostri signori splendenti furono sempre vincitori. Strappate le carni, catene di luce pura. Inchiodati senza un grido alla fissità del Nord, L'anima nuda esposta ad ogni piaga, Noi vogliamo obbedirvi fino alla morte. La porta Aprite la porta, dunque, e vedremo i verzieri, Berremo la loro acqua fredda che la luna ha traversato. Il lungo cammino arde ostile agli stranieri. Erriamo senza sapere e non troviamo luogo. Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta. Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta. Se occorre l'abbatteremo coi nostri colpi. Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte. Bisogna attendere, sfiniti, guardare invano. Guardiamo la porta; è chiusa, intransitabile. Vi fissiamo lo sguardo; nel tormento piangiamo; Noi la vediamo sempre, gravati dal peso del tempo. La porta è davanti a noi; a che serve desiderare? Meglio sarebbe andare senza più speranza. Non entreremo mai. Siamo stanchi di vederla. La porta aprendosi liberò tanto silenzio Che nessun fiore apparve, né i verzieri; Solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce Apparve d'improvviso da porta a porta, colmò il cuore, Lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere. in volume da Gallimard, assieme a Venise sauvée, nel 1968. I primi due (A una giovane ricca e Lampo) appartengono al periodo giovanile, grossomodo tra il 1926e il 1929; il poemetto Prometeo è del 1937mentre li mare, Necessità e La porta sono stati scritti a Marsiglia tra il I94 I e il 1942. Roberto Carifi

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