Alfabeta 107 alla sua esistenziale-mistica tensione rimanda Come la luce immobile e dovunque (un perfetto endecasillabo: dunque un titolo provocatorio per un «romanzo»); un libro che si propone di raccontare il non raccontabile. La giovane intellettuale colpita dalla sclerosi a placche sta al centro del racconto come su un altare della vita: con qualche ingenuità ma senza retorica, anche se con troppa superstiziosa fede nell'Immenso. La sedia a rotelle della protagonista diventa il fulcro di una vita sediziosa, in cui la giovane che «vive, dice, in una prigione morente», è dedita al poco di sé che resta \ ivo e al tanto degli altri che si lascia vivere dentro di lei. Intendo dire che la «fattualità» del quotidiano non la domina, anzi la sua acuta veggenza le consente di dominare le cose di tutti i giorni e di intervenire come un deus ex machina nella vita degli altri, i giovani amici, la governante-amica, il fratello con moglie americana e filologa, ecc. I fatti, se avvengono, discendono come da un mitologico destino filato e tramato da terribili Parche. Lei, Elisa, scambia o intercambia i fatti altrui con la propria invivibile vita, ma questa non subisce mutazione, come se fosse un tempo eterno o uno spazio infinito in cui il vento smuove solo la parola, la musica. Così, se Elisa si innamora (vanamente) del suo medico, tutto ciò che la circonda si tinge prima di rosa, poi di cenere per l'impossibilità non dei sentimenti ma della loro concretizzazione. Ed è un po' questo il drammatico dilemma del romanzo di Acquabona: sviluppare emozioni che non producono eventi, approfittare di movimenti interni alla coscienza che non si traducono in altro che in atmosfera d'anima. Il desiderio d'amore di Elisa si rifugia nella trasparente proiezione dell'amore altrui, quindi nella altrettanto lampante richiesta, al padre, di un ascensore che conduce al piano superiore della villa in cui abita, ossia metaforicamente verso l'alto. Ma è invece l'ascensore del destino che porta la morte corporale prima che Elisa possa vedere il fratello e la cognata americana. Il diario che Elisa ha tenuto, fra prosa e poesia in verso, è il perno del romanzo, le cui prime tre parti sono intarsiate di discorso indiretto e dell'assorta quotidianità di una persona così fuori del mondo, per la quale la minima visita, oggetto, fiore, diventano un vero e proprio avvenimento. I dialoghi di Elisa con chi la circonda o l'avvicina sono un piccolo capolavoro di parole extratemporali, venate di religiosità, di tristezza, di rassegnazione, senza alcuna forzatura letteraria di intellet ualità o di eloquenza. Dal diario vengono anche i maggiori guai strutturali per un testo che, nella semplicità quasi schematica, vuole figurare «l'infigurabile»: «ciò che è invisibile nel mistero che si vorrebbe penetrare» (p. 157), immagini «del mondo irreale, certamente esistenti oltre la realtà sensibile» (p. 135). Un testo che tende a un divino così soffertamente e altamente vissuto da non poterlo pronunciare: più sullo stile ebraico che su quello cristiano. Il diario funziona, mentre Elisa è viva, come uno specchio di ricordi ed emozioni; ma nella quarta parte del romanzo, per lo scrittore che ne stralcia di continuo e ne commenta brani e poesie, si pone il centro della metaforicità narratiCfr va. Questa sezione finale diventa, in tal modo, un centone vitanovesco alquanto superfluo, molto coltivato, asettico e ripetitivo, testardamente proteso alla religione delle cose della vita più che alla vita stessa; ma questo che è, a mio parere, il limite, è anche il movente lirico, non narrativo, del romanzo ormai rivelatosi un non-romanzo. Nell'intemporale inno religioso non solo, come si diceva, manca il racconto, ma il linguaggio è spezzato e liricamente ricostruito per diventare altro dalla vicenda: luce, soprattutto , a cui dantescamente s'indirizzano gli occhi e la mente di chi rimane a terra. La luce s'identifica col divino ma anche con l'unica possibile felicità: fuori della terra, fuori dell'uomo, in qualche credenza sottile e infuocata. I luoghi mentali di questa poesia della religione sono profondamente razionali nella loro irrazionalità: qui sta la nobile arte, la lotta di Acquabona con se stesso in cui prevale la dialettica della costruzione fideistica, una religiosa positività che gli si ponuovo e iniziatico» (p. 159). Nessuna ironia, come si vede: l'intenzione dell'autore è proprio quella di colpire, di abbagliare, con le parole e con le immagini. Plinio Acquabona Come la luce immobile e dovunque Milano, Garzanti, 1987 pp. 255, lire 20.000 Retablo .. Alberto G. Biuso U n racconto fascinoso, un gioco linguistico piacevole e colto, una iperletterarietà posta al servizio di una meditazione attenta e disincantata sulle cose umane. Anche questo è il più recente libro di Consolo che del romanzo storico conserva gli scenari apparenti: in una Sicilia settecentesca colma di tripudi e di sfacelo don Fabrizio Clerici - pittore e nobiluomo milanese - incontra Isidoro, ex frate che ha abbandonato il convento a causa del disperato amore verso la bellissiMina Cicerina, Uomo che legge, s.d.; olio su tela, cm. 99x 75 trebbe invidiare. Numerosi, luminosi, sempre dettati dalla sofferenza che si rovescia in pallida serenità sono i passi del romanzo su cui soffermarsi; è la raggiunta beatitudine che traduce o parafrasa parole bibliche e illuminazioni solitarie in legami umani, in frasi e sintagmi che nelle riprese, nei ricorrenti modi anaforici e anastrofici diventano proposizioni prive di antitesi, litoti anche ingenue. Quella disposizione non-figurativa che culmina nei grumi tematico-linguistici del diario-poesia produce e sottolinea, nella quarta parte, commentativa e narrativamente sterile, un definitivo chiarimento sul libro di Acquabona: «È la metafora romanzesca di un aspetto della vita inferma, in senso generale, nella sua stagione all'inferno, in parallelo con Rimbaud, che poi si evolve nella stagione purgatoriale ... » (p. 158); fra i tanti elementi simbolici, il titolo «traduce il rapporto tra il mondo in decadenza e la sua vittima espiatoria che finalmente si esprime in un linguaggio poetico ma fanciulla Rosalia. Anche l'artista lombardo fugge - con calma ma fugge - da donna Teresa Blasco che andrà poi sposa a Cesare Beccaria. Insieme, Fabrizio e Isidoro attraversano «l'isola lontana [... ] terra antica degli dèi, delle arti, delle conquiste e disastrosi avanzi» (p. 30) e affrontano avventure, ammirano paesaggi, incontrano uomini feroci e generosi. Una vicenda come tante, dunque, in una Sicilia esotica e già vista? Per nulla. Lo scarto è di natura insieme linguistica e metafisica. A cominciare dalla struttura del racconto, diviso in tre parti nelle quali Isidoro, Fabrizio e Rosalia descrivono le loro diverse anche se convergenti esperienze e sentimenti. Mentre però ai due giovani è affidata l'espressione diretta della follia d'amore la cui sostanza è «d'essere più sentito e ostinato e forte quanto più l'obiettivo suo diviene mobile, fuggente e irraggiungibile» (p. 34), è Fabrizio che nella parte centrale e più ampia del romanzo enuncia i suoi fondapagina 29 menti teorici ed estetici: l'uomo è un essere strano, contraddittorio, incerto che si dibatte fra melanconia, violenza e illusione. «È lo scontento del tempo che viviamo, della nostra vita, di noi e il bisogno di staccarsene, morirne e vivere nel sogno d'ere trapassate, antiche» (p. 77) a produrre il desiderio di viaggiare sia nello spazio geografico che nel tempo culturale e storico. Ma la storia non fa altro che confermare la pochezza, inanità dell'uomo la sua «fralezza e nullità assoluta» (p. 103), l'essere suo «orribile, stupido, efferato» (p. 122). L'arte, lo scrivere, la letteratura si rivelano pertanto l'illusione più profonda ma anche più vitale e necessaria, «l'ambiguo velo dell'antica Maya, velo benefico al postutto e pietoso, che vela la pura realtà insopportabile, e insieme per allusione la rivela» trasportando l'uomo «dal brutto e triste, e doloroso e insostenibile vallone della vita, in illusori mondi, in consolazioni e oblii» (p. 56). Se questo è la vita e questo è l'arte, Consolo fa della scrittura un gioco erudito e cangiante il cui scopo è inebriare eppure far pensare, nascondimento che rivela. Se veramente all'atto dello scrivere presiede in primo luogo la ripetizione che lo rende «la controfaccia e l'eco d'altri scritti» (p. 89), è inutile ingannarsi e pretendere d'uscire da tale coazione. Non solo si moltiplicano le citazioni dantesche («fiero pasto» [p. 38] «fatale andare» [p. 60]) o carducciane («di luce e di calore» [p. 106]) o d'altri ma l'intero racconto è redatto in una lingua raffinata e colta che ricrea, senza però imitare, le cadenze e le strutture dell'epoca nella quale la vicenda è ambientata. Di più, le finzioni e gli specchi si moltiplicano: Fabrizio Clerici è, naturalmente, anche il contemporaneo e ben vivo pittore di oniriche archeologie e figure numinose, cinque disegni del quale sono inseriti nel libro stesso; Rosalia è il nome dell'amata di Isidoro ma anche di un altro grande amore, quello del brigante Trono, come è anche il nome della santa di Palermo o infine - come con saggia ironia conclude don Fabrizio - «la Rosalia d'ognuno che si danna e soffre, e perde per amore» (p. 89); la verità è come questa Rosalia: bella, intuita, sfiorata e presa una volta di sfuggita ma di fatto impossedibile. La struttura metaforica che domina il racconto fa sì che nella sua parte finale questa similitudine: la verità è come Rosalia, si trasformi nella verità che è Rosalia, la quale, provvisoriamente concludendo il gioco di specchi, esplicitamente afferma «Bella, la verità» (p. 155e sgg.). E infine il senso del Retablo cui allude il titolo sta non solo nei numerosi elenchi di oggetti o di invocazioni ma anche in quella ripetizione e variazione di un medesimo termine all'interno della stessa proposizione che del libro costituisce peculiare cifra stilistica. Fra sperimentalismo e tradizione, nella ripresa e creazione metaforica, Consolo sembra essere alla ricerca di una via propria e - pur nella ripetizione - originale dell'atto dello scrivere, in questi anni di sterile citazionismo o di innovazioni incomprensibili. Una via - ci sembra - feconda in ogni caso. Vincenzo Consolo Retablo Palermo, Selleria, 1987 pp. 161, lire 8.000 Teatro Petrella Via IV novembre 47020 Longiano (Forlì) Ufficio Culturale di Zona del Rubicone Telefono 0547/55113 16 aprile - 14 maggio 1988 Le forze morbide Ballate ballatette N. 2 Rassegna di Danza e Poesia 16 aprile ore 21,15 Letture di Antonio Porta Compagnia Luisa Casiraghi Giù non c'è più nessuno coreografia Luisa Casiraghi Prima Nazionale 17 aprile ore 21,15 Letture di Valerio Magrelli Virgilio Sieni Studi sull'enigma coreografia Virgilio Sieni Prima Nazionale 29 aprile ore 21,15 Letture di Corrado Costa Ersilia di Laura Corradi studio da Mi hanno visto baciare una poltrona coreografia Virgilio Sieni Gincobiloba Ahim coreografia Paola Bianchi Enrica Brizzi 30 aprile ore 21,15 Letture de Lo spartivento - Gabriele Milli Mino Petazzini e Roberto Roversi Parco Butterfly Inno al rapace coreografia Virgilio Sieni 13 maggio ore 21,15 Letture di Patrizia Valduga Roberto Cocconi/Sosta Palmizi Frammenti per filigrane coreografia Roberto Cocconi Prima Nazionale Compagnia 86 Fragili film sul bus testi di Milli Graffi coreografia Marianna Troise Prima Nazionale 14 maggio ore 21,15 Letture di Tonino Guerra Fabrizio Monteverde/Baltica Neroperla coreografia Fabrizio Monteverde Prima Nazionale Chiara Reggiani Mary Villarosa coreografia Chiara Reggiani Prima Nazionale Tutte le manifestazioni avranno luogo al Teatro Petrella di Longiano Le segreterie organizzative fanno capo ai seguenti numeri: Longiano 0547/55113-55024 Modena 059/216800-219445
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