Alfabeta - anno X - n. 107 - aprile 1988

Alfabeta 107 da segnalare l'edizione, a cura di Mario Andrea Rigoni, delle Poesie di Leopardi, con un saggio di Cesare Galimberti, dal titolo Leopardi: meditazione e canto, Milano, Mondadori, 1987. Il volume contiene, oltre ai Canti, una Cronologia essenziale, Note, prefazioni, dedicatorie dei Canti, i Paralipomeni della Batracomiomachia, Poesie varie, Traduzioni poetiche, Argomenti e abbozzi di poesie, Puerili. Tutti i testi sono puntualmente commentati da un apparato di note, esegetiche ed esplicative, esemplare. Su questo volume, soprattutto, si accentra il presente intervento. (2) Sebastiano Timpanaro, li « Leopardi Verde», «Belfagor», n. 6, I 987, pp. 613-637. (3) Non so quanto potrebbe apprezzare questo interessamento «istituzionale» un uomo come Leopardi, ferocemente avverso allo Stato, di qualunque colore e tendenza, e alla sua «superiore» ragione. Per quest'ultima questione, cfr. Giuseppe Rensi, Lineamenti di una filosofia scettica, Bologna. Zanichelli, 1919, pp. 97-105. (4) È noto che le espressioni sono di Antonio Prete, // pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Milano, Feltrinelli, 1980, che a sua volta mutua la prima da Heidegger. Fortunate espressioni, che oggi forse andrebbero rimeditate, nel senso che l'accento dovrebbe battere di più sulla poesia che sul «pensiero». (5) Direi che le due tendenze sono rappresentate in modo esemplare da un lato da Cesare Galimberti {basti pensare al significativo titolo Un libro metafisico con cui ha voluto denominare la prefazione all'ultima edizione, da lui curata, delle Operette Mo_rali, Napoli, Guida, 1986- e sulla quale mi sono soffermato nel mio Leopardi, Heidegger e l'Umanesimo, apparso in «Alfabeta», n. 95, 1987) e dall'altro da Cesare Luporini, che - già autore del celebre Leopardi progressivo {1947), recentemente ristampato, Roma, 1986 - sta ora licenziando un volume le cui tesi, che parzialmente correggono quelle precedenti, sono state anticipate in Giacomo il filosofo, «L'Unità», 19 luglio 1987, e in li pensiero di Leopardi, contenuto alle pp. 367-379 del catalogo relativo alla Mostra «Giacomo Leopardi», organizzata dalla Biblioteca Nazionale, Napoli, Macchiaroli, 1987. (7) Ibidem. (8) Onde evitare equivoci, preciso che uso qui il termine nell'accezione che gli assegna Edmond Jabès (soprattutto in Le petit livre de la soubversion hors de soupçon, Paris, Gallimard, 1982, trad. it. di Antonio Prete, Il libro della sovversione non sospetta, Milano, Feltrinelli, 1984): una sovversione, cioè, che non ha niente dell'antagonismo «politico», ma che è tanto più scardinante del potere quanto più si ritira nel raccoglimento del «mormorio». (9) Si deve dar atto all'Editore Adelphi di aver ora riproposto di G. Rensi, le Lettere spirituali, con una bella prefazione di Leonardo Sciascia, nella speranza che questa sia solo la prima riedizione delle numerose opere dello scrittore di Villafranca di Verona. (10) Adriano Tilgher, La filosofia del Leopardi, Roma, 1940. ( 11) Sarà il caso di ricordare che a questa tesi Galimberti era giunto in epoca ad essa non particolarmente favorevole, e cioè nel 1959con Linguaggio del vero in Leopardi, Firenze, 01Cfr schki, ristampato di recente: tesi poi sostenuta in numerosi saggi, di cui varrà la pena di ricordare almeno la postfazione ai leopardiani Pensieri, con il titolo Fanciulli e più che uomini, Milano, Adelphi, 1982, pp. 177-187. Sulla decisa sottolineatura del valore conoscitivo della poesia leopardiana, cfr. ora Carlo Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, cit., il quale esamina soprattutto lo Zibaldone in merito al rapporto tra immaginazione e ragione. (12) G. Leopardi, Zibaldone, p. 2584 (27 luglio 1822). {13) Come sembra volere Cesare Luporini, che in li pensiero di Leopardi, cit., insiste ancora sul senso «etico» dell'ultimo Leopardi, rifacendosi al solito passo della Ginestra, già sfruttata innumerevoli volte da altri critici. Pare strano che non si rifletta su una verità elementare, e cioè sul fatto che qualunque «etica» presuppone un'idea di «valorizzazione» dell'ente, contro la quale è costantemente puntata l'ironia e la critica distruttiva di Leopardi. Proprio la Ginestra si chiude sulla più radicale condanna di ogni valorizzazione della «volontà» e sull'invito ad «essere per la morte», e cioè ad essere «passanti» (come lo fu Silvia o Nerina), nell'accettazione del deserto come dimora più propria della «lenta ginestra», dimora «dove/E la sede e i natali/Non per voler ma per fortuna avesti ;/Ma più saggia, ma tanto/Meno inferma dell'uom, quanto le frali/Tue stirpi non credesti/O dal fato o da te fatte immortali» (vv. 311-317; il corsivo è mio). (14) Su questo argomento purtroppo non posso qui soffermarmi, essendo troppo complesso e articolato. Mi permetto tuttavia di rinviare a quanto scritto in La natura e lo sguardo: filosofia e percezione visiva in Leopardi, in Da Leopardi a/l'eresia, cit., pp. 2356. (15) F.W. Hegel, Jenenser Rea/philosophie I, cit. da Giorgio Agamben, in Il linguaggio e la morte, Torino, Einaudi, 1982, p. 58. (16) Forzata mi sembra l'idea che Leopardi si sia avvalso del mito «come di uno strumento di comunicazione linguistica, atto a superare l'impasse rappresentata dall'inadattabilità della poesia al linguaggio contemporaneo inaridito dal 'disinganno'» (p. 37): nel «reincantamento» poetico leopardiano, non c'è traccia di una «progettualità», comunque la si voglia mascherare, oltrepassante la modernità e la sua forma essenziale, rappresentata dalla Tecnica. (17) In questo senso, e solo in questo senso, si può certo collocare l'esperienza leopardiana all'interno della grande tradizione mistica occidentale. La ricerca di un non-luogo come assoluto negativo e indicibile, il rinnovato interesse per il corpo e per il rapporto tra visibile e invisibile, il sospetto per tutto ciò che è definito e determinato: infine il riconoscimento di una forza interrogante che emana dal nulla, sono tutti tratti che - ancor prima di essere «gnostici» sono mistici, come mirabilmente precisa Miche! De Certeau in Fabula Mistica, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 82-84. {18) A questa ipotesi, sostenuta da Timpanaro, M.A. Rigoni aveva già obiettato, a mio avviso convincentemente, in li materialista e le- Idee, in Saggi sul pensiero leopardiano, Napoli, Liguori, 1985, pp. 55-72. pagina 191 (19) L'espressione è di M.A. Rigoni, Leopardi e I' estetizzazione del/'antico, op. cit., pp. 11-53. (20) Martin Heidegger, La dottrina platonica della verità, Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, p. 174. (21) A conferma che nessuna ironia sottende l'intenzione di far rivivere in un nuovo reincantamento il mito «trobadorico» di Amore e Morte, in un recente acuto saggio, Antonio Girardi ha indicato - sulla base di precise notazioni linguistiche - le suggestioni «stilnoviste» che percorrono li Pensiero Dominante (Cino, Cavalcanti, Alighieri). Si tratta di un testo, secondo Girardi, che si caratterizzerebbe per «il suo configurarsi in forme comparabili con la poesia mistica» (Antonio Girardi, «Il Pensiero Dominante» di Giacomo Leopardi. Nota di Lettura, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXIV, 525, 1987). (22) Tra i più acuti è certo Guido Ceronetti, Intatta luna, «Belfagor», I, 1970, poi in Difesa della luna, Milano, Rusconi, 1971. (23) È assai interessante notare che questo «modo di guardare» leopardiano era stato rilevato anche da un positivista come Giuseppe Sergi, il quale osservava in Leopardi al lume della scienza, Milano-Palermo, Sandron, 1898, che «in cinque (canti] si fa cenno al sole, ma questo è spesso al sorgere o al tramontare, una o due volte al meriggio, undici volte l'ora è notturna con o senza luna»: anche se poi la miopia del meccanismo scientistico portava lo studioso ad attribuire questa preferenza per l'ora notturna alla «ambliopia percettiva, insieme con lo stato malato dei suoi occhi». Cfr/daNew York La narrativa subacquea Paolo Va/esio L a quarta di copertina dell'ultimo libro di Joan Didion caratterizza il prodotto come insightful nonfiction, o vero sia, un penetrante esempio di - come dire? Se vogliamo evitare i calchi passivi che sembrano purtroppo esser divenuti la norma, nelle versioni italiane di termini anglosassoni, schiveremo la parola «nonfinzione» e vi preferiremo invece un'espressione come «opera non di fantasia». Il titolo del libro, ch'è una parola sola: Miami (New York, Simon e Schuster, 1987, pp., 238, $17.95), non reca, com'è invece abitudine sempre più diffusa, un sottotitolo che contenga una qualche indicazione sul genere letterario: una «storia» o un' «inchiesta»? (Così il toponimo, lasciato solo e come indifeso, risulta più drammatico; ma così resta anche, intorno al libro, un'aura di incertezza. Certo, la parola nonfiction è neutralmente descrittiva; mentre se parliamo di un'opera «non di fantasia» o «non d'immaginazione» la nostra etichetta si colorisce subito d'una valutazione - non è chiaro se positiva o negativa - ma insomma, una valutazione: potrebbe essere infatti un modo d'apprezzarne una certa qual serietà scientifica, o viceversa, una maniera di criticare una sua rilassatezza eccessiva, o grigiore non ravvivato [appunto] dall'immaginazione.) Un problem,t, è chiaro, non solamente termin'ologico: e se tale problema fosse sorto dall'iniziativa di prosatori italiani, chi sa quante iniziative di dibattito congressuale e giornalistico vi sarebbero state, con scelte di campo complesse e a lungo dibattute. Nulla di tutto questo, in una civiltà letteraria non-ideologica come quella statunitense: la narrativa «non-di-fantasia» si scrive, e buonanotte. Ai futuri storici di questa letteratura presente il compito di come sia modernamente (ri)cominciato questo neo-genere ibrido (con Norman Mailer? con Truman Capote? Con qualcun altro, prima?), quali siano i tratti che necessariamente e sufficientemente lo definiscono. Ma, qualunque sia per essere il responso della storia, resta all'osservatore della scena contemporanea il compito di annotare che questa maniera narrativa - o meglio, espositiva - ha cominciato a mostrare segni di stanchezza. Il saggio della Didion è appunto uno di tali segni. Non meraviglia apprendere ciò che viene editorialmente comunicato all'inizio, cioè: «Stralci di questo libro sono già apparsi, in forma lievemente diversa, sulla 'New York Review of Books'». Quella era infatti una delle sedi più appropriate per questa prosa che, commisurata alle normali inchieste giornalistiche, appare più problematica e di più alta levatura. Ma adesso, imprigionata tra due copertine solide e con tanto di apparato critico (su 238 pagine, 208 sono «narrative», mentre le rimanenti 30 sono occupate da «Note» e da un lungo «Indice» di persone e di cose notevoli), quale è il bilancio di questa prosa? Se guardiamo a ciò che potremmo chiamare la «rivelazione» storica o almeno giornalistica, non troviamo poi molto che non si potesse leggere qua e là in articoli di giornale stimolati anche da casi recenti (le rivolte in carcere di detenuti cubani, il risorgere di interrogativi sulla vera storia dell'assassinio di Kennedy, ecc.), che si interrogano su questo paradosso floridiano. Le cifre sono note: nella Dade County (sede della città di Miami) la popolazione ispanica (cioè, essenzialmente, cubana) è aumentata mentre quella «bianca» e diminuita. Attualmente, gli ispanici costituiscono circa il 43% della popolazione della contea, mentre i neri sono il 21%. Ma le cifre più int<::ressantiriguardano quello che potremmo chiamare il ritorno, o l'anti-esodo: dopo un periodo iniziale (la cui data-limite è il 1960, anno dell'arrivo della prima ondata all'indomani della vittoria di Castro su Batista), in cui buona parte dei profughi cubani si disperse per l'ampiezza degli Stati Uniti, dal New Jersey a San Francisco, è subentrato adesso un periodo di riconcentramento su Miami, per recuperare quelle che ormai la maggior parte di questi neocittadini considerano le loro radici: mentre nel 1970 il 40% di tutti i cubani-americani risiedeva a Miami, nel 1980 la percentuale è salita al 51%, e attualmente ha toccato il 55%. Risultato - un fenomeno unico nell'urbanistica statunitense: per la prima volta da quando questi Stati nordamericani sono Uniti, una grande città del Nordamerica è marcata dalla sua popolazione di emigrati in profondità, dunque non solo ai livelli (facilmente sfruttabili in nome del pittoresco) dei marginali (la malavita e traffico della droga, che pure è una realtà insolente e clamorosa a Miami), non solo al livello della classe lavoratrice e della piccola borghesia, ma anche (qui sta la novità) al livello più alto - dell'alta borghesia professionistica e imprenditoriale. Il segno più notevole di questa ascesa ispanica è la diffusione della lingua spagnola: non più ristretta all'intimità della famiglia, o al folklore, o a certi casi burocratici d'emergenza, ma orgogliosamente asserita in tutti i luoghi e occasioni della vita cittadina. Non solo i muratori d'italoamericana memoria, i meccanici i barbieri ecc. parlano spagnolo, ma anche gli architetti, gli avvocati, i milionari nei clubs esclusivi. E tutta questa rinnovata prosperità finanziaria, quella illegittima così come quella solidamente legittima, sostiene una politica nostalgica dai connotati reazionari, una politica che non esita di fronte alla violenza contro chi parla il linguaggio della moderazione verso la Cuba di Fide! Castro. Non ce n'è più che abbastanza, per parlare di un paradosso di Miami? Questo paradosso è tratteggiato dalla Didion con alcuni tratti vivaci, ma senza sostanziali novità nell'approccio storico-politico, sul quale insiste. Si rivela invece l'abitudine, irritantemente diffusa tra gli scrittori nordamericani su questi temi, a mescolare le considerazioni politiche con gli appunti frettolosamente mondani («ieri ho pranzato con ... »), buttando giù sulla carta i nomi di personaggi pubblici più o meno importanti. Lato positivo, nell'approccio della Didion, è la sua seria attenzione alla realtà ispanica - un'attenzione libera dai tratti più evidenti della condiscendenza razzialistica. È un equilibrio da apprezzare, poiché esso è particolarmente difficile a mantenersi nel caso di una comunità ispanica così peculiare qual è quella cubano-americana della Florida. La Didion infatti è critica nei confronti dello stile politico e dell'ideologia dominante in questa comunità; ma riesce a trasmettere tale atteggiamento senza sfuocarlo in luoghi com1Jni antilatini. Non che le tracce di condiscendenza, però, siano completamente assenti. Per esempio, la scrittura usa ancora quello stanco e trito termine di machismo (cfr. p. 54, et passim) che oggi può solo marcare la bancarotta di un'ideologia. E, una certa arroganza anglica e sassone spunta in un paragrafo come il seguente (si descrive un gruppo di giovani cubani eleganti, in un'occasione di società): «Portavano scarp1m di Bruno Magli, e abiti molto costosi di seta e di lino. Sembrava regnare una certa preferenza per il grigio severo e il nero; eppure l'effetto generale restava lussureggiante, tropicale - come una stanza piena di manghi vestiti e pettinati in modo impeccabile». Ma appunto, la debolezza del libro è questione di scrittura piuttosto che di idee. Nonostante le ingannevoli apparenze di durezza combattiva che sono di solito associate al libro-inchiesta, questo testo giuoca le sue carte più ambiziose su un tavolo tutto diverso: questo vuol essere un libro di evocazione, di narrativa, di rammemorazione, non un'inchiesta; tenta insomma di essere un libro di memoria, piuttosto che un memoriale. Ma è qui appunto che il testo cede. Vi sono varie promesse, varie delineazioni efficaci, vari attacchi di quella che la scrittrice stessa efficacemente definisce, a due o tre riprese, la «narrativa subacquea» (con questo termine designando il lato più intrigante delle storie scandalistiche e misterio-politiche che essa viene ascoltando a Miami). Ma lo stile pesante, a volte (cfr. p. es., p. 47) addirittura goffo, non risponde adeguatamente a questo progetto; né bastano a salvarlo pochi tocchi (troppo pochi, appunto) di ricerca propriamente letteraria: come l'uso (p. 30), a designare lo sciaguattare o spruzzare o schizzare dell'acqua piovana, del verbo p/ash (ricorrente nella prosa di Henry James) a preferenza della forma più corrente, splash. Insomma, quel che ci ritroviamo tra le mani è un album che raccoglie schizzi di memoria presentificante su Miami, ma che poi al bivio non si decide: finendo col non essere, né un'inchiesta sociopolitica, né una prosa d'immagine e memoria.

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