Alfabeta - anno X - n. 107 - aprile 1988

Einaudi EricRohmer LamianotteconMaud Il cinema di Rohmer nasce da questi racconti: storie di emozioni appena accennate, di donne forti, di amori difficili. A cura di Sergio Toffetti. Traduzione di Elena De Angeli. «Supercoralli», pp. x-227, L. 24 ooo AnthonPyowell IlRePescatore Amori, imprevisti e pettegolezzi di una crociera. Un maestro inglese del romanzo-conversazione. Traduzione di Silvia Gariglio. «Supercoralli», pp. 258, L. 24 ooo MargueriDteuras L'amantineglese L'ossessione di un delitto efferato nel piu «giallo» dei romanzi della Duras. Traduzione di Ginetta Vittorini. A cura di Edda Melon. «NuoviCoraUi»,pp. 161,L.12 ooo lsaakBabel RaccondtiOdessa nellatraduziondeiFrancLoucentini La violenza della vita nelle« miniature» picaresche dei racconti di Babel. «Scrittori tradotti da scrittori», pp. I 2 I, L. I O 000 RenzDoeFelice Storiadeglei breitaliani sottoilfascismo In una nuova edizione ampliata, la ricostruzione di uno dei capitoli piu drammatici della storia del regime fascista: la persecuzione antjebraica. «Biblioteca di cultura storica», pp. xx1-64.7,L. 65 ooo SilvioLanaro L: Italianuova Identiteàsvilupp1o861-1988 L'Italia di oggi è proprio un paese indecifrabile? Una realtà divisa fra arretratezza e sviluppo, innovazione e tradizione, antico e moderno, in una «lettura» destinata a far discutere. «Nuovo Politecnico», pp. v11-257, L. r6 ooo Botzealtri Il cc casoAustria,, Dall'•Anschluaslsl'•èraWaldheim L'Austria fu vittima o complice nell'Anschluss cinquant'anni fa? In nove saggi la vicenda di un'identità nazionale ancora divisa fra colpa e mnocenza. A cura di Roberto Cazzola e Gian Enrico Rusconi. «Nuovo Politecnico», pp. XLVll-2r r, L. r6 ooo JackGoody Lalogicdaellascrittura el'organizzazione dellasocietà L'importanza della scrittura nell'organizzazione delle società umane. Traduzione di Piero Arlorio. «Paperbacks», pp. xrv-233, L. 25 000 pagina 18 Nel suo volume, estremamente ricco e articolato, che porta il promettente sottotitolo di Saggio sul- /' ontologia di Giacomo Leopardi, Antonio Negri sviluppa una interpretazione non priva di acume, la quale, tuttavia, si avvale perentoriamente di una terminologia filosofica che andrebbe ripercorsa e precisata in mod9 analitico: l'«ontologia» di cui parla Negri sembra essere più quella hegeliana che quella «apofatica» di Heidegger. Inoltre, come conciliare un'ontologia che si voglia fenomenologicamente in-fondata, con un_'etica priva di valore fondante? Come pensare un'etica poggiante su un «fondamento completamente aperto e tragico, precario e costitutivo, eppure definito dalla speranza?» (p. 17). Completamente da dimostrare, ancora, e niente affatto persuasiva è la pretesa che la poesia leopardiana ponga «l'alternativa più alta contro ogni cospirazione intesa a risolvere dialetticamente il processo storico» (Ibidem). A me sembra che l'invito leopardiano a porsi sul piano di una interrogazione ontologica non sia «alternativo» ad alcunché, neppure alla dialettica, ed escluda qualsiasi impegno di antagonismo «politico» o (giacché oggi è di moda chiamarlo così) etico; piuttosto, il reincantamento che la poesia può operare conduce domande che questa posizione paradossale porta con sé. La poesia «malinconica e sentimentale», «respiro dell'anima», (Zibaldone, p. 136) dovrebbe essere in grado, in una modernità che ha portato a compimento la Unverborgenheit del mondo, riducendo la terra ad un deserto, di recuperare un incantamento mitico originario, possibile in quel- )'«altrove» popolato di «vetusti divini, a cui natura/Parlò senza svelarsi» (Ad Angelo Mai, vv. 53-54). Su questa negatività esemplare, sulla quale a ragione insiste Mario Andrea Rigoni nelle sue precise premesse e annotazioni ai testi poetici, si fonda una rappresentazione dell'origine che sembra attestarsi sull'emergenza archetipica di due percezioni sensitive: lo sguardo e l'ascolto. Ad una lettura ermeneutica attenta e sistematica non può sfuggire che i Canti, come taluni passi delle Operette Morali e dello Zibaldone, mettono in scena l'avvento dell'essere presente, tramite la drammatizzazione di suoni e di immagini, colti nell'attimo del loro puro pervenire alle «facoltà» di cui è dotato il corpo. A parte il celeberrimo «vento» che stormisce fra «queste piante» ne L'Infinito, tutta l'opera leopardiana è come intessuta di voci e suoni che provengono da lontano e difficilmente giungono ad assumere forma di parola definita e conclusa. Il privilegiamento della «voce» degli animali (si pensi ali' Elogio degli uccelli, ma anche al «belar» delle greggi e al «muggir» degli armenti nel Passero solitario) sugli altri suoni della natura si misura sulla intensità delle note zibaldoniane dedicate a questo argomento, e che tendono sempre ad interrogare, in queste «voci», l'origine del linguaggio umano, o la sua valenza mitopoietica: «Linguaggio mutuo delle bestie descritto secondo le qualità manifeste di ciascuna potrebbe essere una cosa originale e poetica introdotta così in qualche poesia ... » (Zibaldone, p. 55), e subito dopo: «Voce e canto dell'erbe rugiadose in sul mattino e ringrazianti e lodanti Iddio, e così delle piante ecc. [... ].emi pare imCfr magine notabile e simile a quella dei rabbini dell'inno mattutino del sole ecc.[ ... ]» (Ibidem); e ancora: «una delle cause principalissime e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della inferiorità delle bestie rispetto all'uomo, e della immutabilità del loro stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere. E mancando degli organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via dei segni, e nominatamente per via della voce, e de' suoni. Inclinazione materiale e innata nell'uomo, e che tuttavia fu la prima origine del linguaggio [... ] (28 maggio 1821)» (Zibaldone, p. 1102). In fondo, questa meditazione ontologica, che cerca l'origine dell'uomo a partire dal luogo ove la voce si toglie, non è molto diversa da quella che Giorgio Agamben ha individuato in Hegel, esaminando un passo delle lezioni jenensi del 1805-1806: «La voce è udito attivo, puro sé, che si pone come universale 'esprimendo' dolore, desiderio, gioia, appagamento 'esso è' Aufheben del singolo sé, la coscienza della contraddizione, qui ritorno in sé, indifferenza. Ogni animale ha nella morte violenta una voce, esprime sé come sé tolto. (Gli uccelli hanno il canto, di cui gli altri sono privi, poiché essi appartengono all'elemento dell'aria - voce articolante, un sé più sciolto)». 15 Ma è sull'intensità della luce, e dunque sul chiaro-scuro colto dallo sguardo, che si dirige con maggiore insistenza l'attenzione di Galimberti, nel saggio citato. Sullo sguardo leopardiano ha scritto anche pagine interessanti Angiola Ferraris, in particolare nel capitolo intitolato Amore e morte. Lo sguardo e il mito, pp. 35-72. Molto giusta mi sembra la sottolineatura della concezione leopardiana di un mito dell'antico, come «chiaro nell'oscuro», contrapposto ad un mito del moderno come «oscuro nel chiaro». Alcune pagine di questo volume, pur limitato da un certo schematismo ideologico, 16 sono estremamente acute e precise nelle ricostruzioni testuali: «Nel canto leopardiano - afferma la Ferraris, con riferimento al Pensiero dominante - questo nesso profondo tra l'amore e gli occhi si traduce nell'orientamento nuovo esperito dallo sguardo, cui il pensiero amoroso dona una 'vista seconda', atta a percepire uno spazio radicalmente 'altro' rispetto a quello della realtà effettuale» (p. 48). Se si segue l'avventura di questo sguardo, proteso a coprire quella «natura» la cui nudità e apertura (rappresentata magistralmente nel Dialogo della natura e di un Islandese) costituiscono per Leopardi l'inizio di una irresistibile decadenza del genere umano, ci si accorge che quel nichilismo distruttivo operato dalla filosofia moderna e portato fino alle estreme conseguenze nelle Operette Morali, non è ancora una conclusione e un punto di approdo definitivo. La perdita delle «favole antiche», provocata dall'«atra face del ver» (e cioè dalla metafisica moderna), non esaurisce ancora il luogo ove «s'abbella il vero» (Il pensiero dominante): spentasi ogni fiducia nella possibilità di un reincantamento del mondo ridotto a deserto, al fondo della conoscenza, resta pur sempre un «piacere» del vero, enigmatico ma seducente, perché «conosciuto ancor che tristo,/Ha suoi diletti il vero» (Al Conte Carlo Pepo/i). Questo spazio vuoto, residuo di una negazione assoluta, questo luogo, che è un non-luogo, non è dell'ordine dell'etica, ma dell'ordine dell'ontologia, o - per usare il termine leopardiano - della «metafisica»: in esso si colloca l' ou-topia, che misura la distanza separante le «cose» dalle «cose che non son cose» (Zibaldone, 4174), e prende corpo quel dualismo irriducibile che da più parti è stato indicato come distintivo dell'opera leopardiana. 11 Ne viene un perenne conflitto che si riveste delle figure più differenti: natura e ragione, finito e infinito, vita e esistenza, terminato e interminato, ideale (platonico) e reale. E in questo elenco di polarità oppositive, Galimberti sembra inserire anche, per le valenze conoscitivo-poetiche che essa porta con sé, quella numinosa tra luce del «sole» e luce della «luna». Prendiamo il binomio ideale-reale: qui la critica ha cercato vanamente per lungo tempo, di risolvere un'aporia insuperabile: come conciliare il Leopardi «materialista» e antiplatonico, con il Leopardi della Canzone alla sua donna e del Pensiero dominante, canti nei quali - com'è noto - si esalta la rappresentazione ideale sulla materialità della percezione sensitiva. In realtà, non ci troviamo qui di fronte ad una riduzione a «metafora poetica» del platonismo, come a suo tempo affermato da alcuni critici. 18 Sull'importanza ontologica dello sdoppiamento dell'oggetto del desiderio e sull'amore come «perdita» della figura reale e acquisto della figura immaginaria, Leopardi era già approdato nel '17, e le Memorie del primo amore stanno a testimoniarlo. In effetti, la rappresentazione soggettiva, benché problematica in un mondo che - con l'avvento della scienza - ha omologato le percezioni ed ha distrutto la «facoltà» immaginativa, ha, per Leopardi, un valore insostituibile perché riconsegna l'Io al suo essere più proprio, provocando quel raccoglimento che spezza i legami con l'inautenticità del quotidiano, e fa emergere all'e-videnza la scena originaria della presenza. Il privilegiamento dell'fa6oç niente ha a che fare con lo spiritualismo preso di mira da Leopardi (che solo in parte è lo spiritualismo di Platone; assai di più esso è identificabile con il platonismo romantico e cattolico degli intellettuali «progressisti» raccolti attorno ali' «Antologia» del Viesseux): spiritualismo che Leopardi riconosceva nell'imporsi generalizzato della Téchne e nella distruzione della concretezza dell' Erlebnis; esemplarmente rappresentato, nel Dialogo di Tristano e di un amico, nella derisione cui sono sottoposte, insieme alla statistica, «le scienze economiche, morali e politiche». Permane sempre, in questa meditazione, che non sa decidersi da una «estetizzazione dell'antico», 19 l'irriducibile rifiuto di accettare ciò che «da lungo tempo nel pensiero occidentale» si è imposto, vale a dire «la concordanza della rappresentazione del pensiero con la cosa: adaequatio intellectus et rei». 20 In questo senso nel Pensiero Dominante Leopardi «rinnova - come bene afferma Rigoni - sia pure su un registro diverso, il miracolo della Canzone Alla sua Donna, che era quello di unire insieme - in un sublime paradosso - l'esperienza del disinganno metafisico e la capacità di spendersi nella gioia dell'illusione platonica» (p. 971).2 ' Alfabeta 107 E sull'impossibilità di collocare la mitologia leopardiana all'interno di un'area definita (sia essa greca o giudaico-cristiana), torna ancora Galimberti, per sottolineare la problematicità irresolubile di questa esperienza poetica e di pensiero: «Più in generale - egli afferma - stava per prender forma in Leopardi una personale mitologia, che nella sfera della finzione avrebbe attinto anche più avanti spunti e figure dalla tradizione classica o rabbinica o gnostico-manichea [... ] ma per farne i segni di una visione unitaria, allo stesso titolo di personaggi e situazioni suggeriti dalla natura o dalla storia e investiti di segni archetipici» (p. XXVI). Benché costantemente. «ontologica» o «metafisica», la meditazione leopardiana rivela poi un suo interno movimento e sviluppo, qualora la si osservi in filigrana nelle intime pieghe del canto, e non soltanto in quelle logico-discorsive della «filosofia», come è stato fatto finora ampiamente. Secondo Galimberti, il contrasto tra il qui e I' altrove, che caratterizzava i primi, e veri e propri, Idilli, si stempera nel periodo pisano-recanatese, tra il '28 e il '30, in una «riscoperta di presenze mitiche nelle apparenze anche più prossi- " me e quotidiane, viste in costante rapporto - di consonanza e di dissonanza - con i moti degli astri e delle stelle» (LIV-LV). Galimberti affronta così la contrapposizione poetica e «filosofica» che Leopardi istituisce anche tra «sole» e «luna». Sulla luna leopardiana molto si è scritto. 22 E tuttavia, estremamente suggestiva e nuova mi sembra la notazione del critico, secondo la quale, qui, lo sguardo, tendente a privilegiare la luce radente e riflessa, su quella diurna e accecante, 23 si posa sovente sulla luna per una sorta di «reintegrazione del mito», nel quale si consuma la sete leopardiana di superare ogni «ossessione del distinguere e dell'opporre»: quell'ossessione che costituisce la dannazione dell'Occidente, «nel disperato tentativo [... ]di fondare poesia, conoscenza e vita sul cuore e sulla immaginazione, in un mondo che aveva perduto il senso della distinzione tra immaginario e immaginale» (p. LXIX). Note (1) Nell'impossibilità di citare tutti i contributi, mi limiterò a segnalare le opere in volume più significative. Per la biografia, oltre al fortunato Leopardi di Renato Minore (Milano, Bompiani, 1987), ricordo la ristampa, con introduzione di Renato Bertacchini, dell'ormai introvabile Leopardi di Luigi Tonelli (Milano, Dall'Oglio, 1987); alla serie biografica appartiene in qualche modo anche il volume di Gianni Infusino, Zibaldone di sventure, Napoli, Liguori, 1987, che ricostruisce «le polemiche, i misteri, i tradimenti» che accompagnano la vicenda di Giacomo Leopardi negli anni successivi alla morte. Tra i saggi critici mi sembrano da ricordare: Angiola Ferraris, L'ultimo Leopardi, Torino, Einaudi, 1987; Antonio Negri, Lenta ginestra. Saggio sull'ontologia di Giacomo Leopardi, Milano, Sugarco, 1987; Carlo Ferrucci, Leopardi filosofo e le ragioni della poesia, Venezia, Marsilio, 1987; M. Orcel, Langue morte/le, Paris, L'Alphée, 1987; Gennaro Savarese, L'eremita osservatore. Saggio sui «Paralipomeni» e altri studi su Leopardi, Padova, Liviana, 1987; in questo elenco inserirei anche, se mi è consentito, il mio Da Leopardi all'eresia, Napoli, Dick Peerson, 1987. Oppurtuna appare inoltre la nuova edizione degli Studi Leopardiani di Sergio Solmi, che contiene il prezioso carteggio tra Solmi e Sebastiano Timpanaro. utile per chiarire i termini del dibattito tra i due studiosi relativo sopfattutto alridea leopardiana di natura. E infine

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