Alfabeta 107 Leopardi: il centocinquantenario Alberto Folin N el corso del 150"anniversario della morte di Giacomo Leopardi molti sono stati gli interventi critici, i volumi,' le manifestazioni, i convegni. Il livello del dibattito non si è mantenuto, certo, su un medesimo valore, e dietro a molte iniziative si intravvede il disegno di una politica editoriale, e culturale, che poco ha da spartire con una coerente e autentica tensione esegetica nei confronti di uno tra i maggiori e più problematici pensatori dell'età moderna e contemporanea. Curioso, ad esempio, l'argomento prescelto per le manifestazioni di questo anniversario: Leopardi e le città. A parte il fatto che talune «città» sono di scarsissima importanza per la vita e l'opera di Leopardi, non si può passare sotto silenzio la constatazione che il poeta ebbe un pessimo rapporto con le città di cui fu ospite (salvo pochissime, come Pisa): antipatia, che d'altra parte fu spesso puntualmente ricambiata. Altro esilarante accomodamento di circostanza è quello che, per voce di Adriano Sofri, ha trasformato Leopardi in un ecologista ante litteram (Sempre verde mi fu, in «Panorama», 12 luglio 1987, pp. 136-141): il più «impolitico» accusatore della natura, dopo gli iniziali fervori per una primitiva Natura scomparsa, diventa ora il portabandiera del movimento verde. Ciò che stupisce è che uno studioso della statura di Sebastiano Timpanaro abbia sentito il dovere di spendere (nel senso della dépense) ben ventiquattro pagine, per confutare questa tesi:2 in realtà, si tratta di un articolo nel quale, più che Leopardi, Timpanaro prende in considerazione se stesso, per timore che il suo pensiero venga stravolto in senso antimarxista. Forse Timpanaro non ha ragione di preoccuparsi: ma in tutto questo, Leopardi che c'entra? Purtroppo non ho avuto modo di leggere l'edizione dei Pensieri che ripropone quella del 1845, allestita da Antonio Ranieri, che il Presidente della Repubblica Cossiga ha fatto approntare in occasione della festa della Repubblica del 2 giugno, con commento e note del compianto Umberto Bosco e Prefazione dello stesso Cossiga. 3 A parte operazioni di scarso rilievo, tendenti a ricondurre l'opera leopardiana a11'attualità immediata, con un riduzionismo ideologico talvolta evidente, il livello degli interventi si è assestato, comunque, su posizioni che risultano significative perché, in negativo, disegnano il perimetro delle domande più urgenti che contrassegnano l'immaginario collettivo contemporaneo. Così, la complessità - talvolta intricata e intrigante - dell'asistematico «sistema» leopardiano invita a rapportarsi all'ontologia, all'etica, alla poesia e alla «filosofia» in un intreccio per nulla eclettico di temi. Proprio perché le questioni in e gioco, di fronte a questo «pensiero poetante» o a questa «poesia pensante»' sono assai più urgenti di una mera archiviazione filologica e letteraria, il tono del dibattito si fa talvolta ardente. proteso com'è a far luce sul destino della modernità e sui suoi «valori». Liquidate definitivamente le posizioni idealistiche e storicistiche che per lunghissimo tempo hanno relegato Leopardi entro limiti puramente letterari o entro gli schemi del <<progressismo»etico-politico, questo centocinquantenario ha dunque sancito la restituzione di Leopardi allo spazio problematico che gli appartiene. In esso possiamo intravvedeFe due impostazioni critiche emergenti e tra loro contrapposte: una indica nella «metafisica» il luogo essenziale verso cui si indirizza la meditazione leopardiana; l'altra sottolinea l'etica come scenario dominante entro il quale si articola e prende corpo il procedere «frammentario» di quest0 meditare. 5 Mi limiterò a fare alcune considerazioni all'interno della prima tendenza, che, più appropriatamente chiamerei «ontologica», nella personale persuasione che il momento «etico» in Leopardi è del tutto secondario, e non costituisce il centro motore del suo pensiero. Certo nessuno, oggi, mette più in discussione la qualità «filosofica» e «conoscitiva» dell'opera leopardiana: ma è questa, forse, una concordia discors, la quale, sotto . altra terminologia, ripropone immutata l'antica difficoltà di accettare il nichilismo quando esso si presenta nella sua forma, per così dire, pura, in nessun modo utilizzabile per qualsiasi filosofia che si voglia ricondurre, in un modo o ne11'altro, alla «ragion pratica». Ma gli anni che sono passati, intanto, almeno quelli novecenteschi di questo centocinquantenario, non sono stati facili per coloro che - prescindendo da condizionamenti utilitaristi di vario genere - tentavano di rimanere fedeli alla propria intima necessità di lettura, proponendo una interpretazione «interrogante» e unitaria dell'opera leopardiana, scevra da ogni sovrapposizione tendenziosa ed ideologica. Così, «uno dei più grandi (forse il sommo) filosofi italiani»6 parve a Giuseppe Rensi, nel 1919, Giacomo Leopardi. E veramente si fa fatica a credere che questa constatazione, a quell'epoca poco meno che «eretica», e condivisa da pochi altri, anche a causa di una simile convinzione emarginati dal potere accademico allora rappresentato dall'idealismo (attualista o storicista), abbia dovuto aspettare più di mezzo secolo per emergere incondizionata ed indiscussa: «Se Leopardi fosse filosofo - aggiungeva Rensi con un'ironia che sconfinava nel sarcasmo - lo svolgimento della storia della filosofia, procederebbe fuori dai quadri prefissegli. Per il regoCfr asse e lare andamento di esso, per il normale e cattedraticamente pres~itto svolgimento dello spirito nella sua storia, Leopardi è uno di quelli che non devono essere filosofi». 7 In effetti la carica sovversiva8 immanente nell'opera leopardiana, si misura, in negativo, sul metro delle rimozioni, distorsioni, censure occulte e palesi, cui essa è stata sistematicamente sottoposta: o veri e propri ripudi in forma di volgare diffamazione (di cui il capostipite è certo Niccolò Tommaseo), o stravolgimenti aperti e, diLazar Gadaev, Senza titolo, 1984; bronzo, cm. 75xJ5xJ0 ciamolo, un po' spudorati (com'è quello di elevare a rappresentante di «progressismo» politico e sociale uno dei più radicalmente impolitici e «antiprogressisti» pensatori dell'età moderna e contemporanea). Ma l'interpretazione non è mai innocente: in realtà, ciò che è difficile da accettare, perché forse inquietante, è il riconoscimento pieno e incondizionato che, con Leopardi, ci troviamo di fronte allo scrittore italiano che con più forza e decisione ha collocato al centro del proprio pensare il senso dell'Essere (ben distinguendolo dallo «spirito»), in un tempo e in una vicenda storica - per l'Italia, pre-moderna, ma per l'Occidente ormai sicuramente moderna - proiettati verso la totale trasformazione mercantile della natura: un'epoca per la quale la riduzione dell'ente a mero utilizzabile, deve procedere a partire dal trionfo di un radicale disincanto, nell'assoluto oblio di quella che Heidegger chiama la dif-ferenza ontologica. La critica che ha scelto di avviarsi per questo cammino, opponendosi a rimozioni convenienti e «vantaggiose», traccia un percorso che, a guardarlo retrospettivamente, appare disseminato di relitti, che appena oggi qualcuno ricorda nei «bui chiostri ... delle dolci università» (per dirla con Fortini) o nella solitudine polverosa di qualche tesi di laurea destinata all'archivio. 9 Per lo più nomi sconosciuti sono quelli di Giovanni Amelotti (autore di una Filosofia del Leopardi, Genova, 1937, nella quale si stabiliva un rapporto - si noti la data! - tra il pensiero leopardiano e l'analitica esistenziale di Sein und Zeit di Heidegger), di Adriano Tilgher (convinto assertore del nichilismo leopardiano )w e dello stesso Giuseppe Rensi. Bisognerebbe ripercorrere queste vicende intellettuali. che spesso si intrecciano con sofferte vicende personali ed esistenziali soprattutto in un momento come rattuale. spesso «smemorato». che (ri)scopre con entusiasmo. all'improvviso, il valore del «pensiero» leopardiano, dopo anni di oblio. insistendovi con sicurezza talvolta maldestra. e certamente con un tono perentorio che - ad imitazione di quello antico usato dal Croce - ripropone immutato il medesimo svisamento. se pure rovesciandone il segno. Il fatto è che un avvicinamento di tipo ermeneutico. il quale privilegi il «pensiero» sulla poesia, e che comunque intenda ridurre a «sistema», rasistematicità «pirroniana» della meditazione leopardiana, va incontro ad uno scacco e fallisce il suo obiettivo, allo stesso modo in cui falliva la precedente esperienza critica «estetizzante» ed impressionistica che concentrava l'attenzione sul ·momento lirico o sul «canto». La modernità di Leopardi sta, infatti, proprio in questa inscindibilità dell'intreccio tra «meditazione» e «canto», che non utilizza la metafora (autrefois l'immagine) come mero «ornamento» del messaggio, ma ne fa la questione centrale del pensiero stesso. Direi che una delle cose migliori uscite in questo anniversario leopardiano è costituita dal I volume delle Poesie e prose di Leopardi nella benemerita collana dei «Meridiani» di Mondadori, per cura di Mario Andrea Rigoni, e con un saggio di Cesare Galimberti, intitolato, appunto, Leopardi: Meditazione e Canto (pp. XI-LXXIX). Il secondo volume, imminente, che conterrà le Prose, è curato da Rolando Damiani. Meditazione e canto: nella sottolineatura di questa inscindibilità tra poesia e discursus, corso labirintico e interrotto (per dirla con Blanchot) di un pensiero che pretende di risalire a11'origine ontologica del linguagpagina n I gio, per coglierne lo scarto mitico e «immaginoso», sta la forza del saggio di Galimberti. Dato per acquisito, infatti, che l'opera leopardiana è interamente «pensante», 11 si tratterà di individuare il luogo di questo «pensiero»: che non è - come ancora si continua a credere - rappresentato dallo Zibaldone, esclusivamente: almeno nella stessa misura in cui i Canti non sono l'esclusivo luogo della «poesia». Il meditare leopardiano andrà piuttosto cercato nelle pieghe e nei risvolti ritmici, metaforici, melodici, negli scarti semantici, logici e analogici di un linguaggio che non è mai (o quasi mai) gratuito esercizio di stile, ma interrogazione di quel silenzio originario e segreto immanente nell'atto di parola umana; e che della parola porta con sé, incastonata come «negli anelli le gemme»,' 2 la voce (il «canto») da cui proviene. «Nel complesso dell'opera leopardiana - afferma Galimberti - lo Zibaldone corrisponde soltanto relativamente a un polo filosofico, e in senso altrettanto relativo i Canti - anche i più 'vissuti', dal Passero solitario ad A Silvia - coincidono con un polo lirico. Canti, Operette Morali, Paralipomeni. Pensieri, ma anche lo Zibaldone e i saggi e i discorsi, nascono da una tensione unitaria, insieme conoscitiva e poetica, che si gradua diversamente secondo i diversi 'generi' dei singoli testi, ma raggiunge risultati ed effetti, conoscitivi e poetici, che occorre definire di volta in volta» (pp. XXXXI). Nell'interstizio che separa, ma insieme custodisce, la co-appartenenza di poesia e pensiero andrà dunque cercato quel non-luogo cui tende l'interrogazione leopardiana, sempre assetata di assoluto, ma - a un tempo - sempre intrecciata alla materialità dell'esistenza. La critica, adeguandosi al testo, per avvicinarlo, dovrà rinunciare fufine ad ogni sistema e ad ogni interpretazione che pretenda, con arroganza, di essere conclusiva e totale. Il saggio di Galimberti affronta il testo leopardiano, ripercorrendone dall'interno, e trasversalmente, la storia: che è una storia, insieme, poetica e metafisica, assolutamente estranea a qualunque discorsività progettante ed eticamente (o, peggio, politicamente) antagonista. Il nichilismo di Leopardi non si risolve, dunque, in un «relativismo morale» al centro del quale vi sia un nuovo - e più moderno - significato di «virtù»: 13 ci troviamo piuttosto di fronte ad una intransigente domanda sulla verità, pensata - grecamente - come àÀiJ-Otta.Su questo termine, si sa, Heidegger articola l'analitica esistenziale, partendo da una traduzione-interpretazione della parola greca come Unverborgenheit, «svelatezza» (per altri traduttori «non-nascondimento») dell'Essere. E basta pensare quanto sia ricorrente l'immagine del velo e quella del «palesamento» e «occultamento» della Natura di fronte alla forza penetrante dello sguardo, ne11'opera di Leopardi, per comprenderne la forza cruciale e decisiva. 14
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