A/fabeta 107 Michael Jackson Bad Epic, 1987 Miles Davis Tutu Warner Bros., 1986 M entre il jazz contemporaneo sembra aver e~aurito la propria «spinta propulsiva» irrigidendosi in esercizi di stile e mera accademia (la «novità» di questi ultimi anni è Winton Marsalis ... ), l'altra musica nera, quella commerciale e in genere malvista dalla critica, sta rapidamente bruciando le tappe di un processo tutto da decifrare. Un processo che vede una massiccia immissione di tecnologia, e che sta modificando il concetto stesso di negritudine. Un tempo essa veniva vista come assoluta alterità nei confronti della razionalità dell'uomo bianco. Oggi, e proprio col tramite della tecnica (heideggerianamente vista come realizzazione della metafisica occidentale), sembra che l'opposizione tra istinto, tipico della cultura nera, e «puro artificiale» bianco sia tutt'altro che inconciliabile. Al contrario. la tecnologia sembra perfettamente in grado di restituire e moltiplicare ciò che di «selvaggio» la cultura nera contiene: e la nuova musica afro-americana, che la si chiami funky, soul, rhythm'- n'blues, rap, vive proprio questa contraddizione. Una contraddizione vitale e stimolante: al punto che gli artisti più interessanti sembrano esser proprio quelli che si spingono più avanti in tale direzione. In questa prospettiva non c'è dubbio che, pur avendo alle spalle un background totalmente diverso, i due musicisti che oggi incarnano con maggior rigore tale tendenza siano Michael Jackson e Miles Davis. (Sarebbe interessante parlare anche di Prince: ma la sua figura di mistico e profeta nero meriterebbe una trattazione a parte, che mettesse in evidenza semmai in che misura Prince è debitore nei confronti di Jimi Hendrix.) 1. Bad, l'ultimo album di Michael Jackson, pur avendo conseguito, com'era nelle previsioni, un notevole successo di pubblico (ma certo non paragonabile ai 35 milioni di copie vendute dal precedente Thriller) è stato letteralmente stroncato dalla critica. A Jackson è stata rimprovera- • ta in genere «freddezza» sia nell'ideazione che nell'esecuzione del disco, in gran parte registrato con sofisticatissime apparecchiature digitali e con la supervisione di Quincy Jones (sarebbe utile rilevare l'influenza dei produttori sulla musica nera, a partire almeno da Berry Gordy, il fondatore della Tamia Motown). Ma le critiche, in realtà, hanno coinvolto il personaggio Jackson in toto: prendendo spunto dal suo nuovo look evidenziato in copertina (giubbotto di pelle nera da duro, bad, ma viso ingentilito dal naso ricostruito tramite plastica e pelle nera schiarita), i critici si sono scagliati contro la nuova immagine. Schiarendosi la pelle, Jackson ha tradito la causa dei neri, divenendo implicitamente complice dell'ideologia razzista che considera «buono» il bianco e «cattivo» il nero. E rinnegando la propria negritudine, egli ha «schiarito» anche la propria musica. A sentire la critica, dunque, mentre i bianchi possono abbronzarsi, magari con i raggi UVA, i neri debbono restare tali. L'operazione estetica è possibile solo in una direzione. I neri debbono badare solo al significato del colore della propria pelle... L'argomento «razzista» può essere roI pacchetti di Alfabeta pagina 15 • chael J ackson e _· esDavis Toni Robertini vesciato come un tappeto, e svelare un'ideologia regressiva e «ziotomista» che vuole ancora i neri legati ad una indentità forte, e per questo non liberi, come invece i bianchi, di intervenire esteticamente sul colore della propria pelle. Ma non è questo il punto. In realtà, evidenziando la sempre maggior artificialità del prodotto Jackson, la critica ha in effetti colto nel segno. Il fatto che poi abbia sanzionato negativamente tale evoluzione è indifferente. In realtà l'artificialità di Jackson è per così dire epocale, e come tale va interrogata. Jackson passa molte ore della sua giornata in una camera iperbarica per- .. metafisica, tanto più egli si vede ricondotto alla propria mortalità. Quanto più la sua musica è fatta non di suoni, che si svolgono nel tempo ma di informazioni sempre-presenti, tanto più essa svela però, drammaticamente, la natura umana-troppo-umana del suo creatore. Sicché l'angoscia di Jackson (la sua immagine in realtà è idilliaca e felice: è il Peter Pan del rock; ma dietro la facciata ci sono l'orrore e la follia) è l'angoscia dell'uomo nell'era della tecnica. La pro-vocazione del Gestel/ lo chiama ad andare oltre se stesso: a divenire l' Uebermensch nietzscheano (almeno nella lettura che di Nietzsche dà Heidegger). Il suo tentatiLev Tabenkin, Equilibrio, 1987;olio su tela, cm. 298xJOO ché è convinto di arrestare l'invecchiamento delle cellule. Mangia solo cibi liofilizzati, non ha mai avuto rapporti sessuali, va in giro con la mascherina sulla bocca, e la sua biografia, a meno di trent'anni (è curata niente meno che da Jacqueline KennedyOnassis) sta per essere pubblicata in America ... Michael Jackson è ossessionato dal tempo. Quanto più la sua musica diviene artificiale, quanto meno richiede l'intervento umano per affidarsi interamente al computer quanto più diviene sintetica, simulata, vo disperato è proprio questo: sconfiggere il tempo, e la morte (e d'altronde, come mai gli zombies di Thriller sono così simpatici? Perché, sebbene in modo caricaturale, hanno sconfitto la morte). Michael Jackson è insomma il primo, vero, replicante di se stesso. E la sua musica, dietro un'apparente leggerezza, è lo scenario di un conflitto realmente mortale. 2. La dialettica nero/artificiale, che in Jackson raggiunge il punto massimo di drammaticità, sembra peraltro una caratteristica costante di tutta la musica «commerciale» afroamericana. Lo stesso rhythm'n'blues, inserendo strumenti elettrici al posto di quelli acustici del blues, è stato il primo passo in questa direzione. Non va d'altronde sottovalutato come tale processo abbia subito in tempi recenti una brusca accelerazione grazie al rap. e ostruito interamente da improvvisazioni vocali dei disk-jockey neri su basi ripescate da altri dischi, debitamente remixate e manipolate elettronicamente, il rap ha dimostrato come sia possibile, letteralmente, fare musica pur non essendo musicisti (un po' la lezione del punk, dunque, altro genere nel quale l'intervento «soggettivo» ha un'importanza molto marginale). Naturalmente, non è possibile estrapolare le procedure tecniche dei rapper da tutto quel complesso fenomeno culturale che va sotto il nome di hip-hop culture e che tra l'altro comprende l'esperienza artistica dei graffiti. Ma, per ciò che riguarda il nostro discorso, sarà sufficiente evidenziare come il rap sia un tipo di musica che lascia al soggetto operatore uno spazio di intervento assolutamente periferico: anziché essere il punto di partenza di una prassi «espressiva», il dee-jay è più che altro un mero assemblatore ed organizzatore di suoni già esistenti indipendentemente da lui. Una tendenza giunta oggi al punto estremo, con il cosiddetto «rap'n'roll» (Run DMC, Beastie Boys) che innesta sui ritmi del beat box riff e cadenze letteralmente campionate da altri dischi (l'hard rock dei Led Zeppelin, per esempio). 3. Tecnica come de-soggettivazione, dunque. Cosa c'entra questo allora con Miles Davis e con il jazz in generale (un tipo di musica che prevede invece la presenza «forte» di un soggetto creatore)? In realtà, da questo punto di vista Tutu di Davis è realmente un disco rivoluzionario. Da sempre attento all'evolversi della tecnica e dei linguaggi, dopo aver elettrificato il jazz nel 1969 ( Bitches Brew), oggi Davis l'ha informatizzato. Tutu è un album praticamente suonato e programmato dal solo Marcus Miller (più alcuni sporadici collaboratori). Sui brani, rigidamente predeterminati, Davis ha improvvisato come ormai fa da diversi anni dopo il suo rientro sulle scene: con il consueto stile freddo e laconico, ben lontano dal calligrafismo tipico di tutto il «jazz-rock» che paradossalmente proprio a Davis si richiama. Mettendo in campo un'ipotesi di interazione tra improvvisazione (con tutto il portato «soggettivista» della tradizione del jazz) e ripetizione elettronica, Davis ha in realtà percorso forse l'unica strada possibile per il jazz contemporaneo (o forse ce n'è un'altra: suonare jazz falso, come fanno i Lounge Lizards). Dalla dialettica stridente di differenza e ripetizione, soggettività e de-soggettivazione propria della tecnica, è nato un autentico capolavoro. Poco importa che la critica, evidentemente affetta dalla «sindrome di Panassié» (il critico francese che liquidò il bebop affermando che non aveva nulla a che vedere col «vero» jazz) si sia chiesta, preoccupata, se sostituire gli uomini con le macchine non sia la morte del jazz (in realtà il jazz è già morto da un pezzo, e proprio per colpa di quelli che si affannano ancora intorno al suo capezzale). Come al solito Davis è molta strada più avanti, in compagnia forse del solo Omette Coleman (almeno: quello del doppio quartetto elettrico) e dell'Herbie Hancock di Future Shock.
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