-~- PROGETTCOULTURA ANNOQUINTO CONTINUAILDIALOGO CONI GIOVANI, LASCUOLAL, ASOCIETÀ, fl monTEOISOn SCIENZA RICERCA TECNOLOGIA A più voci La rissa «culturale» Simone Weil Lévinas su Heidegger Taccuini Vegetti, Barilli, Valesio, Pacchetti Fabbri Gregory Bateson Tradizione del nuovo La filosofia pratica Pignotti J ackson e Da vis Cfr Leopardi: il centocinquantenario Rassegne Grandville e Daumier a Napoli Mostre Saggi C'è ancora una macchia qui Sergio Finzi Il sacro di Beckett Aldo Tagliaferri Nuova serie Aprile 1988 Numero 107 / Anno IO Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo III/70 • Printed in ltaly Prove d'artista New Orleans Mario Maffi Mario La Cava Giovanni Carta Nuova Arte Sovietica
pagina 2 Le immagini di questo numero Alfabeto 107 Nuova e Sovietica L a ricerca artistica, in un paese che per ragioni politiche ha difficoltà di scambi culturali, è sempre l'espressione, più che di alcuni movimenti e di alcune tendenze, della singolarità di ciascuno degli artisti più rappresentativi; l'arte, così, diventa un insieme di esperienze che non è sempre facile ricondurre a poetiche comuni. ln questi ultimi anni l'arte sovietica è stata in Occidente al centro di alcune mostre che hanno avuto un loro riferimento forte (per quanto riguarda una prospettiva non ufficiale) nella Biennale di Venezia del 1977, in occasione di una serie di avvenimenti dedicati alla Nuova Arte Sovietica. Così scriveva nel catalogo uno dei curatori, Enrico Crispolti: «Nel/'ambito della situazione artistica, si è verificata in URSS una esiziale saldatura fra interessi di conservazione accademica e autodifesa del corpo burocratico, e lo spazio alla ricerca nuova e libera è estremamente ridotto, da conquistarsi con operazioni alternative, quasi di frodo, con ingegnosi stratagemmi. Dopo 1I anni la realtàsi è fortemente trasformata : il 26 aprile si apre allo studio Marconi di Milano una mostra dedicata ad artisti sovietici contemporanei, e il mese successivo, a Mosca, si inaugura al Palazzo dell'arte una esposizione di artisti contemporanei italiani; il tutto avviene su invito ufficiale del Segretario Generale del- /' Unione dei Pittori dell'URSS. La novità sta nel fatto che questa è la prima volta che un gruppo di artisti italiani contemporanei esporrà in un museo sovietico, così come sarà la prima volta che una galleria d'arte occidentale espone alcuni pittori sovietici. Gli artisti sovietici presenti allo Studio Marconi sono: Bulatov, Vasiliev, Gadaev, Dibsky, Kantor, Lubennikov, Lysiakov, Tabenkin, Shutov, Cicerina, Zykalov; gli artisti italiani saranno Fontana, Fabbri, Rotella, Baj, A. Pomodoro, Adami, Del Pezzo, Hsiao, Pardi, Todini, Schifano, Colombo, Paolini, Vaccari, Benati, Esposito, Ceccobelli, Maraniello, Spoldi, Mazzucconi. Le tendenze presenti a Mosca sono già chiare nei nomi qui indicati: costituiscono un sintetico excursus di ciò che è avvenuto in Italia in questi ultimi 20 anni, con alcune eccezioni di grandi vecchi. Altro è il discorso intorno alle qualità e alle tendenze di ricerca presenti nelle opere dei sovietici che «Alfabeto» presenta in questo numero. Anche in URSS sembra dominare, in questi anni, una pluralità di linguaggi: l'astratto, un concettuale moderato, una ripresa del figurativo in chiave post-espressionistica, una serie di citazioni visive che provengono da altri mezzi di comunicazione. Insomma il terreno è incerto dal punto di vista del futuro, del dove va l'arte; anche se in questo caso l'incertezza è sinonimo di un'altra situazione, di un'altra realtà storica e ideologica. Rappresenta il segno di un'apertura ufficiale verso lo scambio di esperienze di linguaggi; Erik Bulatov, un artista che riutilizza l'immagine di derivazione fotografica insieme a una serie di figure e di forme tipiche del paesaggio urbano ma anche del linguaggio pubblicitario, era già presente, per esempio, alla Biennale di Venezia del 1977, anche se in questo caso assume un rienza già conosciuta in Occidente come quella di Oleg Vasiliev: la figura umana si dematerializza, si soggettivizza. Al di là delle qualità più propriamente espressive, ciò che è fondamentale è il contesto nel quale sta avvenendo questo tipo di ricerca: le ragioni estetiOleg Vasiliev, Verticale e orizzontale, 1987; olio su tela, cm 116 x 116 altro ruolo come testimonianza «ufficiale» che la rappresentazione può avere un linguaggio diverso da quello della cosiddetta realtà. Così anche per un'altra espeche, in questo caso, vengono dopo il significato politico del/'operazione: è il contesto che conta. Come scriveva Theodor Adorno in Parva Aesthetica, «la negatività del concetto d'arte concerne Sommario Alfabeta 107 Aprile 1988 Paolo Valesio Il «New Yorker» racconta pagina 8 Toni Robertini Michael Jackson e Miles Davis Saggi Sergio Finzi Paolo Fabbri «C'è ancora una macchia qui». I colori e la guerra l'arte nella sostanza. Ciò che impedisce di definirla è la sua natura stessa, non l'impotenza dei pensieri che la riguardano: il suo principio più intrinseco - il principio utopico - si ribella al principio di dominio della natura implicito nella definizione». Ecco, potremmo interpretare questo panorama dell'arte sovietica contemporanea come un'esplicita e ufficiale manifestazione del principio utopico; cioè che l'arte è sempre al di là del principio di realtà, in una società dove fino a pochi anni fa arte doveva coincidere con lo stesso principio di realtà o, per meglio dire, con il significato che al termine realtà veniva dato dal potere politico. Questo credo che debba essere il primo significato della mostra delle immagini di «Alfabeta», di tutta l'operazione culturale che sostiene questo scambio di artisti tra l' Italia e l'URSS. Come sempre, per interpretare un'esperienza artistica, è necessario prima storicizzare e poi leggere l'opera, cioè le sedimentazioni formali e cromatiche che l'artista ha depositato nei suoi prodotti. I segni, i gesti, le forme di questi artisti sovietici acquistano un significato, un valore al di là della cronaca, proprio se coniugati con la storia del loro paese, con gli stimoli delle tensioni creative che ora circolano all'esterno degli studi e non più attraverso una diffusione sotterranea e marginale. Edizioni Caposile s.r.l. Aldo Colonetti Il testo ventriloquo pagina 9 (Bad, di M. Jackson; Tutu, di M. Davis) pagina 15 Cfr in psicoanalisi pagine 30-32 Mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Pubbliche relazioni: A più voci Antonio Porta La rissa «culturale» pagina 3 Simone Weil Poesie pagina 4 Uvinas: Heidegger e il nazismo Intervista a cura di Thijs Berman pagine 5-6 Mario Vegetti Alpha e Omega pagina 7 Renato 8arilli Torna Robbe-Grillet pagina 7 Avriso al collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per/ pacchetti di Alfabeto; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 Lamberto Pignotti Si avviano progetti pagina 9 1 pacchetti di Alfabeta Gianni De Martino Lettura di un corpo (Le visiteur de hasard, di P. Devret; I ragazzi terribili, di J. Cocteau; Carmide, di Platone) pagina 11 Rocco De Biasi Gregory Bateson (Gregory Bateson. The Legacy of a Scientist, di D. Lipset; Gregory Bateson. li maestro dell'ecologia della mente, a cura di P. Tamburini) pagina 12 Edoardo Greblo La filosofia pratica (L'etica fra felicità e dovere, di A. Da Re; La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, di F. Volpi; Le vie della ragione, di E. Berti) pagina 13 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei liCfr/Rassegne pagine 17-19 Cfr/da New York pagina 19 Evidenziatore pagine 20-21 La classifica di Folco Portinari Giovanni Raboni pagina 20 Cfr/Mostre pagina 21 Cfr/11lavoro delle riviste pagina 22 Cfr/Spettacoli pagina 22 Cfr/Convegni pagina 23 Cfr/Altri libri pagina 23 Cfr/Recensionl pagine 25-29 bri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazionedel domiciliodel collaboratore. Tutti gli articoli inviati alla redazioAldo Tagliaferri Il sacro di Beckett pagine 32-33 Prove d'artista Mario Maffi New Orleans pagine 35-37 Mario La Cava Prose pagina 38 Prova d'artista grafica Giovanni Carta pagina 39 Le immagini di questo numero Nuova Arte Sovietica di Aldo Colonetti In copertina disegno di Andrea Pedrazzini ne vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabiledel lavoro intellettuale per «Alfabeta,. è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Ancilla Tagliaferri Antonella Baccarin Editing: Luisa Cortese in termini utili e evidenti per il lettore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano Monica Palla Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo
Alfabeto 107 A più voci pagina 31 Taccuini La rissa<<culturale>> A proposito delle ultime risse «culturali», che hanno raggiunto il loro punto massimo di incandescenza con le trasmissioni di Mixer cultura, come i nostri lettori ben sanno, qualcuno ci ha subito ricordato che intellettuali e letterati si sono sempre insultati tra loro e non sono mancate le dotte citazioni in lingua latina. Ma è ovvio che le risse «culturali» in epoca di mass media hanno un senso e effetti diversi da quelli che si verificavano a corte o nelle cerchie dei mecenati per screditare l'avversario e impadronirsi delle commesse altrui. Oggi gli interessi di bottega sono di proporzioni così ridotte da avere poco peso come cause possibili degli scontri. No, credo che la questione investa piuttosto il principio di identità dei protagonisti di attività che rischiano ogni giorno di rimanere confinate ai margini di tutto ciò che conta e pesa nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Pur di far credere di essere vivi e importanti alcuni letterati sono disposti a starnazzare e di fatto starnazzano senza vergogna. Dunque, perchi:: lo fanno? A me pare che la Antonio Porta maggior parte degli scrittori, e perfino dei poeti, abbia perso fiducia nell'opera, che richiede ferree capacità di resistenza e infinita applicazione, e punti allora tutta la posta in gioco sulla pubblicità di se stessi. Il narcisismo, l'ipertrofismo dell'io da difetto viene trasformato in merce di scambio: fa notizia e dunque è vendibile al miglior offerente, con o senza esclusiva. I risultati sul piano pratico sono modesti e gli effetti perversi di simili effimere affermazioni risultano essere più forti delle partite da ascriversi all'attivo. Se restiamo, come mi pare giusto, sul piano contabile del dare e dell'avere, possiamo iscrivere nella colonna dei profitti qualche migliaio di copie vendute d'impulso in tempi brevi; ma nella colonna delle perdite possono essere iscritte ancor più copie non vendute per l'altrettanto immediata repulsione da parte di molti lettori che contano e fanno opinione sulla lunga distanza. Che cosa pensare di scrittori e poeti che mirano a un pubblico disposto a farsi suggestionare dallo scandaletto televisivo di Mixer? Semplice, che hanno sbagliato target, che hanno mirato a un obbiettivo inconciliabile con la propria opera che conserva, nonostante tutto e in quasi tutti i casi di questi ultimi tempi, una ragguardevole e rispettabile dignità letteraria. Ingenui, allora, o disperati per la situazione di marginalità? Di certo molto ingenui, perché non si rendono conto fino in fondo di quanto vengono strumentalmente utilizzati dai mass media. Su questo punto vede bene Giovanni Raboni che denuncia «L'interesse - da parte di chi in µn modo o nell'altro detiene e amministra il potere - di screditare e priori presentandoli come 'cattivi maestri' di maniere, oltre che di idee, tutti coloro che per professione o abito mentale potrebbero costituire un sia pur lieve inciampo alla fabbrica del conformismo e del consenso» (cfr. «L'Europeo», 12-18 marzo 1988). Con lucidità è intervenuto anche Giorgio Bocca. La sua Lazar Gadaev, denuncia è ben motivata. Scrive Bocca che di fronte ai cambiamenti intervenuti nelle strutture dell'informazione e dello spettacolo, gli intellettuali si dedicano a due esercizi suicidi: elogiano tutto ciò che li sta emarginando, lasciando passare di tutto con obbiettiva, paurosa caduta del livello della criticità («La nostra bocca non solo è buona, ma buonissima»); in secondo luogo rovesciano tutte le colpe sulla cultura di massa e sulle leggi dell'audience mentre dovrebbero rendersi conto di praticare una cultura «senza fatica e trasgressioni senza costrutto». Non distinguono, in definitiva, «tra il pensare e il campare» (cfr. «L'Espresso», 20 marzo 1988). Questi esercizi suicidi di categoria, simili a quelli delle balene che vanno a morire sulle coste in seguito a qualche misteriosa catastrofe mentale, diventano ancora più dannosi per una ragione che non mi pare sia stata messa in rilievo da alcuno: le risse hanno luogo nello stesso momento in cui i mass media più culturalizzati. in guerra feroce tra loro, tentano di screditare con ogni mezzo a disposizione la stampa più propriamente culturale. Qualcuno è arrivato a dire rhe k ri,·iste culturali sono carenti non solo sul piano dell'invenzione giornalistica. ma rhe 1101, tengono conto dell'impaginazione. 110 dei titoli, ecc., che ripetono banalmente sdt1..'- ·mi già visti, incapaci come sono di «esprimere contrasti di identità, che è poi la domanda di fondo dell'odierno mercato culturale». Si esprime così, come è evidente. una grande insofferenza per ogni tipo di approfondimento, giudica_to «fuori del mercato». Appunto, è ben quello che vogliamo, sottrarci alle esigenze volgari del mercato, ed evitare che i «contrasti di identità» diventino risse per far vender più copie agli altri. ·su questo punto, e solo su questo, ha ragione il conduttore di Mixer cultura, Alessandro Bagnasco, quando dice che se non si arriva alla rissa nessuno si occupa di trasmissioni culturali e che solo con le risse e le volgarità da osteria lui, Bagnasco, ha conquistato le prime pagine nazionali. Osano dunque affermare che l'unica strada, per quel che riguarda la cultura, è quella imboccata da loro, grandi mass media settimanali, anche «se ci vorrà del tempo prima Uomo seduto con uccello, /984; bronzo, cm. 30x25x20 di vedere i risultati» delle nuovissime linee di intervento. Nel frattempo i risultati, pubblicati dal solito concorrente nazionale, segnano un decremento diffusionale del -1,3%. Viene allora il sospetto che le politiche editoriali, diciamo meglio: le guerre editoriali in atto, sono considerate tanto pericolose da far saltare i nervi anche a chi avrebbe le ·carte in regola per non ridursi a sparare a zero contro i compagni di strada meno fortunati (cioè fuori dell'area decisionale del potere). (Cfr. «prima», marzo 1988.) Se è questa, come credo, la cornice delle risse «culturali», occorre dire che gli scrittori e gli intellettuali che si sono prestati e si prestano alla bisogna, non potranno che risultare, tra breve, ancora più emarginati di prima, senza mercato e senza onore. Ho scritto «tra breve» perché il segnale della fine, dell'«adesso basta, tutti a casa e state buoni», lo ha dato per l'appunto «L'Espresso» (sempre nel numero del 20 marzo 1988 già citato per Giorgio Bocca). Si è passato il segno, in questo gioco al massacro, dunque c'è da preoccuparsi, dicono loro. Ma è facile leggere, dietro la finta volontà di moralizzazione, che tutto ciò. ormai. non fa e non farà più notizia per 1111 bel po' di tempo. Come fuoco d'artifa:io finale. come botto conclusivo ecco un bel colpo di coda: poeti e scrittori che si prestano a autodenigrarsi, pronti a cogliere l'ultima occasione di autopubblicità. D'ora in poi le occasioni saranno più rare: i clown hanno stancato il nuovo Principe, e il pubblico sta già pensando ad altro. Ha capito che si trattava di ùn tipico travasare «vuoto nel vuoto», come si diceva una volta.
pagina 4 A più voci Alfabeta 107 Simolle eil A una giovane ricca Climene, col tempo vedrò nel tuo incanto Sgorgare di giorno in giorno il dono delle lacrime. Ancora la tua bellezza è un'armatura d'orgoglio; Lo scorrere dei giorni la ridurrà in cenere; Nessuno ti vedrà discendere, splendente, Nel buio della bara, fiera, la maschera calata. A qual promesso destino, nel tuo fiore fugace, Scendi? Quale destino? Che fredda miseria Verrà a serrarti il cuore fino al grido? Niente si leverà per salvare tanta grazia; Il cielo rimane muto mentre un giorno cancella I tratti puri, il dolce carnato che vide brillare. Un giorno può impallidirti il viso, straziarti Il fianco per la fame; un brivido mordere La tua fragile carne abituata al calore profondo; Un giorno, e saresti uno spettro nella ronda Che senza tregua, stanca, per la prigione del mondo Corre, corre, spinta nel ventre dalla fame. Come bestia braccata di notte per le secche, Dove trovare ormai la tua mano nobile e fine, Il portamento, la fronte, la tua bocca dalla piega altera? L'acqua brilla. Tremi? Perché lo sguardo è vuoto? Férmati, carne livida, già troppo morta per morire, Mucchio di stracci abbandonato nel grigio mattino! Apre la fabbrica. Andrai a soffrire alla catena? Rinuncia al gesto lento della tua grazia regale. Presto. Più presto. Andiamo! Presto, più presto. Vai A sera, lo sguardo spento, le ginocchia rotte, vinta, Senza parola; sulla tua bocca umida e pallida si legga Dura obbedienza all'ordine nel disperato sforzo. Andrai, di sera, nella città rumorosa, Per pochi soldi ti farai sporcare la carne schiava, La carne morta, mutata in pietra dalla fame? Essa non freme se una mano la sfiora; Né si ritrae, ti è impedito il sussulto. Il pianto è un lusso a cui si aspira invano. Ma tu sorridi. Per te son favole le sventure. Calma, estranea alla sorte di sorelle infelici, Mai doni loro un benevolo sguardo. Tu puoi, a occhi chiusi, dispensare elemosine; Anche il t_uosonno è puro da questi fantasmi cupi Passano chiari i tuoi giorni al riparo di mura. Mucchi di carta, più duri d'una muraglia, Ti proteggono. Se bruceranno, il tuo cuore, le viscere Saranno preda di colpi che infrangono l'essere intero. Ma quella carta ti soffoca, nasconde cielo e terra, Nasconde i mortali e Dio. Esci dalla tua serra, Nuda e tremante al vento d'un gelato universo. Lampo Che il cielo puro mi mandi sul viso - Questo cielo spezzato da lunghe nubi - Un vento così forte, profumato di gioia, Che tutto nasca, mondato dai sogni: Per me nasceranno le umane città Che un soffio puro ha pulito da brume, I tetti, i passi, i gridi, i cento lumi, Rumori umani, quanto consuma il tempo. Nasceranno i mari, l'ondeggiante barca, Il colpo di remo e i fuochi della notte; Nasceranno i campi, il giavellotto lanciato; Nasceranno le sere, stella che a stella segue. Nasceranno il lampo e le ginocchia chine, L'ombra, l'urto alle svolte della miniera; Nasceranno le mani, i duri metalli rotti, Il ferro morso nell'urlo della macchina. Il mondo è nato: fallo durare, vento, nel tuo soffio! Ma esso muore coperto di fumo. M'era nato in uno squarcio Di pallido cielo verde tra le nubi. Nota del traduttore L'opera poetica di Simone Weil accompagna, con la sua esigua e discreta presenza, l'evoluzione del suo pensiero. La sventura, il senso del destino e delle forze, la capacità e la volontà di inginocchiarsi per accogliere la luce e la grazia sono motivi che troviamo felicemente presenti, come un'eco indispensabile della parola pensata, in una voce poetica che appare fragile eppure sorretta da Prometeo Un animale smarrito e solo, Morso nel ventre da un rovello incessante Che lo fa correre, tremante di stanchezza, Per fuggire la fame che solo morendo sfugge; In cerca della vita per oscure selve; Cieco quando la notte manda le sue ombre; Colpito nel cuore della roccia da freddo mortale; Pronto all'accoppiamento in casuali strette; Preda di déi, dei loro oltraggi che lo fanno urlare. Tale saresti, uomo, senza Prometeo. Fuoco che crei e distruggi, o fiamma artista! Erede dei bagliori del tramonto! L'aurora sale al cuore di luttuosa sera; Il dolce focolare unisce le mani; il campo Ha preso posto dei riar i rovi. Duro metallo sgorga nelle colate, Il ferro si piega ardente e al metallo cede. Colma l'anima un lume sotto un tetto. Come un frutto matura il pane nella fiamma. Quanto vi amò, per farvi un tale dono! Vi dette ruota e leva. O meraviglia! Il destino si piega al lieve peso delle mani. Il bisogno teme la mano che di lontano veglia Sulle leve, signora delle strade. O venti marini sconfitti da una vela! O terra aperta al vomere, sanguinante e nuda! Abisso dove discende una lampada tremante! Il ferro corre, morde, afferra, distende e trita, Docile e duro. Le braccia portano la loro preda, Il pesante universo che dà sangue e lo beve. Fu Prometeo artefice dei riti e del tempio, Magico cerchio per tenere gli dèi Lontani dal mondo; così l'uomo contempla, Solo e muto, la sorte, la morte e i cieli. Egli creò linguaggio e segni. Vanno attraverso il tempo parole alate Per monti e valli a muovere cuori e braccia. L'anima parla con sé e cerca di capirsi. Cielo, terra e mare tacciono per sentire Due amici, due amanti che si parlano piano. Ancora più luminoso fu il dono dei numeri. Fantasmi e demoni dileguano morendo. Sa scacciare le ombre la voce che conta. È calmo e trasparente perfino l'uragano. Ogni stella ha il suo posto nella profondità del cielo; Non mente mai quando parla alla vela. Atto si aggiunge ad atto; nessuna cosa è sola; Tutto si corrisponde sulla giusta bilancia. Nascono canti puri come il silenzio. Talvolta si schiude il sudario del tempo. Grazie a lui l'alba è una gioia immortale. Ma un destino funesto lo tiene piegato. Il ferro lo inchioda alla roccia; la fronte trema; E mentre pende crocifisso, in lui Entra il dolore freddo come lama. Ore, stagioni, secoli gli divorano l'anima, Di giorno in giorno gli si strugge il cuore. Invano gli si torce il corpo sotto la stretta; L'istante fuggendo sperde il suo pianto al vento; Solo, senza più nome, carne preda di sventura. .. quella «forza di movimento» che già Paul Valéry, in una lettera del 1937, riconobbe nel poemetto Prometeo. Lo scatto e la pienezza di queste poesie non hanno radici di ordine estetico o letterario bensì, come sempre accade in Simone Weil, si bagnano di un'energia debole e trasparente, di un sangue che rende ovvio e perfino insolente ogni giudizio critico. I testi qui tradotti fanno parte dei dieci componimenti pubblicati Il mare Mare docile al freno, sottomesso in silenzio, Mare sparso, flutti per sempre incatenati, Massa offerta al cielo, specchio d'obbedienza; Vi tesse ogni notte nuove pieghe La lontana potenza degli astri. Quando il mattino colma l'intero spazio Lo accoglie rendendo la luce in dono. Un lampo leggero si posa in superficie. Si stende in attesa e senza desiderio Sotto il giorno che cresce, risplende e dilegua. Di riflessi serali luccicherà improvvisa L'ala sospesa tra il cielo e l'acqua. I flutti oscillanti e fermi, Dove ogni goccia sale e ridiscende, Restano in basso per sovrano decreto. Bilancia dai segreti bracci d'acqua trasparente Trova in sé la misura, e schiuma, e ferro, Giustizia invisibile per ogni barca errante. Sullo scafo un filo azzurro traccia rapporti Senza errore alcuno nella riga apparente. Mare immenso, sii propizio agli infelici mortali, Stretti ai tuoi bordi, persi sul tuo deserto, A colui che affonda parla prima che muoia. Entra nell'anima, o nostro fratello mare; Donale la purezza delle tue acque giuste. Necessità La ruota dei giorni dal cielo deserto si volge In silenzio agli sguardi mortali, Gola aperta quaggiù, dove ogni ora inghiotte Gridi così supplicanti e crudeli; Tutti gli astri lenti nei passi della loro danza, Unica danza immobile, lampo muto dall'alto, Informi malgrado noi, senza nome o cadenza, Troppo perfetti, senza mancanza alcuna; La nostra collera è vana a quei sospesi. Si calma la nostra sete se ci spezzate i cuori. In desideri e grida la loro ruota ci trascina; I nostri signori splendenti furono sempre vincitori. Strappate le carni, catene di luce pura. Inchiodati senza un grido alla fissità del Nord, L'anima nuda esposta ad ogni piaga, Noi vogliamo obbedirvi fino alla morte. La porta Aprite la porta, dunque, e vedremo i verzieri, Berremo la loro acqua fredda che la luna ha traversato. Il lungo cammino arde ostile agli stranieri. Erriamo senza sapere e non troviamo luogo. Vogliamo vedere i fiori. Qui la sete ci sovrasta. Sofferenti, in attesa, eccoci davanti alla porta. Se occorre l'abbatteremo coi nostri colpi. Incalziamo e spingiamo, ma la barriera è troppo forte. Bisogna attendere, sfiniti, guardare invano. Guardiamo la porta; è chiusa, intransitabile. Vi fissiamo lo sguardo; nel tormento piangiamo; Noi la vediamo sempre, gravati dal peso del tempo. La porta è davanti a noi; a che serve desiderare? Meglio sarebbe andare senza più speranza. Non entreremo mai. Siamo stanchi di vederla. La porta aprendosi liberò tanto silenzio Che nessun fiore apparve, né i verzieri; Solo lo spazio immenso nel vuoto e nella luce Apparve d'improvviso da porta a porta, colmò il cuore, Lavò gli occhi quasi ciechi sotto la polvere. in volume da Gallimard, assieme a Venise sauvée, nel 1968. I primi due (A una giovane ricca e Lampo) appartengono al periodo giovanile, grossomodo tra il 1926e il 1929; il poemetto Prometeo è del 1937mentre li mare, Necessità e La porta sono stati scritti a Marsiglia tra il I94 I e il 1942. Roberto Carifi
Alfabeta 107 Thijs Berman. Qual è stata fino ad oggi la sua opinione sul rapporto tra Heidegger e il nazismo? Emmanuel Lévinas. Sapevo che era legato al nazismo. Recentemente la casa editrice La Manufacture, (nella collana Qui suisje?) ha pubblicato un libro su di me e in generale sul mio pensiero, in cui affermo che è un'onta che - lleidegger che pure ammiro e tra poco ne dirò le ragioni - fosse un nazista. Le fonti delle mie informazioni erano prima di tutto ciò che mi era stato detto sul Discorso di Rettorato. Inoltre, quel che è certo è che nell'intervista a «Spiegel», pubblicata dopo la sua morte, non c'è una parola sull'aspetto più terribile, e non perché riguarda gli ebrei, ma perché riguarda lo sterminio, l'assassinio preordinato, tutto l'orrore del nazismo; e questo va al di là di qualsiasi politica. Su ciò egli non ha detto nulla. La cosa più grave secondo me non è tanto che avrebbe potuto fermarsi prima, questo è un altro problema, ma il fatto che - in pieno periodo di pace - non abbia dato spiegazioni su ciò. Aggiungo che simpatizzava per il movimento e che poi è diventato Rettore. Di conseguenza il libro di Farias non mi ha detto niente di nuovo, se non aspetti di minore importanza. Berman. Eppure Heidegger è stato un filosofo importantissimo per lei. Lévinas. La pubblicazione di Essere e tempo, libro uscito attorno al 1926-1927, è diventata il grande avvenimento del XX secolo, un grande avvenimento della storia di tutta la filosofia. Per un filosofo questo testo è la meraviglia delle meraviglie. Berman. Nel 1929 lei studiava a Friburgo, dove ha assistito ai corsi Ji Husserl e di Heidegger. Lévinas. Sì, ero infatti a Friburgo durante il periodo di transizione tra l'ultimo semestre di Husserl e il primo semestre di Heidegger. Ma poiché non si badava alle inclinazioni dei professori, non potevo sospettare che fosse in qualche modo coinvolto nel nazionalsocialismo. E ciò non traspariva neppure dal suo atteggiamento nei confronti degli studenti: niente lasciava supporre che a quell'epoca egli fosse antisemita. Nei confronti di Husserl aveva un atteggiamento di grande stima. Husserl e sua .moglie erano ebrei convertitisi in un 'epoca, alla fine del XIX secolo, in cui molti consideravano l'ebraismo finito. Per lui probabilmente ciò costituiva un ostacolo; del resto non era legato alla religione ebraica. Per integrare la mia borsa di studio davo lezioni di francese alla signora Husserl, che me l'aveva chiesto per farmi un favore. A volte diceva die Juden, come se parlasse di altri (Lévinas ride), ma non era antisemita e in seguito dovette molto soffrire a causa del nazismo. Avevo l'impressione che il rapporto tra Heidegger e Husserl fosse cordiale e che fosse stato Husserl stesso a chiamarlo per sostituirlo. Husserl inoltre ha pubblicato Essere e tempo nello «Jahrbuch», che era la pubblicazione ufficiale della fenomenologia husserliana: essere accettato in questo periodico era una sorta di consacrazione. D'altro canto Hannah Arendt racconta nei suoi ricordi di Marburgo che la signora Heidegger abbracciò molto presto il nazionalsocialismo. Ma attorno ad Heidegger c'erano sempre studenti ebrei, che non si lamentavano afA più voci Taccuini fatto. Anzi, dopo aver lasciato Marburgo, arrivò a Friburgo con grande solennità, perché tutti i suoi studenti, e tra questi parecchi ebrei, si trasferirono con lui. Arrivò insomma con il suo seguito: è un ricordo molto impressionante. Berman. Nel 1929 lei ha assistito a un incontro, a Davos, tra Heidegger e Cassirer. Che tipo di incontro è stato? Lévinas. È stato straordinario. L'organizzatore di quegli incontri era un professore ebreo di economia politica a Francoforte, di cui ho dimenticato il nome. Aveva uno spirito vivacissimo e concepiva quegli incontri già nell'ambito del riavvicinamento franco-tedesco. Noi studenti eravamo Dmitrij Zykalov, La giubba del maggiore, /986; tempera su legno, cm. 94x47x 18 tutti dalla parte di Heidegger, perché (e Lévinas ride) era questo il pensiero dinamico, non è vero? Berman. E non vedeva in ciò un pericolo? Lévinas. È dopo il fatto compiuto che iniziano i rimorsi. Berman. Qual era la posizione di Cassirer, che cosa rappresentava? Lévinas. Cassirer era un uomo molto aristocratico e di stile alto borghese, con la sua chioma bianca; era un uomo molto raffinato, neo-kantiano e di grandissima cui- • tura, sia filosofica che scientifica ed estetica. Era il grande umanista di quell'epoca. La sua posizione consisteva nel dire che il modo di esistere, di cui aveva scritto Heidegger, era il terminus a quo, era là dove l'umanità inizia, e non era il terminus ad quem, non era là dove l'umanità finisce. Capisce? La visione heideggeriana del mondo era a quell'epoca stupefacente, era la visione dell'essere-nel-mondo; c'era in ciò l'angoscia dell'esistenza, della morte, della fine dell'esistenza con la morte. In altre parole un'esistenza molto drammatica, impegnata nell'essere. Per Cassirer mvece il vero uomo era quello che contempla, che gode dell'arte, colui che vive in una società in cui regna l'eguaglianza universale. È l'uomo che ha superato il particolarismo dell'impegno heideggeriano. Berman. Considerava Heidegger un reazionario? Lévinas. Non •siusava affatto questo termine, un po' peggiorativo; Cassirer diceva: «Voi vedete questa umanità, ma è una umanità ai suoi albori, l'inizio dell'umanità. E la vera umanità è quella verso la quale la storia sta progredendo». pagina s 1 Berman. E come rispondeva Heidegger? Lévinas. Evidentemente si opponeva a questa filosofia ottimista del progresso nella civiltà scientifica, filosofia che ignorava quell'impegno anteriore che era il Dasein, la filosofia dell'Esserci, secondo Heidegger. Era molto bello. Heidegger parlava di Kant e l'interpretava a modo suo, mentre Kant era la specialità di Cassirer. E la specialità di Heidegger era Heidegger ed era Cassirer che parlava di lui. Gli studenti erano molto più sensibili a Heidegger, per lo meno il gruppo di cui facevo parte. C'era Leon Brunschwig che pensava come Cassirer e c'erano studenti della Ecole Normale Supérieure che avevano conosciuto là per la prima volta quella cosa straordinaria che era Heidegger. Eravamo un piccolo gruppo in un angolino, c'era la neve e ancora un po' d'erba, e (ride) era straordinario: ho spiegato loro alcuni aspetti della teoria heideggeriana. Erano molto impressionati. Berman. Come si può ammirare un grande filosofo che è stato nazista? Lévinas. In primo luogo non lo sapevamo e il fatto che Heidegger fosse nazista non toglie molto, secondo me, alle sue pagine iniziali che, secondo noi a quell'epoca, non conducevano al nazismo. E bisogna capire che, con tutto ciò che si sa ora, si può disprezzare Heidegger, ma non basta rifiutarlo! Bisogna anche confutarlo. E questo dovere di confutarlo è un omaggio nei suoi confronti. E allora vi trovate davanti a un'intelligenza straordinaria, forse con dei riflessi diabolici; il diavolo in fondo non è semplicemente il maligno, ma ha anche una intelligenza di prim'ordine. Evidentemente Heidegger non è il diavolo, ma in ogni caso il diavolo è riuscito a penetrare all'interno del suo pensiero. Dunque bisogna cercare nelle sue opere filosofiche, in una ricerca lunga, difficile e incerta, per trovarvi qualche elemento. Forse in Essere e tempo. Di conseguenza è un dramma personale. Vi trovate di fronte un'opera di cui non potete contestare il vigore - non dico la verità! - il vigore intellettuale. Vi trovate di fronte a un uomo che è stato sicuramente tra i più grandi della storia della filosofia, che sono molto pochi, e poi venite a sapere che è stato nazista e non riuscite ad accettarlo. Ma oscillate costantemente tra la necessità di resistergli intellettualmente e l'orrore ispiratovi dal nazismo. Posso perfino affermare che è un dramma del tutto nuovo. Berman. Non ha provato una certa diffidenza nei suoi confronti? Lévinas. Sì, ma molto tardi. E non si può affatto sostenere che dalla sua opera si possa dedurre direttamente il nazionalsocialismo. Non dico neppure che è un'opera che mi è cara, ma è un'opera considerevole, nella quale ci sono alcuni elementi che mi sono estranei. In essa c'è una sorta di virilità (Lévinas si protende in avanti sulla sedia) un po' germanica. E nella sua filosofia c'è un errore che non si definisce nel rapporto che qualcuno ha con gli altri, ma, ancor prima del male che si fa agli altri, nel rapporto con se stessi. Berman. In che cosa consiste questo errore? Lévinas. È molto difficile da spiegare, perché si tratta di una falsa padronanza di sé. Questa padronanza non è completa. Qui il
yagina 6 rapporto con se stessi è più importante del rapporto con gli altri. Ma è soltanto nelle ultime cose che si può individuare ciò, non è affatto visibile immediatamente. Berman. Ed è lo stesso anche per la sua visione della morte? Lévinas. Certo. Ciò che sarebbe conforme alla mia visione delle cose, ciò che io penso essere la visione del mondo giudaico-cristiano è che la morte dell'altro precede la mia. E che la santità consiste nel pensare che la morte dell'altro è una preoccupazione che precede la mia morte. Questa santità è il più alto valore nel mondo che scaturisce dalla Bibbia. Berman. Lei mette al centro di tutto la Passione del Cristo. Lévinas. E anche la passione del popolo ebraico. Nella vita quotidiana ci sono, fondamentalmente, espressioni come «Dopo di voi, signore»; ma non è soltanto davanti a una porta che si dicono. E il fatto che non lo facciamo, il fatto di prendere tutto, fa sorgere la cattiva coscienza, che è un modo di richiamare il valore della santità. Berman. Ed è questo che lei contesta ad Heidegger? Lévinas. No, non è con una parola che si può liquidare Heidegger, ma ci si può chiedere se per lui esiste questa priorità, questo ideale di totale padronanza di sé che è il valore upremo. «Essere padroni di sé e dell'universo, prendersi cura del proprio essere». Allora io dico: sì, ma questo non è l'uomo. C'è la materia racchiusa nell'atomo, gli animali che lottano per la vita, e voi sapete quanto l'egoismo umano sia diffuso. Ma nell'umano c'è questa straordinaria possibilità di sacrificarsi per l'altro, benché, evidentemente, non lo si faccia tutti i giorni. Quando si dice che bisogna prima di tutto guardare se gli altri hanno da mangiare e poi dare la propria parte, ecco per me que ta è la prima definizione dell'umano. E in questo senso mi libero di gran parte della filosofia heideggeriana, il che non è così facile, perché, nonostante tutto, rappresenta la maggior parte della esperienza empirica. Ma il tentativo di vedere l'uomo nella sua possibilità di santità è opposto alla preoccupazione iniziale di autoaffermazione. Secondo me l'uomo si afferma dandosi. In questo senso si potrebbe quasi dire che è una padronanza ancor più grande. Fino al sacrificio. Ma, ripeto, non è con il libro di Farias che si può liquidare Heidegger. (Ride) Purtroppo! Molti dicono: «Ah, ora ... » E non ora bisogna confutarlo. E la questione è tanto più delicata in quanto non si tratta di confutare affermazioni maligne, perché non ci sono simili affermazioni. Berman. Comunque Farias ha dimostrato chiaramente che Heidegger aveva mentito sul suo passato. Lévinas. Non lo nego. Non dico che Farias abbia detto cose irrilevanti, non ci sono solo malintesi nel suo libro. Ma non c'è una sola parola di filosofia. Non ho bisogno di lui per dire che Heidegger è colpevole. Considero un dato acquisito che non ci sia una parola nelle sue giustificazioni, non una parola sulla Shoah, come se non fosse esistita. Neanche una semplice parola di rincrescimento, per dire che in quel mondo c'era almeno una cosa che ... e che non era soltanto perché si trattava di ebrei. Per non parlare di tutti gli orrori. Una delle scene più terribili nel film di Lanzmann, quella del parrucchiere che era costretto ad acconciare la propria sorella, credo, prima di ... (silenzio). Berman. E tante altre scene. Lévinas. E benché il film di Lanzmann sia molto forte, non offre immagini false, presenta storie vere. Ma Heidegger non ha detto niente. Al contrario, il filosofo Philippe Lacoue-Labarthe ha trovato un testo di Heidegger in cui si afferma che l'agricoltura meccanizzata e motorizzata è secondo lui un fatto molto grave, perché è contrario all'invasione del mondo dell'essere da parte della tecnica. Afferma inoltre di considerare questo cambiamento grave quanto la <: Apiù voci camera a gas - almeno riconosce l'esistenza delle camere a gas - quanto il fatto di affamare i paesi sottosviluppati o di costruire la bomba atomica. Queste quattro cose sono messe sullo stesso piano. L'olocausto è dunque la stessa cosa dell'agricoltura meccanizzata. È un giudizio di valore. E naturalmente il fatto che gli americani abbiano costruito e usato la bomba all'idrogeno fa parte dei crimini politici. Ma l'olocausto è al di là della politica, è diabolico, è il male puro, la pura cattiveria. Ecco. Che altro c'è? Berman. Conosce le opere di Heidegger su Abraham e Sancta Clara? Era un pensatore cattolico del XV II secolo violentemente antisemita. Ha scritto, ad esempio: «Eccettuato Satana, gli uomini hanno come grandi nemici solo gli ebrei. Per le loro credenze essi meritano non· solo la forca, ma anche il rogo». Heidegger fa un elogio di Abraham a Sancta Clara nel 1910 e ancora nel 1964. Scrive: «È importante fare attenzione al modo in cui Abraham dice quello che dice. Avremo allora un'idea del singolare potere e della ricchezza del suo linguaggio». Lévinas. Sì, ma non cita mai quei testi antiria è più ristretto del campo della debolezza. Di conseguenza posso perdonare molte cose. Ma Heidegger è stato assolutamente indegno per il modo in cui si è scusato con la signora Husserl per non aver partecipato, nel 1937, ai funerali del marito, che era pur stato suo maestro. Ha giustificato il suo comportamento come «umana debolezza». Si è scusato per la natura umana che è finita. Non ha avuto vergogna di dire che si trattava di un momento di debolezza, mentre su tutto il resto ha taciuto. È imperdonabile. Berman. Che importanza avrà secondo lei questa ricerca di Farias? Lévinas. Ha trovato fatti che non si conoscevano e in ogni caso costituisce una memoria. Forse la cosa migliore è la ripercussione che ha avuto il libro. Le cose si dimenticano, capisce? Ma d'altra parte avrà un destino difficile perché ha ferito molte persone rimproverando loro di essersi ingannate a proposito di Heidegger, mentre non si erano ingannate affatto. Berman. Crede che il nazismo sia stato sconfitto nel pensiero del XX secolo? Lévinas. È difficile a dirsi. C'è Le Pen ... Oleg Vasiliev, Ricordo, 1987; olio su tela, cm. JOOxl30 semiti e parla solo della qualità del linguaggio di quello scrittore. Ho conosciuto Heidegger: nei suoi rapporti e nei suoi libri non c'è nessun legame con l'antisemitismo di Abraham. Berman. Eppure nel 1933 ha scritto lettere di denuncia, nelle quali si trova questa frase: « ... è strettamente legato con l'ebreo ... » Lévinas . ... Fraenkel, sì, lo si cita sovente (ride), ma era il momento dell"'hzione e, a mio avviso, il suo silenzio è molto più sconfortante di ciò. Non voglio giustificarlo, ma bisogna anche dire che in un paese con un regime totalitario la morale non ha affatto le stesse possibilità che in un paese di diritto. Il criterio grazie al quale si possono tollerare atti indegni è molto più vasto quando la gente vive in un regime di terrore permanente. Ciò significa che non si possono condannare così facilmente azioni di questo tipo. Certo, si tratta di prudenza o di vigliaccheria, ma vigliaccheria è un altro termine per significare debolezza. E in un regime totalitario il campo della vigliaccheMi chiede se il diavolo è in terra. E io non posso dirlo. Berman. Perché non lo sa? Levinas. Non lo so. Mi sta chiedendo se il Messia è venuto! Berman. Le chiedo anche: ci sono elementi dell'ideologia nazista penetrati nel pensiero di persone del XX secolo, che però non si considerano affatto naziste? Levinas. È un problema del tutto empirico. Certo questo non è un momento in cui queste idee trionfano, ma possono rinascere, ritornare, non mi stupirebbe. Altrimenti, davvero, il Messia sarebbe venuto. E forse non verrà mai. Ma dobbiamo capire che il bene non è ricompensato, che esso costituisce una ricompensa di per sé. La religione è senza promesse. Riprendo qui l'idea di Fackenheim, un filosofo ebreo che vive in Israele, che dice: molti ebrei che erano nei campi hanno visto che Dio non è intervenuto. È forse una ragione per abbandonare la Torah, per farsi beffe della Legge? L'uAlfa beta 107 I manità oggi si trova in una situazione estremamente strana, con tutti quelli che sono morti, con il trionfo del male. Ma la sofferenza non è una ragione per abbandonare l'obbligo al bene. Berman. Ciò mi sembra molto vulnerabile. Lévinas. Ma è assolutamente evidente. Per il fatto di essere usciti dai campi, ci si deve ora legare agli assassini? Non c'è happy end. Berman. E se la criticassero dicendo che lei offre un'etica da cui non si possono trarre immediate conseguenze politiche? Lévinas. Il politico richiama l'idea del numero e di conseguenza io non posso dare tutto al primo venuto, non è vero? Devo pensare alla distribuzione. E se penso alla distribuzione ecco che subito appaiono tutte le letture di tutti i saperi, tutte le idee generali che sono necessarie. Ma la necessità di operare una distribuzione presuppone, malgrado tutto, questa prima esperienza che io chiamo l'esperienza del volto umano, a cui si deve tutto. Parlargli è già l'universo. Berman. Poco fa parlava di un filosofo ebreo. Secondo lei, che cos'è un filosofo ebreo? Lévinas. È come tutti gli altri filosofi, il che significa che è costretto a render conto. Nient'altro, e se ha delle consolazioni, malgrado ciò che dice la ragione, è problema suo. E certamente un filosofo ebreo può anche basare la sua filosofia su altri dati provenienti da un'altra tradizione. Berman. C'è un'altra domanda da porre: che cos'è un filosofo non ebreo? Lévinas. La filosofia parla un linguaggio greco. Berman. Allora lei è d'accordo con Heidegger? Lévinas. Sì, solo che io chiamo greco il linguaggio che si parla in Europa. Nelle università giapponesi c'è la stessa struttura del discorso. Ci sono i progetti, i dati, le conseguenze e un discorso comunicabile a tutti. Ritengo che sia l'eccellenza del linguaggio europeo ad essere arrivata fin là. Berman. In Francia lei non è mai stato al centro de~'attenzione come Sartre. Si direbbe quasi che lei sia più noto all'estero. Come mai? Lévinas. Sartre a suo modo era geniale. Ero alla Sorbona, ora sono in pensione da dieci anni, ma i miei libri vendono poco. E la Francia è un paese molto ricco di geni. Berman. Jacques Derrida, in una sua lezione, ha detto recentemente: «La stupidità è la sola proprietà dell'uomo cui è ancora possibile .çredere». Questa osservazione è contraria a' ciò che lei crede? Lévinas (ridendo). È un po' facile, ma va bene. Io lo dico in un altro modo, al contrario, dico sempre che l'uomo è un essere irragionevole. Irragionevole. Ma il fatto che l'etica non sia praticata non dimostra che essa non presieda al comportamento umano. C'è un vecchio midrach nel Talmud, che dice: quando l'uomo stampa i soldi usa un cliché e con un cliché fa qualsiasi tipo di moneta. Tutti i pezzi sono simili. Ma quando Dio ha creato l'uomo, come modello aveva la propria immagine. E tutti gli uomini sono diversi. Non perché hanno un colore di capelli diverso, o ciascuno ha un naso con una propria forma, non perché hanno attributi particolari a ognuno, ma perché ciascuno è «io». Dire «io» significa affermare la propria singolarità, la propria unicità, come se si fosse altro dal genere umano. È un isolamento ingiustificato, ingiustificabile, non è vero? Allora il Talmud aggiunge: è per questo che possiamo dire che l'universo è creato da me. E un talmudista della Lituania aggiunge: «Sì, e ciò significa che sono responsabile di tutto». Berman. Ma è una responsabilità terribile. Lévinas. E questa è la dignità umana. (Ride) Ecco. Traduzione di Luisa Cortese
Alfabeta 107 P iù giro per l'Italia a parlare (criticamente, spero) dell'etica di Aristotele e dei neo-aristotelismi moderni (dalla politica/ Philosophy alla praktische Philosophie), e più mi rendo conto di venir ascoltato, certo con la garbata attenzione che si deve a un serio specialista, ma anche con la ferma sfiducia dovuta a chi parla della, ma non nella tradizione: in essa sta la certezza, e metterla in questione può dar luogo a un utile esercizio intellettuale, non certo a solide verità. Un aggiornato ossequio, mi chiedo, alla voga dell'ermeneutica gadameriana? Ma no, qualcosa di più vecchio e radicato, di cui quell'ermeneutica è magari recepita come una versione sofisticata: il peso della buona tradizione cattolica, in cui Aristotele, per via scolastica, ha A più voci Taccuini da sempre il suo diritto di cittadinanza come auctor indiscusso, e alla quale in questo paese non si cessa di rivolgersi, lo si sappia o no, nei momenti difficili. E non solo in questo paese. Ho stentato a lungo a capire perché in Germania, per ricostruire un'etica sulle rovine della dialettica hegeliana, ci si dividesse tra i pochi fautori di un più ovvio ritorno a Kant (Riedel, Vollrath) e i più numerosi ed agguerriti fautori di una ripresa di Aristotele. Eppure anche qui, almeno in prima approssimazione, la risposta era semplice e di fatto - se non sbaglio - incontrovertibile: protestanti i kantiani, cattolici al solito gli aristotelici. Un brutto colpo per chi ha ingenuamente creduto, come me, che dopo secoli di .. laicizzazione tutto ciò non avesse ancora un peso determinante. Non sarò comunque solo, pensavo. Sorpresa! Trovo chi, fra gli amici filosoficamente più vicini, scrolla le spalle di fronte alla vecchia controversia fra protestanti e cattolici solo per schierarsi armi e bagagli tra le file - che gli sono peraltro allogene - di una tradizione ancor più arcaica, come quella di un profetismo ebraico riproposto, in piena legittimità ma, per chi non le appartiene, in modo almeno un po' bizzarro per esempio da Lévinas. Oppure trovo proprio tra gli amici e proprio su «Alfabeta» chi mi garantisce che quello di Heidegger è in realtà un nazismo simpatico, un po' agreste un po' pastorale (i pascoli dell'Essere), che non ha a che fare con l'aborrita età della tecnica ma TomaRobbeS iamo all'atto secondo (dopo Le miroir qui revient, uscito nel 1985) di una nuova serie che Robbe-Grillet ha posto all'insegna del romanesque, sentendo così il bisogno di distinguerla dal roman propriamente detto. Si può parlare infatti di Angélique ou l'enchantement (Paris, 1988) come di un genere misto, senza esitare, magari, a sollevare lo spettro manzoniano del «romanzo misto di storia e di invenzione». Così è infatti, Robbe-Grillet in questa sua nuova veste si compiace di dare pieno spazio a ricordi, memorie, spunti autobiografici, riflessioni, quasi in una specie di «letteratura-verità». E se nel romanesque precedente egli attingeva dal materiale familiare dell'infanzia e dell'adolescenza, che inevitabilmente si presenta già nobilitato dal filtro della distanza, in questo secondo lavoro non perde tempo, fa affluire le circostanze immediate. Chi ha qualche dimestichezza con lui sfoglia trepidante le pagine del libro, nella speranza, o nel timore, di vedersi citato per qualche incontro, magari solo di natura pubblica (dibattiti, conferenze). Infatti sono tirati in ballo Eco, Tom Bishop, altri colleghi, anche del mondo accademico, che Robbe-Grillet incontra nei suoi frequenti soggiorni presso le università di mezzo mondo; e soprattutto ci sono tanti affettuosi riferimenti a Barthes, anche se non di rado accompagnati da una crescente presa di distacco critico. E c'è anche l'editore Lindon, con cui l'autore confessa di aver fatto molte prosaiche escursioni alla ricerca di un castello in Normandia da acquistare come inevitabile casa di campagna. Robbe-Grillet, insomma, si compiace di riversare totalmente la vita nell'opera, dimostrando che tutto può servire, che anzi non c'è brano di produzione narrativa, o testuale che dir si voglia, il quale non abbia le sue radici, appunto, nella vita di tutti i giorni. Ma l'assunto è perfettamente rovesciabile nel suo esatto contrario. La vita, la verità del documento non bastano, o tutt'al Renato Bari/li più costituiscono una condizione necessaria, non certo sufficiente. Il diario, il giornale intimo si avvolge nella sua inconcludenza, ovvero, per usare la parola tematica proposta dall'autore stesso, nella sua incertezza, che non conduce a nulla. La «storia» non è una buona generatrice di valori letterari, come del resto diceva già a suo tempo Aristotele. Perché dalla condizione necessaria si passi a quella sufficiente, occorre lo scatto di un quid; e la scommessa di Robbe-Grillet, in questi romanesques, è di farci assistere in vitro a un tale scatto. La piattezza del referto tratto dalla vita di tanto in tanto si concentra, si irrigidisce, subisce una carica «eccessiva» (in netta contrapposizione alla incertezza di cui si diceva prima). E allora abbiamo splendidi squarci di narratività, di quella buona, di pura marca robbe-grillettiana, dove cioè appaiono al diapason le virtù di iper-oggettività, o di iper-realismo, che si rovesciano poi anche in irrealismo totale. Dalla dimensione del vero, del prosaico, del banale, ci trasferiamo in quella del magico, o appunto dell'eccessivo, quasi per magia, per tocco discreto di una bacchetta incantatoria. O è come se l'autore venisse apponendo qua e là delle virgolette di sospensione, degli indici di intensificazione. In linguaggio più tecnico, potremmo parlare di un intervento di «intenzioni» che si rivolgono a quello stesso materiale oggettivo biografico, ma mettendolo in forma, concentrando su di esso ossessioni, incubi, attese, proiezioni. Per tali aspetti, nulla di sostanzialmente nuovo, all'interno della «fabbrica» robbegrillettiana. Il fatto nuovo è, per così dire, di natura trasversale, in quanto nei «romanzi», da buon «fabbro», egli sapeva che quei mirabili spezzoni di magia creativa, occorreva pure distribuirli secondo un certo ordine, assegnando loro un montaggio, una costruzione, fino a ritrovare una totalità ben organizzata, un meccanismo ben congegnato. Ora invece egli si risparmia, almeno per il momento, una simile fase successiva. È come quando in un procedimento chimico ci si ferma allo stadio dell'elettrolisi, scindendo i vari nuclei molecolari, ma lasciandoli errare nel liquido allo stato sciolto, magari in attesa che si incontrino da sé e diano luogo a nuovi composti. Fuor di metafora, dopo i momenti di tensione e di «intenzione», offerti dimostrativamente al lettore, oppure emersi da sé, per forza spontanea, il narratore arretra nel terrain vague della prosaicità, là si riposa e riprende a vagabondare, in attesa del prossimo spunto creativo. Per questo appare giusto parlare di un genere «misto», precisando però che una tale eterogeneità è lucidamente prevista, dal nostro autore, fino a proporre davvero una nuova dimensione di ricerca. Viene fatto di pensare anche a certe proprietà matematiche, per esempio ai numeri complessi, che vedono la compresenza di numeri reali e di numeri immagioori (se ben mi soccorrono i ricordi scolastici). Un'altra caratteristica singolare di questo stato elettrolitico, più che mai «aperto» o non-finito, raggiunto da Robbe-Grillet nei due romanesques, è che così egli non si predispone soltanto per il futuro, offrendo i materiali per eventuali nuove creazioni; ma getta anche una luce retrospettiva sull'opera precedente. Questi nuclei sciolti, infatti, vanno a illuminare i romanzi passati, li bombardano quasi coi loro nuclei scatenati, come in un microscopio elettronico, ne fanno emergere aspetti imprevisti. L'intertestualità diventa una pratica effettiva, concreta, quasi da toccar con mano. Il Voyeur, la Jalousie, Dans le labyrinthe risorgono, messi in forma, affrontati da punti di vista impensati e inediti, confermando con ciò la natura trasversale di questa produzione recente, quasi che essa non avesse un corpo proprio, ma dovesse vivere di vita parassitaria alle spalle del passato, e magari anche del futuro. Se poi ci chiediamo quali siano le «intenpagina 71 piuttosto con i Wandervògeln (i verdi non sanno chi fossero, ma dovrebbero) e con l'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, insomma col romanticismo prenazista e preciellino che nulla ha a che spartire con l'odioso moderno. A questo punto ho capito tutto, e non mi consolano affinità «inattuali». Farò anch'io le mie scelte, fra drusi e sciiti, fra Amish e neo-gnostici. Il giorno in cui parlerò di Aristotele come erede di Zoroastro avrò probabilmente un'attenzione plti partecipe; potrò anche dire che la Verità è nuda come i fachiri indiani. La ragione sarà tornata al suo posto, di ancella della Tradizione. Invece che su «Alfabeta», scriverò finalmente su Alpha e Omega. zioni» che consentono a Robbe-Grillet di rivedere e correggere i materiali del suo «vissuto», egli stesso ci aiuterebbe nel dare la prevalenza alle ossessioni di specie sadica, ovvero, in termini freudiani, alla coppia dinamica eros-thanatos. Ma appunto il genere misto, ovvero il numero complesso, gli consentono di inseguire questa ossessione lungo tutti i salti e i piani dimensionali. Egli ci narra così delle prime letture dell'infanzia, di certe immagini (bagni di sangue, storie di harem, turcherie ecc.) che hanno risvegliato l'eros della sua lontana fanciullezza. I pretesti esterni di tanto in tanto divengono «testi», intenzionati dall'autore in proprio o da uno dei suoi molti prestanome e alter ego, tra i quali in primo luogo Henri de Corynthe, lo stereotipato alto ufficiale che segue codici d'onore, di galanteria, ma anche di sadismo propri d'altri tempi. Ed ecco allora che risulta «intenzionata» l'Angelica del titolo, corrispondente, beninteso, a un fantasma errante, pronto a cambiare nome, circostanze, destino, anche se più o meno tragico, legato a oscure vicende di violenza, di stupro, di morte. La lingua francese ha un vocabolo intraducibile, per indicare questa capacità di «ritornare», insita in simili fantasmi ossessivi, definendoli appunto come dei revenants. E Angélique ou l'enchantement si trasforma in una gigantesca macchina per dimostrare come avvengono, questi ritorni, queste pratiche incantatorie, sul filo dei ricordi privati come anche su quello delle reminiscenze culturali (entrano in gioco, infatti, i riferimenti alla saga dei Nibelunghi, o certe immagini terrifiche riguardanti Caterina la Grande, nonché le perfidie sadiche del Nazismo). La storia partorisce l'invenzione, e questa, dopo essersi esibita in un bellissimo acuto, ci riconduce alla prima, in attesa dell'affondo successivo, risparmiandosi la fatica di creare una pretestuosa cucitura logica tra i vari «eccessi».
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