pagina li to degli oggetti prende la parola e, diventando colloquiale e-interattivo, si definisce come una forma di relazioni nel tempo, quasi a voler recuperare nella quarta dimensione temporale ciò che ha perduto nella terza dimensione spazi.aie. I ntorno a queste superfici informative e colloquiali lo spazio e il tempo si riorganizzano, o forse è meglio dire si disorganizzano in una molteplicità di regioni spaziotemporali diverse, collegate alla diversa performatività dei sistemi di comunicazione e di visione adottati: dallo spazio-tempo dei movimenti del corpo a quello della rete planetaria delle comunicazioni, cioè dalla relazione distanza-tempo-fatica del primo, al senso di potenziale ubiquità che dà il secondo. Da ciò che vedo con i miei occhi e tocco con le mie mani, alla visione delle galassie e della struttura più intima della materia. E infine, l'apertura di una nuova dimensione della realtà: la produzione di mondi simulati, la cui «materialità», o meglio ciò che percepiamo a tutti gli effetti come la loro materialità, è pura informazione. Ambienti prodotti da un astuto gioco con i nostri sensi e la nostra memoria, in cui l'effetto può essere la riproduzione di un luogo esistente o la proposta di uno spazio nuovo, costruito attorno a delle «leggi di natura» di una natura inventata. Mondi reali, se per realtà intendiamo qualcosa che esiste al di fuori di noi, a cui ci possiamo avvicinare e in cui possiamo entrare, che possiamo ispezionare e analizzare, di cui possiamo reiterare l'esperienza, su cui possiamo confrontarci con l'esperienza di altri. Ma al contempo, mondi senza fisicità (se si esclude la fisicità delle memorie che li generano e delle interfacce che ce li rendono esperibili). Nella nostra esplorazione della realtà, ciò che emerge dall'insieme di queste esperienze è qualcosa di difficilmente affrontabile con le strutture cognitive e con i modelli di pensiero che la nostra recente tradizione culturale ci ha trasmesso. In particolare, l'idea di oggetto ha fino ad oggi corrisposto a qualcosa di profondamente radicato nella materia. Ed è dalla stabilità e riconoscibilità di questa materia, che l'oggetto ha tratto la sua identità e il suo carattere di permanenza. Oggi, viceversa, dobbiamo saper riconoscere gli oggetti e la loro forma anche nella dinamica delle loro relazioni immateriali, anche se a supportarli è una materia assai più fluida di quella che avevamo imparato a conoscere. Parafrasando Miche! Serres, si può forse dire che si tratta di uscire dal mondo solido di Marte e di entrare in quello fluido di Venere. Oppure, considerando più da vicino i caratteri del sistema tecnico che produce questo nuovo ambiente artificiale, si tratta di aggiornare i nostri strumenti di analisi alla nuova fase in cui esso è entrato. Ciò che oggi percepiamo come un senso di dematerializzazione della realtà è infatti qualcosa che probabilmente non dipende tanto dall'effettiva diminuzione della quantità di materia con cui entriamo in relazione, quanto dall'inadeguatezza dell'idea di materia che abbiamo ereditato dalla fase tecnica precedente, dalla difficoltà a riconoscere la nuova, meno invadente e più fluida fisicità degli oggetti. In altre parole: misurati in tonnellate, i materiali in circolazione nel sistema merceologico attuale sono certamente di più che in passato. Ci sono indubbiamente più auto e più orologi che cinquant'anni fa. Ciò non toglie però che la materialità dell'auto o dell'orologio in plastica attuali si presentino con una fisicità diversa, più leggera che in passato. Oppure: indubbiamente dietro ogni oggetto interattivo e colloquiale ci sono dei supporti materiali che, ommati, costituiscono un quantitativo ingente di materia. Ma è altrettanto indubbio che il loro altissimo coefficiente prestazionale (cioè il rapporto prestazione fornita/materia impiegata) fa sì che nella nostra sfera percettiva sia la prestazione a dominare, mentre la materia resti in secondo piano, quasi come se i materiali fossero le invisibili macchine da scena della rappresentazione cui siamo chiamati ad assistere. L'aspetto a mio parere decisivo nella produzione di questo nuovo ambiente artificiale la cui fisicità sembra sfuggirci è un cambiamento di scala nella manipolazione tecnica: continuando nel suo sviluppo la tecnoscienza ha spinto la sua capacità di intervenire e di alfa bis. 2 controllare i processi a delle scale dimensionali che eludono ogni e perienza sensoriale diretta. E questo ha delle conseguenze notevoli sulle percezioni che possiamo averne dei risultati. Partiamo dal passato. Tradizionalmente ogni successiva trasformazione di un materiale, per esempio del legno o della pietra, portava a dei materiali diversi, ma sensorialmente riconducibili al materiale di partenza. Similmente, un motore poteva sviluppare una grande potenza, un treno poteva muoversi a gran velocità, ma entrambi erano ancora leggibili come dei multipli di qualcosa di noto perché verificato alla nostra scala (la potenza della nostra «macchina corporea», la velocità della nostra corsa). Ed ancora: una catena di montaggio riorganizzava il tempo e lo spazio della fabbrica attorno alle esigenze della macchina, ma si trattava pur sempre di uno spazio-tempo omogeneo col nostro. Insomma, l'uomo, con le sue misure fisiche e con le sue prestazioni neuroniche e sensoriali restava al centro dell'universo dei suoi strumenti, se non altro perché continuava ad esserne l'unità di misura. Se veniamo ora ai prodotti generati dall'attuale tecnoscienza ci rendiamo conto che non è più così: comunicare con un interlocutore nella stessa città, in un altro paese o in un altro continente non permette di «sentire» in alcun modo la distanza. Interrogare un calcolatore con un quesito banale, o porgli un problema di grande complessità, non porta a differenze apprezzabili nei modi e nei tempi della sua risposta. Organizzare un processo produttivo con le più nuove tecnologie porta a forme di organizzazione spaziale e temporale la cui struttura perde di visibilità, in quanto scompare nella logica nascosta delle reti di comunicazione. Manipolare in profondità la materia, «costruire un materiale» intervenendo sulle molecole e sugli atomi, porta ad un risultato rispetto al quale esperienza e sensibilità sensoriale non garantiscono più alcuna riconoscibilità. Producendo un numero potenzialmente infinito di materiali di volta in volta diversi (materiali compositi, «materiali su misura»), cade la possibilità di identificarli. Di legare cioè la percezione empirica che ne possiamo fare con il richiamo alla mente di un nome noto e il collegamento di questo nome ad una serie di altre qualità fisiche e culturali acquisite in precedenti esperienze. La differenza tra una superficie di legno e una di «materiale ignoto», l'origine del senso di profondità culturale che produce l'una e l'impressione di bidimensionalità dell'altra, sta proprio qui: la prima porta .con sé, come qualità intrinseca, come sua specifica identità, tutto ciò che nella storia dell'uso del legno si è sedimentato culturalmente. La seconda, viceversa, non può essere altro che ciò che mostra nel momento in cui la osserviamo: uno schermo sulla cui superficie sono proiettati dei segni. Da parte loro, gli oggetti, investiti dal trend dell'integrazione delle funzioni e della miniaturizzazione dei cdmponenti che la nuova qualità dei materiali rende possibile, tendono a diventare più densi, a perdere di trasparenza (la trasparenza meccanica per cui tutte le parti sono leggibili nella loro individualità e nei loro reciproci rapporti di interdipendenza). E, diventando opachi, ci appaiono illeggibili con i nostri consolidati strumenti di lettura. Un orologio meccanico e uno elettronico sono entrambi delle macchine e prestano un servizio analogo. Ma i diversi principi su cui si fonda tale prestazione, la diversa scala dimensionale dei «meccanismi» e il diverso ordine delle velocità dei movimenti (i movimenti degli ingranaggi da un lato e quello degli elettroni dall'altro), fanno sì che la percezione che si ha di essi sia completamente diversa. Se il primo ci rimanda a un gioco di componenti macroscopici e alla «grammatica» e alla «sintassi» del funzionamento meccanico che abbiamo da tempo imparato ad apprendere, il secondo ci propone non solo un funzionamento basato su fenomeni meno noti, ma, soprattutto, un funzionamento fondato su fenomeni la cui specificità (ciò che fa di un orologio un orologio e di una calcolatrice una calcolatrice) sfugge alla nostra scala dimensionale. Ma al di sotto di una certa dimensione e al di sopra di una certa velocità per i nostri sensi non c'è più né dimensione né velocità. In questo sta l'origine del senso di smaterializzazione che percepiamo: l'oggetto nella sua fisicità ha Cosae'è di vero Alfdbeta 106 poco da raccontare. Il centro dell'attenzione è tutto spostato sul gioco delle prestazioni che silenziosamente mette in scena. Negli ultimi decenni, dunque, l'ambiente, artificiale ha subito una profonda metamorfosi: da un sistema di oggetti che potevano essere letti come un vocabolario di parole congelate nella materia (oggetti che parevano raccontare una storia che veniva dal loro profondo, dalla forte fisicità delle loro strutture e dei loro meccanismi) si e arrivati a qualcosa che possiamo percepire come un continuum di superfici comunicative, la cui identità è quella del messaggio che su di esse viene proiettato o della performance che esse producono. Di fronte a questa constatazione si può legittimamente avere nostalgia per il passato, sentirsi attratti per quella profondità, quel peso e quello spessore perduti. Ed è anche possibile far diventare questa nostalgia una componente del progetto: citare lo spessore, alludere alla profondità, simulare il peso. Ciò che però non è più possibile è produrre davvero quello spessore, quella profondità e quel peso. Ma se la profondità della materia sembra scomparire, se gli oggetti sembrano restringersi a delle superfici, ciò non significa essere condannti alla superficialità. Il collegamento tra i termini superficie e superficialità è stato il portato di una fase tecnica e culturale in cui quello che si realizzava era un mondo di strutture rispetto alle quali la superficie, la «pelle» degli oggetti, era un elemento di disturbo, un filtro opaco che impediva di arrivare alla verità profonda dell'oggetto. Oggi che dietro la superficie degli oggetti non c'è più nulla di veramente vedibile, vi è forse un'altra profondità che va ricercata. Una profondità che potrebbe essere riportata alla profondità di un testo letterario: un libro, in fondo, è un insieme di superfici, e le pagine stampate sono una particolare forma di trattamento superficiale capace di comunicare al lettore sensazioni di grande intensità. Conferire profondità culturale ad un mondo di superfici: forse questa, in sintesi, è la sfida che l'evoluzione del sistema tecnico ha lanciato alla cultura del progetto. nellademateria • azione? S embra che il prefisso «post», con tutte le sue svariate (e assai bizzarre) applicazioni, cominci ultimamente a cedere il passo al prefisso «de». Dopo aver parlato in questi decenni, per così dire, in post, è assai probabile che nel futuro si parlerà in de. La dinamica delle mode terminologiche lo impone, e l'esperienza dimostra quanto sia difficile resistere alle mode nella nostra società. Dopo il post-industriale, il post-moderno, la post-histoire, il post-strutturalismo, si stanno aprendo definitivamente strada la de-costruzione, la de-secolarizzazione, la de-strutturazione, la deindustrializzazione, la de-regulation. A quest'ultima serie di espressioni dobbiamo aggiungere quella di de-materializzazione, che sta riscuotendo, al giorno d'oggi, un grande successo in diversi ambiti del sapere (e anche del non sapere). Va detto però che tra l'uso dei prefissi «post» e «de» c'è una difTomlis Maldonado .. ferenza. Mentre «post» era un espediente di comodo - a mio parere assai ambiguo - per descrivere riduttivamente la dinamica storica, il prefisso «de», soprattutto nel caso di dematerializzazione, solleva problemi che non è possibile prendere alla leggera. Certamente l'idea di dematerializzazione non è nuova. Basta ricordare che ha avuto un ruolo decisivo nei dibattiti epistemologici a cui hanno dato origine i moderni sviluppi della fisica. Era centrale, come si ricorderà, nelle controversie intorno alla nozione di campo e anche in alcune interpretazioni della scuola di Copenhagen sulla teoria dei quanti. Sull'argomento si sono soffermati, tra gli altri, filosofi della scienza come Popper, Bunge, Mc Mullin e Hanson. Ma queste controversie avevano un significato soprattutto nell'ambito della fisica, e in particolare della microfisica. La tematica ora è uscita da questo specifico contesto e si cerca di generalizzarla. Vi sono sociologi, ingegneri, fiÌosofi, economisti, giornalisti e analisti di mercato che utilizzano il termine dematerializzazione alla scala, questa volta, della macrofisica, del nostro ambiente macroscopico, cioè alla scala dei nostri sensi. In questa accezione, lo ritroviamo usato spesso, per esempio, nello studio commissionato di recente dalla Pirelli a un gruppo qualificato di esperti, relativo alla scienza e alla tecnologia verso il secolo XXI. In alcuni capitoli di
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