Alfabeta 106 L'intellettuale raccoglie l'eredità della cultura umanistica del Rinascimento, e la cultura umanistica non si definisce solo in relazione allo studio del latino, del greco, della letteratura; la cultura umanistica è tale perché opera una problematizzazione generalizzata (è questo il gran fenomeno del Rinascimento). Nel Medioevo la cultura era come una cattedrale, un duomo perfetto costruito con la ragione che veniva dai Greci e con la teologia giudaico-cristiana. Nel Rinascimento c'è la rottura, il conflitto fra la tradizione dei Greci e quella giudaico-cristiana: nella tradizione del pensiero greco la fonte principale di tutto, il mistero fondamentale, è la physis, il mondo fisico, dalla physis sono nati gli dei; nella tradizione giudaica è Dio che crea il mondo fisico: sono punti di vista totalmente opposti. Il momento in cui si ricomincia a pensare che il mistero profondo è la physis coincide con l'inizio della problematizzazione di questo mondo: è la nascita della scienza moderna. C'è dunque un conflitto tra la tradizione greca e la tradizione cristiana, ma esiste anche un conflitto «interno» fra il Vangelo e il Concilio papale che genera la rottura della Riforma. Tutti questi conflitti fanno l'originalità della cultura europea, di una cultura che io definisco «dialogica», che non è cioè fondata unicamente sulla complementarità ma anche sull'antagonismo tra le sue componenti [... ]. Intellettuale è colui che assume l'universo della problematizzazione, che inizia nel Rinascimento e prosegue in tutto lo sviluppo del pensiero europeo; è colui che assume Dio, l'uomo, la natura, la città, la politica, la giustizia, la verità come problemi. Questi sono i problemi dell'intellettuale. Fino alla fine del Settecento la quantità di conoscenza, di informazione, poteva esssere incorporata nella mente di un solo individuo colto perché non esisteva quella gigantesca quantità d'informazione e di conoscenza che si è sviluppata più tardi con la scienza [... ]. Nessun Pico della Mirandola oggi possederà mai la totalità del sapere scientifico. Di più: questo sapere scientifico è parcellizzato tra varie discipline; c'è separazione tra discipline umanistiche e discipline scientifiche, tra scienze umane, scienze naturali, scienze fisiche e scienze biologiche, ecc. In questa cultura della compartimentazione non è più possibile pensare i problemi fondamentali dell'uomo nella natura, nella società, nel cosmo. Perché? Perché la scienza sociale non ha bisogno della nozione di uomo: può fare della demografia, dell'economia, della psicologia, della sociologia, può fare tutto senza il concetto di uomo. Allo stesso modo, le scienze biologiche, la biologia molecolare, l'etologia, l'ecologia possono operare senza il concetto di vita; fino agli anni sessanta c'era la possibilità di fare fisica senza l'idea di cosmo. Ma il cosmo è ritornato: oggi si sa bene che l'universo non è un'infinità materiale senza limiti, bensì un cosmo con una storia, con un inizio, con uno sviluppo, con una tragedia, ma queste sono acquisizioni recenti, gli ultimi sviluppi della scienza. La cultura scientifica, fino agli anni settanta, era una cultura in cui i problemi fondamentali non si potevano integrare nelle discipline. Gli specialisti dicevano: sono problemi generali e i problemi generali non sono interessanti. Essi non si rendevano conto che l'affermazione secondo cui i problemi generali non sono interessanti è la più povera di tutte le idee generali. La cultura scientifica non ha la possibilità di riflettere e meditare sul sapere. Come ha detto Husserl negli anni trenta: c'è un vuoto al centro della scientificità, la scienza non può prendere coscienza di se stessa. Anche Heidegger ha detto che la scienza non pensa; ciò non significa che non ha il pensiero, ma che non può pensare su se stessa, ed è per questo che lo sviluppo della scienza è così folle: si fanno scoperte teoriche in apparenza totalmente speculative, come quelle sulla struttura dell'atomo, e venti anni più tardi queste teorie puramente speculative si trasformano in armi termonucleari. Lo stesso accade con la scoperta della struttura del DNA, fatto puramente teorico, ma che oggi ci pone di fronte a tutti i problemi della manipolazione genetica. Dunque la scienza è una cosa che fa crescere il sapere e che nello stesso tempo fa crescere l'ignoranza e l'incoscienza sullo sviluppo stesso della scientificità. È per questo che non esiste la possibilità di una meditazione di cui lo sviluppo stesso della scienza e della conoscenza scientifica necessita. Inoltre c'è il problema dell'industria culturale; l'industria culturale fa pressione sull'intellettuale perché faccia le cose in modo standardizzato: un articolo di tot pagine, un'intervista di dieci minuti, non un minuto di più non un minuto di meno, se il libro è troppo lungo lo deve accorciare, se è troppo corto lo deve allungare. Le pressioni della moda favoriscono ciò che piace in quel momento al pubblico, per cui si pubblicano molti testi su un tema determinato - la nuova filosofia, o la post-modernità - fino alla saturazione. E il dibattito non si risolve a un certo punto con la vittoria di un'argomento su un altro, si esaurisce per saturazione, per fastidio, perché è troppo. Ci sono poi state le due tragiche avventure dell'intellettuale politicizzato. La prima è quella - mi riferisco principalmente al contesto storico francese - dell'intellettuale di destra che era per il valore dell'etnia, del suolo, della nazione, e che nella Seconda guerra mondiale è diventato collaborazionista della Germania nazista, arrivando all'autodistruzione dell'ideologia nazionalista. La seconda avventura è quella dell'intellettuale di sinistra che pensava di avere la soluzione fondamentale del probleSaggi ma umano, senza prendere coscienza del fatto che stava facendo una trasposizione del messianismo cristiano o giudaico sul proletariato, sull'Unione Sovietica e poi sulla Cina maoista. Questa avventura finisce negli anni 1973-1977, quando si autodistrugge l'idea che la Cina, il ·Vietnam, la Cambogia, o Cuba siano il paradiso. Questa situazione, però, non mi fa dire: basta con gli intellettuali. Non mi fa dire: oggi, allora, è meglio il lavoro specializzato, che lo storico faccia il suo mestiere di storico, il filosofo quello di filosofo, ecc. Mi fa dire esattamente il contrario. Perché? Perché oggi, con la iperspecializzazione della scienza, con le pressioni dell'industria culturale e con il dominio degli esperti, vediamo che i-"tecnicispecializzati in campi particolari possono fare previsioni su alcuni fenomeni già conosciuti del passato, ma sono incapaci di fare previsioni su tutte le novità. Oggi assistiamo al fallimento totale degli esperti in economia come a quello di famosi esperti in sovietologia che non avevano previsto la possibilità del movimento iniziato con l'era di Gorbaciov. Oggi il regno degli esperti - che hanno una visione limitata, senza immaginazione, senza possibilità di concepire novità - crea il bisogno fondamentale di una categoria che continui a porre i problemi dell'uomo, del destino dell'uo., mo, del destino dell'uomo nella città, del destino dell'uomo nel cosmo, e che sappia porre questi problemi nel foro, nella vita pubblica, non unicamente in un linguaggio specializzato ma in termini intellegibili per tutti, crea un nuovo bisogno dell'intellettuale [... ]. In alcuni_paesi, come la Francia e l'Italia c'è una tradizione più grande di intellettualità di questo tipo. Nei paesi anglosassoni questa tradizione ha meno vivacità, o meno radici; tuttavia, in quest'idea di intellettuale europeo, non Mario Nunes Vais, Sibilla Aleramo, Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, Roma, 1917 bisogna vedere un ripiegamento sulla singolarità del nostro piccolo continente di fronte ali' Asia, all'Unione Sovietica, agli Stati Uniti. No, qui sono le radici di una singolarità da cui è nata l'idea universale della ragione, della scienza, dell'umanismo. Sappiamo che c'è perversione della scienza, dell'umanismo, della ragione, e che l'importanza della ragione non si fonda su una logica che dimentica il concreto, il particolare. L'importanza della ragione è la possibilità critica, e ancora più è la possibilità autocritica della ragione. Sono valori universali che valgono per tutti gli uomini, tutte le donne e tutte le persone dell'era planetaria. In questo radicamento nell'europeismo c'è il radicamento nella problematizzazione [... ]. Tutte le grandi filosofie, esigono il fondamento della certezza, ma tutta la storia del pensiero europeo è la distruzione di questi fondamenti. E si può dire, oggi, in questo secolo, che in filosofia la cosa più importante è capire che non c'è un fondamento assoluto di certezza e che la problematica fondamentale è di pensare non nel dubbio generale, dove tutto è equivalente e non vale la pena pensare, ma è di pensare convivendo con l'incertezza, è di pensare senza fondamento indubitabile, è di pensare con l'incertezza e con l'angoscia. Questa verità filosofica si trova nel «pensiero debole», ma si trova anche nella epistemologia scientifica di Karl Popper e di post o anti-popperiani come Kiihn, Lakatos e altri: la scienza dà la certezza, ma la certezza dei fatti, la certezza di alcune relazioni locali in certe condizioni di tempo e di spazio, non c'è una certezza fondamentale nella teoria scientifica. La certezza c'è nella religione, perché per colui che crede la rivelazione è qualcosa che ha certezza assoluta. Ma nella scienza non c;è certezza, perché le teorie scientifiche cambiano, nuovi fatti, nuove scoperte fanno pagina 27 -cambiare le teorie e le teorie in se stesse sono solo una costruzione dello spirito umano, non sono qualc()sa che riflette la realtà della natura. La problematizzazione che iniziò con il Rinascimento, oggi si è generalizzata: oggi c'è una problematizzazione ancne sulla struttura del pensiero umano, sulla questione epistemologica. Questo importante evento va di pari passo con l'avvicinamento della. coscienza a una cosa· che la tradizione europea sfuggiva: l'orrore della idea del nulla. Ma oggi non c'è unicamente il nichilismo filosofico, c'è il nulla che viene dalla cosmologia: questo sole che ha quattro miliardi di anni deve viverne ancora più o meno altrettanti e poi morire. Il nulla arriva per noi tra quattro miliardi di anni, o un po' meno. Di più. La· bomba termonucleare,- che prima sembrava una minaccia-per Washington-New York o Mosca-Leningrado, dopo il 1977 è diventata una minaccia specifica per i paesi europei con gli SS.20 e i Pershing. Oggi c'è un'intesa tra le potenze e questa minaccia diminuisce, ma non è ancora sparita. Anche se distruggessimo- tutte le bombe termonucleari, rimane il fatto che la bomba è esistita e quindi continua a esistere la possibilità di produrla e di perfezionarla, di farla più piccola, più distruttiva, più «democratica» insomma, per i partiti dei vari paesi, o per i gruppi terroristici.· Allora oggi· noi europei occidentali abbiamq •orrore del nulla, e la religione tipica dell'Europa è la religione che nega che dopo la morte ci sia il nulla, che promette la resurrezione integrale del corpo e dell'anima. Dopo il cristianesimo c'è stata l'idea materialista che il mondo era sostanziale, ordinato, organizzato, perfetto, perpetuo, proiettando gli attributi di Dio sull'universo materiale. Oggi dobbiamo abbandonare tutto questo. C'è un vuoto, c'è il nulla, viviamo in prossimità di un vuoto immane, gigantesco. Per questo diventa necessario guarqare alle civiltà influenzate dal buddhismo. Il fondamento del messaggio del Budqha era lo stesso di quello del Cristo: il problema della sofferenza umana (e, più in generale, per i buddhisti, della sofferenza di tutto ciò che vive, animali e piante). La risposta di Buddha è che bisogna cercare di sfuggire questa vita per trovare il nulla, il vuoto, il Nirvana, che è il vuoto totale. Io non dico che dobbiamo adottare il buddhismo: per-noi occidentali non è possibile, non ci sono le condizioni culturali, storiche per effettuare questo trapianto. Ma dobbiamo capire che in queste civiltà c'è una tradizione di coraggio a guardare in fàccia il nulla, a rinunciare alla certezza, alla promessa della resurrezione e della salvezza generale. E c'è un altro punto importante: la questione della meditazione. È vero che noi siamo una civiltà in divenire accelerato, non abbiamo tempo di fare niente, siamo sempre di fretta, e per questo sentiamo in modo oscurq che abbiamo bisogno di silenzio, di pace, di meditazione, e per questo facciamo yoga, yoga commercializzato, meditiamo mezz'ora al giorno. Certo, sono mode, ma resta il fatto che sentiamo questo bisogno. Per noi, alla fine del secolo scorso, il divenire storico era la chiave di tutto e la spiegazione di tutto. Il divenire dell'umanità era ·un progresso quasi automatico, una legge storica. Il divenire biologico era visto come un'evoluzione dall'organismo unicellulare fino all'umanità e quello cosmico come un'evoluzione dal big bang fino all'organizzazione complessa delle stelle, fino alla Terra. È vero che tutto, la materia, la vita, gli uomini, è in divenire, ma il divenire non rappresenta più per noi la spiegazione e la salvezza, e questo è il senso profondo della nozione di post-moderno. Il moderno significava che. il nuovo è meglio di quello che c'è stato prima, il post-moderno afferma che la novità non è necessariamente migliore di quello che c'era prima, anche il divenire è problematizzato [... ]. Ora vorrei dire qualche cosa a proposito delle domande di Carlo Formenti. È vero che l'Europa non è qualcosa che rimane sempre uguale a se stessa: c'è una prima Europa che è morta con il Medioevo, e c'è una seconda Europa, moderna, che si sviluppa con gli stati nazionali, con il capitalismo, gli insediamenti urbani. Questa Europa si sviluppa e si mantiene perché si mantiene il rifiuto di una egemonia: dell'egemonia di Carlo V, dell'egemonia di Luigi XIV, dell'egemonia di Napoleone e di quella di Hitler. L'Europa si fa nella lotta, nella contraddizione. Tutti questi conflitti, tuttavia, non sono solo il prodotto dello sviluppo europeo nel Seicento-Settecento oppure dell'apogeo europeo dell'Ottocento con il suo sviluppo industriale e tecnico, ma sono anche il risultato della degradazione e della morte dell'Europa. Infatti, a partire dal momento dello sviluppo industriale, della mobilitazione nazionale di massa e della guerra condotta con i mezzi di distruzione delle armi moderne, tutta la potenzialità aggressiva dell'Europa, che alla fine del secolo scorso si era diretta contro il resto del mondo, in Africa, in Asia, all'inizio di questo secolo si ritorce all'interno dell'Eurppa: la Prima guerra mondiale è la prima guerra di suicidio europeo, e la Seconda guerra mondiale coincide con il suicidio totale. Per salvare l'Europa, per «liberare» i popoli europei, è necessario che venga gente dalla California, dal Texas e dalla Siberia. Questa Europa è morta, ma io dico che dalla sua morte può nascere una nuova Europa[ ... ]. Oggi, in questa situazione di decadenza c'è la possibilità che nasca qualche cosa di nuovo. Non la certezza e nemmeno la probabilità, solo una possibilità, un'improbabile possibilità. Gli stati nazionali hanno avuto un ruolo di emancipazione positivo anche nei paesi coloniali, sono stati un modello per lottare contro
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