Alfabeta - anno X - n. 106 - marzo 1988

Alfabeta 106 biografica sull'autore della Recherche non è la riduzione dell'opera alla vita dello scrittore ma l'identificazione di quelle «macerie della realtà» (p. XIX) sulle quali Proust ha edificato il suo libro, con un'operazione che somiglia a quella dei costruttori di chiese paleocristiane rispetto agli edifici romani. In questo modo la Recherche realizza in pieno l'assunto critico da cui era partita. La confutazione del metodo di Saint-Beuve è completa: la vita di Proust sarà sempre letta alla luce del suo romanzo e non viceversa. Solo perché le immagini e i dati biografici illuminano episodi, personaggi e riflessioni presenti nel libro, la curiosità e l'interesse nei confronti dell'autore acquistano un significato non idolatrico né meramente documentario ma in largo senso critico e culturale. Queste foto di amici e di ambienti, di città e di testi non sono tanto il malinconico documento di epoche trascorse, di mode retrò quanto la conferma che «la psicologia non è che lo strumento provvisorio di un Narratore impegnato sulla via della Rivelazione» (p. 203). Anche Proust - come Nietzsche - ha trasformato il fango del quotidiano nell'oro della parola e del pensiero, di cui questa è insostituibile veicolo. Album Proust Iconografia ordinata e commentata da Luciano De Maria Con un saggio biografico di Pierre-Louis Rey Introduzione di Giovanni Raboni Milano, Mondadori, 1987 pp. XXIX+239, lire 25.000 Il divario e la sua etica Bernard Co111ment D alla parola alla cosa, dal significato al referente, dal credibile al realizzabile, può aprirsi un baratro, un vuoto, territorio dell'illusione, del tradimento, della simulazione: di una sofistica. Non ci si deve, dunque, fidare troppo del segno che, all'occasione, può rivelarsi falso rappresentante: deviato, spostato, pervertito. È questa distanza, che fa sorgere un dubbio, che rovina ogni sorta di fiducia: ciò che vale per questo non vale forzatamente o non soltanto per quello. Il significato produce un gioco, incessante, inafferrabile. Ma gli sforzi di rappresentazione, fino ai loro fallimenti o raggiri, sono sempre rivelatori di chi li fornisce. Questo è almeno il soggetto di Claude Reichler, già «geometra» della seduzione nel La diabolie ( edizioni di Minuit, 1979), e ora del libertinaggio: sempre il diavolo. L'inchiesta su l'Age libertin si basa almeno sulla convinzione che la letteratura è detentrice di sapere. «I testi letterari non sono soltanto oggetti di conoscenza o campi di verifica per delle categorie generali; sono anche soggetti di un sapere: ci permettono di conoscere ciò di cui parlano, in un modo che è tutto loro [... ] Elaborano una prospettiva cognitiva sul momento storico in cui appaiono e inscrivono questo momento come uno dei loro costituenti simbolici» (p. 9). Ma C. Reichler non crea delle coerenze, dei legami abusivi. Il suo corpus non comporta alcuna pretesa di esaustività e sono numerose le escursioni al di fuori del periodo considerato (dall'inizio del XVII secolo alla fine del XVIII). Egli procede piuttosto per rivelazioni, incontri (si pensi a Walter Benjamin), tessendo dei motivi, inseguendo delle logiche. Nello stesso tempo, con piacere, fa parlare una letteratura a volte sconosciuta, o mal letta, riportando alla luce gli aspetti dimenticati, facendo rivivere tutta una intelligenza, ridistribuendo le briciole di testi (come dei sintomi) secondo le necessità dei quesiti critici. Il libro è composto di quattro «spaccati», schiarite sul pensiero e l'atteggiamento libertino, che hanno trovato la loro migliore espressione sia nella filosofia e nella letteratura, che nella mondanità o Cfr cerca di un equilibrio precario o innaccessibile). Rifiutando ogni credenza e ogni fiducia, il libertino incontra rapidamente il problema dello slittamento dei segni, senza fondo, senza aggancio. Il sapere tanto desiderato (e acquisito al prezzo di ciò che Reichler legge con giusta ragione come una vera iniziazione, con la sua perdita dell'immagina- . rio, l'abbandono di un ideale, in quanto mutilazione), quest-0 sape- • re si riassume dunque in un'esperienza del dubbio, dell'esitazione. La posizione libertina si afferma incerta, sballottata tra due gesti, due immagini, presa nel vortice delle rappresentazioni. potere è così dominante, è perché abita le rappresentazioni che ciascuno porta in se stesso» (p. 19). Da questo momento si prospetta una doppia posizione, di convinzione e convenienza, dove l'intimo, la libertà di giudicare, si preservano con l'adozione distaccata di un ruolo sociale, di una persona, repertorio di funzioni e repliche «verosimili». Con il rischio, per ciascuno, di perdere la propria personalità. Qui il libertino raggiunge, in parte, l'honnéte homme: cerchi, conversazioni, dove una collettività finirà (è la lezione di certe Lettres persanes per «contemplare la sua impotenza a far credere alla necessità dei suoi riAnonimo, Anton Ceckov e Maksim Gor'kij, Bibliothèque littéraire Jacques Doucet, Parigi nella morale. «I paradossi del conformismo»; la creazione di una certa femminilità nel XVIII secolo; le immagini del corpo che l'erotismo libertino sottende; l'analisi di un ritratto di Luigi XIV. Dall'uno all'altro ,di questi «spaccati» si creano dei legami, si odono degli echi, ma mai una continuità, se non l'individuazione di una certa ossessione, libertina, da scindere (per perdersi in seguito tra due poli, i loro eccessi e la riE così del rapporto al potere. In seguito alla repressione incontrata dai primi libertini (Théophile de Viau per esempio), e alla loro critica frontale, un dilemma viene alla luce: si deve perseverare o sottomettersi? «Il primo libertinaggio incontra, nella reazione politica e dogmatica che accompagna il processo di Théophile, la forma storica che lo condurrà a pensare dialetticamente la costrizione e l'inibizione, e gli mostrerà che se il tuali» (p. 39). «L'uomo è certamente un soggetto di rappresentazioni ma non si può affrancarlo alla maschera e alla illusione se non insegnandogli a fingerle» (p. 17). Oggi più che mai ci si può domandare se un gioco simile non è impossibile o troppo pericoloso. In effetti alcuni richiami al conformismo e al senso comune nascondono ben altre motivazioni piuttosto che un libertinaggio esigente e tattico. pagina 25 La donna, occupando la casella del desiderio, ha un posto di primaria importanza nell'ideale libertino. Per questo è rimasta l'oggetto di un'indecisione crudele. O, piuttosto, lo è divenuta. Ma in questa ermeneutica senza fine, la femminilità di cui si può seguire la logica, è innanzitutto quella dell'immaginario libertino. Vergine o puttana? Perversa o innocente? Attraverso i motivi dell'iniziazione (passaggio dall'idealizzazione alla maestria, poi al decadimento), dell'ambivalenza, del fallimento, o ancora della nascita segreta, il libertino dipinge per sé una donna sempre inaccessibile, e si impegna in un «non-sapere inquieto davanti al suo simile» (p. 65). Di fatto ciò che Reichler interroga non è tanto il mistero della donna quanto la sua soglia costitutiva: «quando e perché la femminilità ha preso la forma di una enigma» (p. 65). Nell'immagine del corpo si ritrova l'esperienza dolorosa di una irrimediabile alterità: rappresentare l'altro significa in un certo senso riparare al vuoto della sua assenza (lontananza, divieto, lutto; abbraccio impossibile). Qui Reichler ritrova un'oscillazione continua tra una rappresentazione dell'oscenità e una finzione dell'innocenza. Egli persegue soprattutto gli immaginari che, per il libertino, nutrono l'intelligibilità del corpo della donna. L'uomo è innanzitutto oggetto di rappresentazione, comprensibile soltanto nella distanza. E si conosce bene l'utilizzazione di una simile intuizione libertina che Luigi XIV ha potuto dare per imporre la sua immagine solare, raccogliendo così per se stesso il prestigio simbolico del ruolo conferito dalla credenza sociale. Pertanto, in uno dei ritratti realizzati da Rigaud (più precisamente quello del 1701), l'effetto gli sfugge nel momento in cui lo seduce, poiché in una gamba soda, sottile e un po' ostentata, è tutta la critica di una certa corruzione, di una cancrena proveniente dal basso, che «facendo finta di niente», si infiltra. L'analisi qui rivela una carica critica insospettata, che trova eco in certe pagine di Saint-Simon, impregnate di severità nei confronti di un monarca rovinato dall'illusione e dal simbolico che credeva di sfruttare. Al termine di un percorso molto sottile, e compagno intelligente dei libri che invoca (si potrebbe parlare di una critica rapsodica), Reichler restituisce il libertinaggio in tutta la sua complessità, mostrandone gli imbarazzi, i vicoli ciechi. Ci propone così lo spettacolo di un modo di pensare, dei suoi cambiamenti, delle sue inquietudini. Nello stesso tempo, e contro un libertinaggio inconsistente e da parata, egli pone le condizioni di una riflessione rinnovata sull'enigma della sessualità o dell'incompiutezza dell'uomo, sugli obblighi sociali e le possibili riserve. Egli ci invita soprattutto alla «responsabilità del pensiero», a «un'etica del discorso». Il divario, la distanza, insomma il gioco tra ciò che si scinde per incredulità, è stimolante ma a condizione di non dimenticarne mai né la difficoltà né l'esigenza. Poiché il «tutto è permesso» non deve mai regredire al «qualunque». Claude Reichler L'age libertin Paris, ed. de Minuit, 1987 pp. 135, 58 FF

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