Alfabeta - anno X - n. 106 - marzo 1988

Alfabeta 106 I pacchetti di Alfabeta pagina 15 Busi e Cavazzoni Aldo Busi Sodomie in corpo 11 Milano, Mondadori, 1988 pp. 413, lire 24.000 Ermanno Cavazzoni Il poema dei lunatici Torino, Bollati Boringhieri, 1987 pp. 299, lire 20.000 B isogna credere alla lettera a Busi, quando ci avvisa che questa sua opera ultima uscita non è un romanzo. Siamo in presenza di un autore dalla professionalità ferrea, come egli stesso proclama continuamente, e dunque la sua attività è lucidamente programmata, ha messo davvero in cantiere una pentalogia romanzesca, giunta esattamente a mezza strada con La delfina bizantina. Ed è anche vero che quel suo terzo romanzo ha segnato la prova più matura e completa, sulla via di una autosufficienza narrativa, di una piena capacità affabulatoria. Non convengono a Busi le scorciatoie di chi tenta di pervenire al romanzo gabellando squarci autobiografici, scampoli di sotto conversazione, esibizionismi scandalistici. E dunque, la sua non è una macchina che produce comunque, basta che si metta in moto. Queste Sodomie in corpo 11 si iscrivono davvero in un genere laterale e tutto sommato minore (come del resto recita il titolo stesso), anzi, all'incrocio di tanti generi: la dichiarazione di poetica, la «moralità», il diario di viaggio, l'abbozzo e la prova generale per opere più costruite che potranno seguire. Tutto vi è presente, meno la volontà di svolgere un organismo narrativo totale, provvisto di una solida struttura «mitica», come invece accadeva ne La delfina bizantina; e dunque sbagliano i lettori che si affrettano a contrapporre queste Sodomie, abbagliati dal fascino del «non compiuto», alla robusta architettura del terzo romanzo; o forse non hanno avuto occhi per scorgerla a suo tempo; o ripetono il solito gioco dei tradizionalisti, che sta nell'accettare di volta in volta, di un autore, il contributo più ?SSimilabileentro vecchie regole e misure. D'altra parte, a loro difesa, bisogna riconoscere in Busi una peculiarità che condivide con Céline (mi sento di dover continuare a fare questo nome di grande prestigio, salve le precisazioni che opportunamente seguiranno). Si sa che pure Céline ha avuto taluni momenti in cui ha cambiato pedale, dandoci la sua poetica, o meglio la sua ideologia (Bagatelles pour un massacre, Les beaux draps), aprendo oltretutto con ciò il tormentato capitolo dell'antisemitismo; e non sarebbe giusto, neanche nel suo caso, fare di ogni erba un fascio, esaminare i due pamphlet sullo stesso piano di Nord o di Mort à crédit. Ma è anche vero che egli ha assunto stabilmente una maschera fissa, non dismettendola nei momenti della riflessione o dell'autobiografia: una maschera nutrita di eccesso e di paradosso che ha finito per saldarsi sulla sua pelle, e dopo non è stato più possibile scindere in lui l'uomo dallo scrittore; o almeno, non è possibile condurre la distinzione sull'opera e sulla pagina. E così pure nel nostro caso: nessuno può andare alla ricerca del Busiuomo: anche nei momenti- in cui egli cambia genere e passa alla confessione, dichiarandosi con nome e cognome, abbiamo sempre a che fare con una grande, mirabile finzione. Renato Barilli Questa inoltre muta da (o forse più precisamente coincide con) Céline in un altro grande elemento, nel fatto di inalberare quello che lo scrittore francese chiama molto eloquentemente «l'io di merda»: un iocostruzione poetica che assume su di sé, sacrificalmente, tutti i mali deWumanità, si offre al più basso livello di degradazione per farne uno strumento di conoscenza centuplicata, un microscopio gigante, capace di ingrandire la realtà un numero infinito di volte. Ma qui terminano i punti di contatto tra Céline (Gadda, a questo proposito, non sarebbe molto diverso: si pensi a Eros e Priapo) e il nostro giovane Busi. .La merda del primo non è solo metaforica, ma anche abbastanza letterale, in quanto la forma di eccesso, di smisurata centuplicazione che egli assume sta in un pauperismo esagerato: il «medico dei poveri» Céline si fa carico di tutte le miserie che la società ottocentesca infliggeva al proletariato o alla piccola borghesia urbana, e ne fa una mirabile lente d'ingrandimento; ma da ciò anche il carattere retrogrado del suo uniqualche grado di maledettismo, restando fedele all'imperativo lanciato a suo tempo da Baudelaire. Infatti gli scampoli di teoria estetica che Busi semina qua e là, lungo queste Sodomie, sono corretti e precisi, sul solco della migliore tradizione avanguardista: essere diversi, «altri», senza qualità, non lasciarsi assimilare; la letteratura come funzione che totalizza tutte le altre, e che in ciò trova la ragione della sua feroce autonomia e inutilità, di strumento che si pone di fronte alla vita per illuminarla (col raggio ultrapotente di un faro, secondo una similitudine usata dal nostro autore); mai invece per continuarla, o per divenire strumento consolatorio di sopravvivenza. Ecco perché queste pagine, dichiara Busi, si pongono all'insegna del non-sesso (benché ognuna di esse dia conto di qualche sodomia, sempre per restare al titolo): proprio perché la sodomia stessa funziona un po' come un ciclotrone speciale di cui il nostro intende avvalersi come un suo poderoso apparato per «sparare» contro il muro della vita, e possibilmente strappargli qualOtto, Lev Nickolaevic Tolstoj con alcuni cittadini, Bibliothèque Nationale, Parigi verso, quel sapore appunto postnaturalista che esso si porta dietro, e con cui, giustamente, il Busi rappresentante di una società postindustriale e postmoderna non ritiene di aver più nulla a che fare. La miseria iperbolica (la «merda» metaforica) di cui egli assume il fardello sarà allora l'omosessualità: ostentata, proterva, naturalmente, (così come lo era il miserabilismo di cui si fregiava Céline), potente microscopio per ingigantire la condizione umana, per bombardarla nel tentativo di strapparle qualche nuovo segreto. Così è infatti, si può parlare di una crisi di assuefazione anche nell'ordine della conoscenza letteraria, o estetica in genere: vecchie e nuove affezioni si sono logorate, e ora scorrono sulla superficie del reale senza intac- , cario: ci vuole ben altro, per penetrarlo: così come le normali reazioni chimiche oggi possono ben poco, se paragonate alla reazione nucleare. E dunque l'omosessualità quasi come unica possibilità, per lo scrittore, di continuare ad essere «diverso», di non farsi. prendere dal sistema, di perpetuare un che briciola di autenticità. II che, d'altra parte, implica un altro obbligo: quello di vigilare per evitare il limite oltre il quale l'esibizione sessuale diviene esibizionismo o, peggio ancora, turismo, viaggio nel pittoresco. Busi infatti, mentre tenta faticosamente di riportare alla luce qualche pepita di ritrovata autenticità, è l'implacabile, divertito e divertente fustigatore del grado di inautenticità che, al giorno d'oggi, si impadronisce in un attimo delle armi conoscitive anche più avanzate. Tra le pagine più godibili di questo «diario in pubblico» sono quelle dedicate agli omosessuali che ormai recitano una parte fissa, con tutti i tic dello stereotipo. Così come altre sequenze irresistibili sono dedicate al «non-viaggio», a dimostrare cioé come oggi si possa andare nel Kenya, in Finlandia, a Leningrado, in Marocco, ma senza nulla vedere. Lo stereotipo è pronto a incollarsi su ogni circostanza; e dunque, bisogna davvero lavorare di piccone, o di dinamite, per far saltare quella corazza molliccia ma tenace. Però, attenzione, malgrado il suo livello di mae- _stria e di forza, questa prova di Busi è solo un intermezzo, lui stesso non vorrebbe che i lettori si distogliessero dall'attesa dei prossimi romanzi titolati. U n «io di merda» è assunto anche da Ermanno Cavazzoni, alla sua «opera prima». Ma certo anche nel suo caso si tratta di andare a vedere di quale merda particolare si tratti. E scopriamo allora che egli rischia meno di Busi, in quanto assume una masch~ra di degrado già abbastanza acquisita agli atti: il degrado psichico dei «candidi», delle esistenze arretrate o diverse, o semplicemente non acculturate. E sappiamo bene che c'è tutta una letteratura in proposito. I critici non hanno esitato a fare riferimento a Celati; si potrebbero anche ri-cordare certe prove di Malerba, e perfino di Volponi, o della Wittig, tra gli stranieri. Antonio Porta, in una conversazi~ne orale, mi ricorda giustamente anche i naifs veri e propri, tra cui spicca Ghizzardi, purtroppo scomparso_ qualche tempo fa. Si tratta dunque di una maschera ben collaudata, che rischia di strappare soltanto una prima pelle, alla realtà, ma di depositarvisi sopra, subito dopo, costituendo una sedimentazione in più. Senza dubbio, quella maschera, Cavazzoni la indossa con maestria, con perfetto agio, e viene di qui il carattere di perfezione quasi al primo colpo, che tanto ha sorpreso la critica, in genere favorevole al Poema dei lunatici. Infatti il giovane autore porta quella maschera «senza fare una piega», adattandola perfettamente alle esigenze del suo percorso. Ma ne viene anche il sospetto che lo stile degeneri in stilismo, la maniera in manierismo, e che insomma ci siano troppe reti, sotto questo rischio calcolato. Lo stereotipo, si diceva appena sopra, è pronto a impadronirsi di ciò che fino a un momento prima era archetipo, conquista faticosa. Anche se le lenti del «candore» consentono certamente a Cavazzoni di strappare un bel bottino, con invenzioni perfette nel loro genere: come quella del popolo di sub-esistenze che vivono nelle tubature dell'acqua, emergendo dai rubinetti gocciolanti; o le «madonne», abbassate a un genere di fenomeni ricorrenti, così da costruire una quotidianità, una· normalità del miracoloso, equiparato anche ai prodigi quotidiani procurati, nel nostro presente, dalle applicazioni domestiche della tecnologia. Le apparizioni della Madonna, dunque, come l'accendersi e lo sfrigolare dei tubi al neon. Ed è anche bello e coerente il progressivo estendersi «a macchia d'olio» del medesimo candore, ostentato dal protagonista, fino a divenire una specie di regola generale della condizione umana. Ecco quindi che esso si impadronisce anche degli eroi mitici e favolosi, come Garibaldi, trasformandolo in un bruto sorridente e smemorato, incapace di intendere e di volere. Oltre al limite di un certo compiacimento stilizzato, Cavazzoni ne patisce un altro consistente nell'inevitabile frammentazione del suo narrare. Infatti l'eroe naif della storia, il giovane Savini, si fa portare in qua e in là da incontri ed estri contingenti, ogni capitolo diventa autonomo, costituisce quasi un racconto a sé stante, rilegato agli altri da una specie di cornice, pretestuosa come lo sono inevitabilmente questi tentativi di rilegatura dall'esterno. Ciò contribuisce per un verso a rafforzare la perfezione dei singoli brani, ma conferma anche un sospetto generale di fragilità d'impianto.

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