Alfabeta - anno X - n. 106 - marzo 1988

Alfabeta 106 Ugo Perone• Modernità e memoria Torino, SEI, 1987 pp. 166, lire 20.000 Remo Bodei Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno Torino, Einaudi, 1987 pp. 271, lire 28.000 Franc0 Rella Limina. li pensiero e le cose Milano, Feltrinelli, 1987 pp. 166, lire 25.000 D al loro recente confronto con la poesia di Celan, Pòggeler e Derrida hanno ricavato spunti teorici da cui sembra svilupparsi una contrapposizione speculare. Ricordare è impossibile, sostiene Derrida in Shihboleth: come dimostra quel fenomeno in sé contraddittorio che è il lutto, noi ricordiamo colui che si è fatto totalmente assente solo a misura che lo pensiamo in qualche modo presente. Ricordare è necessario, dice Pòggeler in Spur des Worts, e lo è al punto che un nuovo pensiero, qui, s'impone: cioè un pensiero che realmente sostituisca all'identità e al suo primato il riconoscimento della differenza (come comprensione di sé a partire dall'essere-lasciati, a parti re dall 'esperienza dell'abbandono). L'ultimo libro di Ugo Perone, Modernità e memoria, è uscito quasi contemporaneamente ai saggi appena citati di Derrida e di Pòggeler. E, anche se non esplicitamente, ad essi rimanda, perché un elemento di forza dell'ontologia della memoria che Perone delinea consiste precisamente nel tener fermo, insieme, sia alla tesi di Derrida per cui «ricordare è impossibile» sia a quella di Pòggeler per cui «ricordare è necessario». Secondo Perone la modernità, come del resto ogni altra epoca storica, sorge sulla base di una cesura con il passato. Ma ciò che costituisce il moderno in quanto tale è la consapevolezza e quindi la memoria di questa cesura. Dunque, per il moderno, la memoria è qualcosa di costitutivo, di ineliminabile, di necessario, ma nello stesso tempo anche qualcosa di impossibile, perché ha per oggetto la sua stessa negazione, ossia il non-più, il perduto per sempre, l'oblio. La tentazione, ricorrente nella modernità, di irrigidire di volta in volta uno dei due poli che la caratterizzano, nasce qui. Con la conseguenza d'una oscillazione senza sbocco all'interno d'una polarità non superabile dialetticamente. Storicismo e nichilismo sono i termini di questa oscillazione. Alla radice dello storicismo, il pensiero di Hegel; a confronto della cui audacia, però, lo storicismo «non può che apparire pallido e smorto». La dialettica hegeliana appare pervasa dall'orrore del negativo, e se lo comprende in sé, è per superarlo, non per eluderlo. In Hegel la memoria guarda alla cesura e alla possibilità di arrestarsi sterilmente ad essa come al «dramma della coscienza moderna»; invece lo storicismo concepisce la memoria come una specie di trascendentale che sempre di nuovo, e senza strappi, produce l'ordito del senso togliéndolo alla «notte del dimenticato» (Droysen). Una nascosta vena teologica affiora in questa pretesa di garantire la continuità e la positività della storia. Il nichilismo a sua volta potrebbe apparire come un forma di teologia secolarizzata o capovolta. È un pensiero fondato sull'annuncio della morte di Dio; ma questo annuncio non presenta più, come nelle forme iniziali e primitive, i tratti della rivolta e del rinnegament0, avendo per contenuto qualI pacchetti di Alfabeta cosa che «in ultima istanza è indifferente», ossia «un oblio senza ritorni e senza rimorsi [... ] tale da dissimulare ogni lacerazione e da assorbire in sé la memoria stessa di ciò da cui si allontana» (p. 43). A questi diversi esiti del moderno, Perone oppone un significativo richiamo a Bonhoeffer, oltre che a Benjamin e a Schiller (autori, tutti, cui Perone ha dedicato saggi notevoli). E ne ricava una prospettiva filosofica incentrata sul riconoscimento del primato dell'esperienza morale. Scrive Perone: «La memoria incontra la cesura, ma in quest'incontro urta in qualcosa che non s'è lasciato risolvere in nulla. È il reale storico che pretende di restare. Ed è proprio quest'irriducibilità assoluta che ne fa un appello etico: ciò che è e continua sempre a restare altro. La sua irriducibilità assoluta è la sua alterità, ma la sua alterità è irriducibile solo in quanto non è assolutezza e chiusura, ma interrogativo e appello. L'altro si affida e il compito della memoria come resistenza per quest'altro ha inizio» (p. 103). Anche secondo Remo Bodei la coscienza moderna può apparire, non ingiustificatastiano cos.ì; nondimeno in Scomposizioni egli avanza a questo proposito un dubbio, non tanto opponendo alla linea di tendenza che oggi va imponendosi una controlinea, bensì rivisitando alcuni dei luoghi più espressivi di quello che, nell'orizzonte della modernità, è stato «il progetto della dialettica». Questo accade prendendo lo spunto dal frammento hegeliano che è databile tra il 1788 e il 1800 e che com'incia: «La contraddizione sempre crescente tra l'ignoto che gli uomini inconsapevolmente cercano e la vita che ad essi è offerta e permessa e che essi hanno fatto propria[ ... ]». Bodei lo sottopone a scomposizione «prismatica». Ne ricava, in relazione alle molte facce del prisma, prospettive che gettano luce su esperienze culturali coeve o successive ma. in esso in qualche modo già contenute; ne ottiene anche diversi strati di senso, ma soprattutto ne svolge un'indicazione erme-· neutica che punta decisamente oltre la crisi della modernità piuttosto che adattarsi docilmente ad essa. «Filosofia atonale», la chiama Bodei: e se attribuisce la sua paternità a Hegel, nonEdgar Degas, Stephane Mallarmé e Renoir, Bibliothèque littéraire Jacq~es Doucet, Parigi mente (vedi ad esempio Goffman, Laing, Berger, ecc.), «sradicata, priva di tradizioni potenti, leggera di memoria e di passato». Non solo il soggetto si è come sciolto da se stesso e dalla propria identità, in quanto il risultato di una operazione di montaggio i cui pezzi sono i ruoli, le maschere, i giochi sociali; non solo è sfumata la differenza tra il reale e il possibile e tra gli originali e i simulacri, fino alla perdita della nozione stessa di futuro e della possibilità di progettarlo sia pure utopicamente, ma l'accento è sempre più fatto cadere sul «disordine, la dissipazione, la décadence, le differenze, la 'corruzione' non riscattata dallo sviluppo, la disgregazione, la consumazione non 'superabile' di concetti e valori» (p. 242). Con ciò il «progetto» che aveva caratterizzato la modernità sembra essere giunto «a un punto morto». Alla dialettica e alla pretesa di ricomporre un sapere più accomodante che semmai le decostruisce e alla fine le dichiara estinte a fronte dei mutamenti morbidi della società post-industriale. Può darsi, osserva Bodei, che le cose dimeno è per prospettarla come una virtualità non ancora esaurita: «Una precisa e raffinata orchestrazione delle dissonanze viene da Hegel messa in opera affinché esse non appaiano semplici stonature del corso del mondo. In questa sorta di 'filosofia atonale, la contraddizione cessa così di essere puro stridore, grido inarticolato di sofferenza, segno di falsità, marchio d'infamia del pensiero. Diventa espressione delle lacrimae rerum, strumento di conoscenza di un mondo lacerato da sofferenze reali, scosso dal 'parossismo febbrile', ma non incurabile» (p. 31). A Ilo sviluppo (fino al compimento e al declino) della modernità secondo una linea portante, Franco Rella oppone quelle che sono le sue diverse «tradizioni». Il moderno, dice Rella, ha prodotto molte forme di autocomprensione, le quali risalgono a opzioni ermeneutiche di fondo: così, per esempio, ci sono le ricostruzioni di stampo hegeliano, quelle a matrice illuministica (Habermas), quelle basate sulla critica della metafisica e sullo pagina 11 smontamento d_ei suoi grandi racconti (Lyotard, Vattimo). Da questo punto di vista il romanticismo potrebbe anche assumere (come ha scritto Béguin) «il valore di una lacuna episodica nel progresso della razionalità del moderno». Eppure è proprio con Novalis e con Schlegel, nota Rella, che il moderno comincia «a presentarsi come una categoria del pensiero e dello spirito». E forse è per via di questa sua collocazjone eccentrica rispetto ai grandi -scenari del pensiero filosofico che il Romanticismo ha liberato dal suo interno quella che il moderno, in quanto esperienza radicale di spaesamento e di perdita del centro, potrebbe alla fine riconoscere come la sua più autentica chance. La quale consiste, secondo Rella, nell'ipotesi d'un pensiero «atopico», cioè in grado di trasformare l'assenza di luogo in un luogo paradossale dove il limite passa all'interno, la separazione violenta è assorbita, la negazione dell'estraneo e dello straniero a sua volta negata. «In questo senso, il labirinto, da figura infernale, da luogo di . orrore da dominare con l'inganno del filo di Arianna e con la violenza della spada di Teseo, diventa una figura conoscitiva. Benjamin parla dello smarrimento qella grande città come 'un'arte tutta da imparare'. Di.irrenmatt, nella sua esplorazione dei possibili, propone un'immagine del labirinto come un luogo di felicità, che protegge, con le sue volute, dalla legge, dal nomos violento. Ma forse, per cogliere il mutamento di senso epocale di una metafora millenaria, .s·arebbe meglio trovare per il labirinto un altro nome» (p. 10). Schlegel aveva proposto: arabesco. Il che appare tanto più significativo se si pensa che la concezione della storia che questa nuova metafora lascia intravedere è già abbozzata da Schleg.e1. È la concezione benjaminiana; ma pe_rl'appunto, se Benjamin affida allo storico il compito di spezzare la linea unidirez.ionale del progresso e di individuare nei punti di -fuga la possibilità di ridestare le deboli forze dei vinti, Schlegel già pensava lo storico come un profeta volto all'indietro. Perciò «l'attraversamento del moderno ci porta davvero a oltrepassare i suoi limiti, anche se questi limiti non sono esterni, ma una frontiera interna. Sempre più pensare il moderno è pensare il limite: è pensiero liminare» (p. 15). Ciò che appare decisivo, allora, è il riconoscimento non solo dell'esteriorità e dell'alterità come contenuti profondi del soggetto, ma anche della differenza, del pluriverso, del disomogeneo come qualcosa da custodire e da accogliere piuttosto che .da sacrificare. . E qui è inevitabile rilevare due significativi punti di contatto tra il discorso di Rella e, da una parte, quello di Bodei, dall'altra, quello di Perone, nonostante si tratti di proposte teoriche che possono anche essere lette «in controcanto». Come Bodei, Rella propone una «poetica della dissonanza»: «Questo mondo deve essere atopicamente desituato rispetto alle leggi della rappresentazione abituale, perché sia possibile scorgere in esso vere armonie, vale a dire la corrispondenza fra le cose, che parla sempre il linguaggio della differenza e della dissomiglianza»· (p. 13), E come Perone, Rella avanza l'idea d'una rifondazione dell'etica: «L'ethos è il luogo proprio dell'uomo. La decisione etica è sempre stata la difesa di questo luogo contro l' 'altro', l'estraneo, il diverso. Se noi accettiamo la dimensione atopica, che desitua il luogo proprio nell'assenza di luogo' o nel 'dappertutto', l'agire etico deve essere allora la difesa di questo 'dappertutto' di questo 'ovunque' in cui abitano il soggetto e le ·cose che egli ama e da cui ·egli è amato» (p. 161).

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