•MNrEDJSQ\f• ClllTUM PROGETTCOULTURA ANNOQUINTO CONTINUAILDIALOGO CONI GIOVANI, LASCUOLAL,ASOCIETÀ, fl monTEOISOn SCIENZA RICERCA TECNOLOGIA A più voci Museo dei musei Un soggetto - di Artaud Lebel con Duchamp Palazzeschi inedito Intervista a Rorty Saggi Gli intellettuali e l'Europa Edgar Morin alfa•bis.2 metamorfosi dellematerie Pacchetti Ipotesi sul moderno Bestiario d'amore Metropoli e museo Busi e Cavazzoni Cfr Evidenziatore Classifiche Mostre Recensioni Convegni Nuova serie Marzo 1988 Numero 106 / Anno 10 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Via Caposile, 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo IIl/70 • Printed in Italy Prove d'artista Giuliano Scabia Paolo Volponi Anna Valeria Borsari -
pagina 2 Le immagini di questo numero Alfabeta 106 li scrittori simettono in mostra I l rapporto tra scrittura verba- . lè e scrittura visiva è sempre - stato, ed è tuttora, non molto pacifico né troppo neutrale: l'immagine scarnifica, impietosamente, l'interiorità dello scrittore per metterlo in mostra con tutte le sue attese e speranze di eternità culturale, mentre il fotografo, in questo gioco di rispecchiamento psicologico, cerca di interpretare, più o· meno correttamente sul piano filologico, la poetica e lo specifico linguistico dello scrittore. L'incomprensione e una certa impenetrabilità non sempre rendono f acili i rapporti tra i due autori: problemi psicologici e filologici, accanto a una difficoltà di traduzione dei linguaggi, trasformano il ritratto di uno scrittore in una sorta di autoritratto, dove ad emergere come protagonista visivo sarà chi tra i due interpreti sarà in grado di alienare l'altro. Per poter ricostruire questo doppio ttmerario interpretativo, sono necessarie due competenze, una letteraria e una di tipo iconografico: Ignoto a me stesso, una mostra curata da Leonardo Sciascia e Daniela Palazzoli, organizzata a Torino la scorsa primavera dall'Associazione Amici Torinesi dell'Arte Contemporanea, è stata un esempio, da questo punto di vista, di grande interesse e, soprattutto, di grande novità perché finalmente le•·due scritture, insieme, ricostruiscono un pezzo di cultura materiale, attraverso centinaia di ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges. Gli scrittori parlano sia riconoscendosi nell'immagine fotografica, sia negandosi, come nella battuta di Brancali e di Longanesi, riportata da Leonardo Sciascia nel catalogo, edito da Bompiani, «nelle fotografie vengo un orrore». Davanti ai ritratti nessuno riconosce completamente se stesso; ma gli altri, spinti dalla naturale curiosità di entrare nel privato di personaggi noti, simboli di vissuti e di speranze collettive, riconoscono le opere, le trame narrative: la loro storia della letteratura. « E Sciascia com'è?»: inizia così il saggio della Palazzoli, Racconti senza parole: la sua raccolta intorno al mondo di un materiale che spesse volte nessuno riconosce come documento significativo per la storia dello scenario letterario, è fondamenta/e proprio perché è un viaggio a ritroso nell'ideologia del tempo, nella fortuna dello scrittore tra i suoi contemporanei. Lo scrittore esce così da questi ritratti come coautore di un testo nuovo, dove l'altro, il fotografo,. rappresenta non solo il proprio. modo di vedere il mondo ma, soprattutto, lo spazio e il tempo nei quali la società, il senso comune, le nostalgie e anche le ipocrisie e le incomprensioni si sono sedimentate e trasformate in scrittura. La qualità dei fotografi è indiscutibile: Nadar, Cameron, Abbott, Steichen, Penn, Freund, Cartier-Bresson, Capa, Brandt, A vedon, Beaton, Mulas, ed altri ancora. Ma è la narrazione di questi ritratti messi in fila cronologicamente che provoca un effetto originale rispetto alla tradizionale immagine di terza e quarta di copertina che scopriamo nei nostri libri; c'è una forte analogia nei modi in cui gli scrittori si rappresentano perché di autorappresentazioni molte volte si tratta. Frontale, di profilo, a quarantacinque gradi rispetto ali'asse del!'occhio fotografico, in gruppo, dentro o fuori dalla scena di un teatro più o meno artificiale, vestito, travestiSommario Fabrizio Bagatti Renato Barilli Busi e Cavazzoni Saggi Alfabeta 106 Marzo 1988 Ho trovato un romanzo inedito di Palazzeschi pagina 7 (Sodomie in corpo 11, di A. Busi; li poema dei lunatici, di E. Cavazzoni) to, nudo come lo straordinario George Bernard Shaw di Coburn; sempre, comunque, protagonista immedesimato nel suo ruolo uffi- • ciale. Ufficialità non significa sempre e soltanto artificialità e inautenticità: l'immagine fotografica è, ontologicamente, sempre per gli altri o per l'altro da sé presente in ciascuno di noi. Giustamente, a proposito della Cameron, Daniela Palazzoli scrive, «Anche lei, come Nadar, ha voluto tirer l'éternel du transitoire, ma cercando di rendere attraverso lo sfocato non una singola posa ed espressione ma una sintesi del!'espressività di un personaggio, come noi ce la formiamo mentalmente attraverso le modificazioni della sua mimica che conosciamo nel vissuto quotidiano,~. I ritratti della mostra di Torino, che saranno presentati alla Besana in occasione di Milano Poesia 1988, sono indimentacabili, sia perché alcuni di questi sono ormai entrati nell'iconografia più diffusa (come il Baudelaire di Nadar, il D'Annunzio di Michetti, il Thomas Mann di Steichen, la Blixen di A vedon, il Montale di Mulas, Hemingway di Karsh, il Prévert di Botti1 il Malrau.x di Penn, il Sartre e il Camus di Cartier-Bresson, il Pasolini di Pedriali), sia perché ci fanno scoprire nuovi volti di autori che pensavamo di conosçere in tutti i loro risvolti, pubblici e privati. Ma il più sorprendente tra tutti gli autori resta un fotografo dilettante come Franco Antonicelli e i suoi ritratti di amici: Leone Ginzburg, Pavese, Croce, Pirandello, Gadda; «quando il fotografo si abbandona al suo strumento» - sottolinea la Palazzoli - «ogni istantanea può diventare come un piccolo, piccolissimo bang che, dalla nostra grande scheggia vagante nel vuoto astrale, ricava un fragile ma stabile microcosmo». Ignoto a me stesso diventa così ignoto a tutti noi, perché l'immagine è sempre più ricca e imprevedibile di ogni esperienza diretta della realtà: come scrive André Breton nel suo Manifesto del Surrealismo, «pour moi l'image la plus forte est celle qui présente le. degré d'arbitraire le plus élevé... celle qu'on met le plus longtemps à traduire en language pratique». Edizioni Caposile s.r.l. Aldo Colonetti Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Jean-Jacques Lebel Con Marce! Duchamp pagina 8 pagina 15 Cfr. Gli intellettuali e l'Europa Dialogo con Edgar Morin A cura di Carlo Formenti pagine 26-28 Prove d'artista Mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Luigi Ferrari Pubbliche relazioni: A più voci Alberto Capatti Museo dei musei Il culto del faraone pagina 3 Un soggetto di Artaud A cura di Roberto Carifi pagina 4 I professori sono meglio dei torturatori Intervista di Massimo Cellerino a Richard Rorty pagina 5 Maurizio Ferraris Heidegger e il male dello spirito pagin_e5-6 Avviso ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lunghezza indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per / pacchetti di Alfabeta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a proceTV, doppio pedale Dialogo di Achille Bonito Oliva e Francesco Leonetti pagina 9 I pacche/li di Alfabeta Sergio Givone Ipotesi sul moderno (Modernità e memoria, di U. Perone; Scomposizioni, di R. Bodei; Limina, di F. Re/la) pagina 11 Gioia Zaganelli Il bestiario d'amore (li Bestiario d'amore, di R. de Fournival; Gli ornamenti della donna, di Tertulliano; li viaggio di Carlomagno in Oriente, a c. di M. Bonafin) pagina 12 Francesco Montuori Metropoli ~ museo . (L'antichità: dai Mirabilia alla propaganda politica, di C. Frugoni; Continuità, ·distanza, conoscenza, di S. Settis; L'America, di J. Baudril/ard) pagina 13 dere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e gettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indicazione del domicilio del collaevidenziatore pagine 16-17 La classifica di Antonio Porta Marisa Fiumanò pagina 16 Cfr/da Londra pagina 17 Cfr/da New York pagina 19 Cfr/Mostre pagine 19-20 Cfr/Progetti editoriali pagine 20-2i Cfr/Convegni pagina 21 Cfr/Altri libFi pagina 23 Cfr/Recensioni pagine 24-25 boratore. .., Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «Alfabeta» è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il letGiuliano Scabia Poemetto delramore perfetto pagina 29 Paolo Volponi La meccanica pagina 30 Anna Valeria Borsari Prova d'artista grafica pagina 31 Le immagini di questo numero Gli scrittori si mettono in mostra di Aldo Colone/li alfa bis. 2 Metamorfosi delle materie Paolo Volponi preferisce non risultare nel Comitato di Direzione, per un periodo, in quanto i suoi impegni per il Senato lo trattengono a Roma e a Urbino, impedendogli di avere i contatti tempestivi necessari per l'attività del giornale. In copertina: disegno di Andrea Pedrazzini tore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. li Comitato direttivo Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Fermenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Ancilla Tagliaferri Antonella Baccarin Editing: Studio Asterisco Luisa Cortese Alfabeta servizio abbonati Con nostro estremo rincrescimento, siamo tenuti ad informarVi che per gravi disservizi postali, le copie di «Alfabeta» 100 e 101, consegnate da noi regolarmente rispettivamente in data 15 settembre e 18 ottobre, non sono ancora pervenu~ te agli abbonati. In data 9 no: Monica Palla Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 60.000 Estero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tuili i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati vembre 1987 ci è stata data assicurazione dall'Amministrazione delle Poste Italiane, che tale grave ritardo di spedizione verrà risolto al più presto. Certi della Vostra comprensione,. cogliamo l'occasione per porgervi cordiali saluti. li responsabile Francesco D'Abramo
I Alfa beta 106 A più voci pagina 31 Taccuini useodeimusei. - Il cultodel faraone e i sono, a Parigi, alcuni musei che non ce la fanno più. Due ore di coda per entrare a Cités-Cinés, mostra-padiglione di scenari cinematografici, alla Villette: tutti i più celebri décors e attrezzi, dalla metropolitana del film Subway alle automobili di James Bond. Un caso isolato? Non si direbbe se si considera la fila, intirizzita, immusonita, testarda ad un capo, allegra invece all'altro, che si approssima all'acquisto del sospirato ticket e all'accesso della stazione di Orsay. E, soprattutto, fra cantieri gelosamente mascherati e sale sbarrate da un vecchio cordone, andatevi a vedere la processione sciatta, ciabattona della Grande Galleria del Louvre. Il vero prezzo dell'arte pubblica e statale è la ressa creata dai media e dalle guide turistiche. S'apre, il 15 gennaio, il primo salone internazionale dei Musei e delle Mostre, al Grand Palais. Dieci pagine, in «Libération» migliaia in tutto il mondo. 40 franchi, una sola settimana di apertura, per il Museo dei Musei, con le sue collezioni, edizioni e retroscena. Una occasione unica per conoscere gli uomini, lo spazio e le tecnologie delle future raccolte d'arte. Una sola soluzione: andarci all'apertura e ripartire con il catalogo. Purtroppo solo con il catalogo, perché questo mercato all'ingrosso, questi stand a cubetto, questi dépliant da agenzia di viaggio, denunciano un insieme di miseria, nobiltà e ambizione molto specifico, e valgono, in tutto e per tutto, un padiglione della fiera di Milano o del Levante. Avrebbero dovuto esserci i migliori, dalla Germania all'Unione Sovietica, e inAlberto Capatti vece si notano i soliti due, il Modem art e il Metropolitan di New York, in formato tre metri per tre. Dall'Italia si è mosso solo l'Istituto per i.Beni artistici, culturali e naturali della regione Emilia-Romagna. Dagli altri punti di forza del salone, edizioni di cataloghi, affiches, cartoline, ed infrastrutture, giunge un.certo aiuto: le prime, con Skira, Mazzotta e Flammarion, attestano semplicemente la propria presenza; le altre, le ditte fornitrici di materiali e tecnologie museologiche, hanno seguito una naturale vocazione ed hanno mobilitato, seguendo la logica commerciale, un rappresentante, un catalogo e, in qualche caso, una vetrina, un pannello. La sostanza è che questa fiera, lungi dall'essere internazionale è tutta francese. Hanno risposto una parte di Musei di Parigi e Provincia, e le società che per essi operano. Se la manifestazione, a questo punto, si fosse rivolta . agli addetti ai lavori, non vi sarebbe stato niente da dire, anzi tutto sarebbe andato a vantaggio della prossima scadenza, fra due anni. Invece di buon'ora, alcune scolaresche e il cospicuo numero delle persone a caccia di una idea per i vecchi musei, di una terapia per tutti i nuovi, hanno preso a passeggiare lungo i corridoi prefabbricati, sotto le solite vele di tela bianca. Una folla spaesata, curiosa di progettazioni architet- - toniche, di situazioni d'emergenza simulate (un allarme, un incendio, uno sfregio alla Gioconda) e di sistemi di riproduzione inediti dell'opera d'arte. La corruzione delle superfici, lo sbriciolamento dei materiali, la bassa qualità dell'aria, l'elefantiasi di alcune collezioni e la gracilità di altre, sono ... da troppo tempo parte della nostra cultura artistica per non porci anche questi problemi ulteriori. E invece, in una delle città d'Europa dove più prospera è la programmazione degli spazi artistici locativi, nessun discorso di prospettiva. Parigi soffre della megal~mania e del successo delle sue realizzazioni. Già si prepara un nuovo Louvre, in superficie e nelle fondamenta, ed è appena terminato il fantomatico centro della Villette con la sua Géode per visitare la quale, durante le vacanze natalizie, il turista era invitato a prenotarsi per il giorno dopo. Di fronte ai problemi posti da questa stessa politica culturale - vuoto raggelante in certi saloni pittorici di provincia e gomito a gomito in altri a Parigi - il Salone internazionale non ha tentato di dare una sola risposta, in attesa che una levitazione naturale dei visitatori dispensi una prosperità fraterna ed egualitaria a tutti. Fra ditte di imballaggio e pulizia, climatizzazione e segnaletica, si ritrovano anche due compagnie di assicurazione. È una presenza importante perché, se non altro, ricorda che i problemi di finanziamento e di gestione commerciale sono al centro della museologia e che questa è, in Francia, un affare di Stato. Il primo salone internazionale fà di tutto per velare questa realtà, dando l'impressione di un libero mercato di libere collezioni, esaltando il loro apparente pluralismo (come se da Marsiglia a Rouen non dipendessero dallo stesso Ministero dei Beni culturali). Non c'è bisogno di sottolineare, al di là di quelle piramidi presidenziali che sono il Pompidou o la ViiThomas Eakins, Walt Whitman, National Portrait Gallery Smithsonian Institution Washington, D.C., 1891 lette, quanto questa v1S1onedell'arte sia strumentale. O meglio, perché anche i ciechi non muoiano ignari, un folto gruppo di conservatori, alla vigiglia dell'apertura, hanno già manifestato tutto il loro scontento, prima di ripetere le loro proteste durante la settimana. Il 1989, per una riflessione museologica parigina, è perso: si parla solo della Rivoluzione, dell'Arche de la Défense, del nuovo Louvre. Le folle che già rendono irrespirabile l'aria di certi saloni, vengono studiate come potenziali clienti delle nuove valli dei templi. Eppure i musei in Francia sono già tanti, e forse non godono in egual misura dei privilegi né degli strumenti finanziari adeguati ad una efficace promozione artistica ed educativa. Al Grand Palais sono tutti ospiti con eguale dignità e questo è un principio sacrosanto, ma non nascondiamoci che la strategia del mecenatismo politico assoluto è veramente pericolosa: dissangua i deboli, ipertrofizza le future generazioni, detta la legge della redditività numerica ad una cultura impotente. Dietro alla facciata del primo salone de. musei e delle mostre, sta anche il doloroso caso delle collezioni librarie che danno di sé un modesto, edificante spettacolo. Andate a visitare il Louvre delle biblioteche, la Biblioteca Nazionale: nella sterminata stampa dell'Ottocento e del Novecento, contano più i cenci che le pagine. Se non vi basta consultate i vecchi cataloghi, chiedete i volumi, e poi vedrete che risultati dà il culto del faraone quando non è in gioco la sua immortalità.
I pagina 4 La Conchiglia e il Clergyman Antonin Artaud L ' obbiettivo mostra 4n uomo vestito di nero, occupato a dosare un liquido in bicchieri di varie dimensioni. Si serve, per questo travestimento, di una specie di conchiglia d'ostrica e infrange i bicchieri dopo averli usati. Vicino a lui c'è un mucchio incredibile di fiale. A un certo punto si vede una porta che si apre e appare un ufficiale dall'aria bonaria, beato, gonfio e carico di decorazioni. Trascina con sé un'enorme sciabola. Somiglia a un ragno, negli angoli bui o attaccato al soffitto. A ogni fiala rotta corrisponde un salto dell'ufficiale. Ma eccolo all'improvviso alle spalle dell'uomo vestito di nero. Gli strappa dalle mani la conchiglia d'ostrica. L'uomo lo lascia fare con singolare stupore. L'ufficiale si mette a girare per la stanza con la conchiglia, poi sfodera la sua spada e rompe la conchiglia con un colpo gigantesco. La stanza trema. I lampadari vacillano e ogni immagine prodotta dal tremore riflette la punta di una spada. L'ufficiale esce lentamente e l'uomo vestito di nero, dall'aspetto piuttosto simile a un clergyman, lo segue carponi. Sul pavé di una strada si vede passare il clergyman a quattro zampe. Angoli di strade si dispongono sullo schermo: All'improwiso compare un calesse tirato da quattro cavalli. Nel calesse, lo stesso ufficiale con una bellissima donna dai capelli bianchi. Nascosto in un angolo di strada il clergyman vede passare il calesse, lo segue correndo a gambe levate. Il calesse giunge davanti a una chiesa. L'ufficiale e la donna scendono, entrano in chiesa, si dirigono verso un confessionale. Ma in quell'istante il clergyman fa un balzo e si getta sull'ufficiale. La faccia di questo si deforma, si copre di foruncoli, si spalanca; il clergyman non ha più tra le braccia un ufficiale bensì un prete. Sembra che anche la donna dai capelli bianchi veda il prete, ma in un'altra posizione; in una successione di primi piani si vedrà la testa del prete sdolcinata, affabile quando appare agli occhi della donna, e rude, amara, terribile quando considera il clergyman. Sopraggiunge la notte con stupefacente velocità. Il clergyman solleva il prete sulle braccia e lo fa dondolare; attorno a lui l'atmosfera si fa assoluta. Si ritrova in cima a un monte; sui suoi piedi, in sovrimpressione, si intrecciano fiumi e valli. Il prete si libera come una palla dalle braccia del clergyman, come un tappo che esplode e cade vertiginosamente nello spazio. La donna e il clergyman pregano nel confessionale. La testa del clergyman dondola come una foglia e all'improvviso sembra che qualcosa in lui inizi a parlare. Si rimbocca le maniche e dolcemente, con ironia, dà tre piccoli colpi sulle pareti del confessionale. La donna si alza. Allora il clergyman apre la porta con un colpo di pugno, come impazzito. La donna gli sta di fronte e lo guarda. Lui le si getta addosso strappandole il corsetto come volèsse lacerare i suoi seni. Ma al posto dei seni c'è un carapace di conchiglie. Afferra il carapace e lo solleva per aria facendolo brillare. Lo scuote con frenesia, la scena cambia e mostra una sala da ballo. Entrano delle coppie; alcune in atteggiamento misterioso e in punta di piedi, altre estremamente indaffarate. I lampadari sembrano seguire i movimenti delle coppie. Le donne hanno tutte vestiti corti, mettono in mostra le gambe, gonfiano il petto e hanno i capelli tagliati. Sopraggiunge una coppia regale; sono l'ufficiale e la donna di prima. Prendono posto in un palco. Le coppie si stringono con forza. In un angolo un uomo tutto solo, al centro di un grande spazio vuoto. Tiene in mano una conchiglia d'ostrica per la quale mostra uno strano interesse. A poco a poco si rivede in lui il clergyman. Ma ecco che, per un mutamento di scena, il clergyman entra tenendo in mano il A più voci guscio con cui prima si divertiva con tanta frenesia. Agita il guscio per aria come se volesse schiaffeggiare una coppia. Ma in quell'istante le coppie si congelano, la donna dai capelli bianchi e l'ufficiale svaniscono nell'aria e la donna riappare all'altro lato della sala sotto l'arco di una porta che si è appena aperta. L'apparizione sembra terrorizzare il clergyman. Lascia cadere il guscio che sbriciolandosi emette una gigan~esca fiammata. Poi, come preso da un improvviso senso di pudore, fa il gesto di rivestire la donna. Ma via via che afferra le falde del suo abito per coprirle le cosce si ha l'impressione che queste falde si allunghino e formino un immenso cammino nella notte. Il clergyman e la donna corrono perdutamente nella notte. La corsa è interrotta dalle successive apparizioni della donna in atteggiamenti diversi: ora gonfia le guance a dismisura, ora tira una lingua che si allunga all'infinito e a cui il Marcus Root, Edgar Allan Poe, International Museum of Photografy, George Eastman House, Rochester, New York, 1848 ca. clergyman si attacca come fosse una corda. Oppure il petto le si ingrossa orribilmente. Alla fine della corsa si vede il clergyman che imbocca un corridoio e la donna dietro di lui che galleggia in una specie di cielo. Ecco una grande porta, tutta bardata di ferro. La porta si apre sotto una spinta invisibile e si vede il clergyman che cammina all'indietro e chiama qualcuno che non arriva. Entra in una grande stanza dove c'è un'immensa palla di vetro. Camminando a ritroso si avvicina alla palla e continua a chiamare la persona invisibile. Si sente che la persona è presso di lui. Le sue mani salgono nell'aria come se stringesse un corpo di donna. Poi, quando è sicuro di trattenere quest'ombra, questa specie di doppio invisibile, si getta su di esso, lo strangola con delle espressioni d'inaudito sadismo. E si sente che introduce in un vaso la sua testa tagliata. Alf abeta I 06 j -; aud Lo si ritrova nei corridoi mentre, con fare allegro, gira una chiave tra le proprie mani. Entra in un corridoio, in fondo c'è una porta, apre la porta con la chiave. Oltre questa porta c'è un altro corridoio, in fondo ad esso una coppia in cui sono riconoscibili la stessa donna e l'ufficiale carico di decorazioni. Inizia un inseguimento. Dei pugni scuotono una porta da ogni lato. Il clergyman si ritrova nella cabina di una nave. Si alza dalla cuccetta ed esce sul ponte della nave. Là c'è l'ufficiale, incatenato. Sembra che il clergyman si raccolga in preghiera, ma quando solleva il capo, all'altezza degli occhi dell'ufficiale, due bocche congiunte gli rivelano la presenza di una donna che prima non c'era. Il corpo della donna è sospeso per aria in posizione orizzontale. Un parossismo lo scuote. Sembra che-le dita delle sue mani cerchino un collo. Ma tra le dita ecco dei cieli, dei paesaggi fosforescenti, e lui tutto bianco, quasi un fantasma, passa con la sua nave sotto delle volte di stalattiti. La nave vista di lontano in un mare d'argento. E si vede in primo piano la testa del clergyman che dorme e respira. Dal fondo della sua bocca semiaperta, tra le ciglia escono dei fumi luccicanti che si raccolgono tutti in un angolo dello schermo, formando uno scenario urbano o dei paesaggi di estrema luminosità. La testa finisce per scomparire del tutto e delle case, dei paesaggi, delle città si susseguono e si snodano formando lagune e grotte di stalattiti incandescenti in una specie d'inaudito firmamento; e sotto queste grotte, tra le nubi, in mezzo alle lagune, si vede la sagoma della nave che passa e ripassa sullo sfondo bianco delle città, un bianco scenario di visioni che all'improvviso divengono oscure. Da ogni parte si aprono porte e finestre. La luce penetra a sprazzi nella camera. Quale camera? Quella con la palla di vetro. Servi e fantesche invadono la stanza con granate e secchi precipitandosi alle finestre. Da ogni parte si lucida intensamente, con impegno frenetico. Una specie di rigida governante, tutta vestita di nero, entra con una bibbia in mano e si avvicina ad una delle finestre. Quando si può distinguere il suo viso si vede che è la stessa bella donna di poco fa. Fuori, in una strada, è possibile scorgere un prete che cammina in fretta, e più lontano una fanciulla vestita da giardiniera con una racchetta da tennis. Giuoca con un giovane sconosciuto. Il prete penetra nella casa. Da ogni parte arrivano dei valletti che finiscono per formare un imponente corteo. Ma per fare le pulizie è necessario spostare la palla di vetro che non è altro che una specie di vaso pieno d'acqua. Il vaso passa di mano in mano. Sembra quasi di vedere una testa che si muove. La governante manda a chiamare i giovani nel giardino; il prete è là. In loro sono ancora riconoscibili la donna e il clergyman. Sembra che si stia per celebrare il loro matrimonio. Ma a questo punto, a ogni lato dello schermo, si accumulano e compaiono le visioni che passavano nel cervello del clergyman addormentato. Lo schermo è diviso in due dall'apparizione di una nave immensa. Lanave sparisce, ma da una scala che sembra salire fino al cielo scende il clergyman senza testa e con in mano un pacco avvolto nella carta. Appena giunge nella stanza dove sono tutti riuniti, scarta il pacchetto ed esce fuori la palla di vetro. L'attenzione di tutti è al culmine. Allora lui si spenzola in basso e rompe la palla di vetro: ne esce una testa che è proprio la sua. Questa testa raggrinzisce orrendamente. La tiene in mano come un cappello. La testa è immobile sopra una conchiglia d'ostrica. Appena awicina la conchiglia alle labbra la testa si fonde e si trasforma in una specie di liquido nerastro che lui sorseggia a occhi chiusi. Traduzione dal francese di Roberto Carifi Nota del curatore L a Coquille et le Clergyman, pubblicato nel novembre del 1927 sulla «Nouvelle Revue Française» e depositato presso l'Association des Auteurs de Films il 16 aprile, è l'unico soggetto cinematografico di Artaud che sia stato portato sullo schermo, realizzato da Germaine Dulac (fu girato tra giugno e settembre dello stesso anno). Interpretato da Alex Allin, Génica Athanasiou e Bataille ebbe una prima proiezione privata il 25 ottobre del 1927; fu presentato al pubblico il 9 febbraio del 1928 presso lo studio delle Ursuline. Lo stesso Artaud, in un artic~lo dal titolo Le cinéma et l'abstraction comparso su «Le Monde illustré» il 29 ottobre del 1927, scriveva: «La conchiglia e il Clergyman non racconta una storia bensì sviluppa una serie di stati dello spirito che si deducono gli uni dagli altri come il pensiero si deduce dal pensiero, senza che questo pensiero riproduca la serie ragionevole dei fatti». Il soggetto del film è concepito da Artaud come qualcosa di simile alla «mécanique d'un reve» senza essere tuttavia un sogno. Prima ancora di essere un film La Coquille et le Clergyman si configura, secondo quanto dichiara l'autore in una nota sui «Cahiers de Belgique» (n.8, ottobre 1928), come una riflessione attorno «al lavoro puro del pensiero». Particolare illuminante è il testo Cinéma et réalité, comparso come introduzi0ne al soggetto sul numero citato della NRF: «Non si tratta - scrive Artaud - di trovare nel linguaggio visivo un equivalente del linguaggio scritto di cui quello visivo non sarebbe che una cattiva traduzione, ma di rendere tangibile l'essenza stessa del linguaggio e di trasportare l'azione su un piano dove ogni traduzione diverrebbe inutile e dove l'azione stessa agisca quasi intuitivamente sul cervello». L'intenzione di Artaud era quella di creare un film dove le immagini si producono «da una specie di necessità interiore e potente che le proietta nella luce con una evidenza che non ha bisogno d'altro». Ricordo che la realizzazione della Dulac fu per Artaud una delusione. La polemica scoppiò violentemente alla prima del film dove alcuni surrealisti, tra cui Robert Desnos, presero le parti di Artaud che accusava la regista «di aver deformato delle immagini poetiche di cui non capiva il senso». Roberto Carifi
I Alfa beta 106 A più voci Taccuini sonome= o dei to Massimo Cellerino. In Conseguenze del pragmatismo Lei ha definito la filosofia «un genere di scrittura». Che importanza attribuisce a quelle proposte filosofiche che mostrano particolare interesse per la letteratura (penso soprattutto al lavoro di Jacques Derrida)? Richard Rorty. Credo che ciò che soprattutto intriga in autori come Derrida sia il fatto che essi non tentano di porre una distinzione tra testi filosofici e testi letterari; semplicemente considerano i testi filosofici come altri testi letterari, o i testi letterari come altri testi filosofici, non importa in che modo la si metta. E questo atteggiamento, di vedere i grandi filosofi nello stesso modo in cui vediamo i grandi poeti o i grandi romanzieri, cioè in una sequenza genealogica, una grande tradizione, ma non individuata da metodi o temi, è un salutare passo in avanti. Credo vi siano sostanzialmente due modi di considerare i grandi testi filosofici del passato: li si può vedere come parti di un unico discorso al quale è essenziale una pretesa di validità universale; oppure li si può vedere semplicemente come ulteriori fatti storici, nel senso di stimolazioni più particolari, alla stessa stregua degli stimoli forniti dagli eventi politici e letterari del presente, rispetto ai quali noi tentiamo di sviluppare un risposta adeguata. Cellerino. A questo proposito, vorrei che Lei si soffermasse un poco sul problema del rapporto tra riflessione filosofica e tradizione. Com'è noto, questo è uno dei temi fondamentali della filosofia ermeneutica di Heidegger e di Hans Georg Gadamer. Per l'ermeneutica, la filosofia è esercizio di comprensione storica; è solo attraverso il lavoro filosofico sulla cultura e sui testi del passato che possiamo giungere a comprendere il nostro presente, in un dialogo continuo con la tradizione che ci costituisce e che non possiamo mai dominare compiutamente, a causa della essenziale opacità della stessa tradizione storica. Nei termini di Gadamer, si tratta di mantenere la nozione hegeliana di spirito oggettivo (la moralità, le istituzioni, l'essere della comunità così come si è depositato nel linguaggio) rinunciando a quella di spirito assoluto (il sapere assoluto, la legge che governa il cammino della storia, la piena I I dibattito sul nazismo di Heidegger s~mbra presentare due aspetti. Il primo, secondario, verte sulle responsabilità personali di Heidegger, sul suo coinvolgimento politico, in qualità di rettore dell'Università di Friburgo e di professore di filosofia, con il terzo Reich; ma qui sembra intempestivo indignarsi proprio adesso di ciò che si sapeva da tempo (lo sapevano, per esempio, gli Alleati, che sospesero Heidegger dall'insegnamento sino al 1951). È certo più importante il secondo aspetto, che mira a stabilire quanto della filosofia di Intervista di Massimo Cellerino a Richard Rorty autoconsapevolezza del soggetto, ecc.). Si tratta, in altre parole, di prendere atto di quella tendenza alla «secolarizzazione» della filosofia che accomuna gran parte del pensiero contemporaneo, e in cui certo anche il pragmatismo si riconosce. C'è tuttavia almeno una, significativa differenza tra la Sua posizione e quella dell'ermeneutica di ascendenza heideggeriana: mentre per Gadamer e l'ermeneutica il lavoro filosofico interpretativo sulla tradizione. sulle «forme simboliche» della cultura, resta un compito essenziale e ineludibile per il pensiero, Lei parla addirittura di fine della filosofia, di esclusione della filosofia dalla cultura. Così abbiamo da un lato la pretesa di universalità (Universalitatsanspruch) della filosofia ermeneutica, che si propone come riflessione sulla storicità costitutiva dell'essere dell'uomo, e in quanto tale dotata di cogenza universale; d'altro lato, la negazione pragmatica dell'importanza della filosofia. Rorty. Ecco innanzitutto, riguardo alla tradizione, io non credo che la si debba considerare come una grande struttura monolitica necessitante. C'è semplicemente un complesso di contingenze storiche che, per ragioni contingenti, sono rilevanti per la nostra situazione, e tentiamo di costituirle in un passato di cui possiamo servirci (la Wirkungsgeschichte di Gadamer) sulla base dei problemi morali, spirituali, politici in cui incidentalmente ci troviamo. Dato un tale senso di contingenza, non credo abbia molto senso parlare di pretesa di universalità o di ontologia: per avere un'ontologia c'è bisogno di un soggetto, dell'essere, di qualcosa. E se non c'è alcun soggetto tranne quelle particolari contingenze storiche rilevanti per la situazione in cui ci troviamo, allora la nozione di ontologia non sembra avere alcun valore; e ritengo che nella situazione politica e intellettuale in cui le democrazie si trovano in questa fine di secolo, esse non abbiano affatto bisogno della filosofia. Mi sembra che esse si trovino in una cultura pienamente secolarizzata, in cui non ha più senso l'idea della filosofia che fa quel genere di cose che la religione era solita fare, qualcosa come riempire il vuoto che è stato lasciato. Ad esempio, nel suo libro Der philosophische Diskurs der Moderne, Habermas suggerisce continua- ... mente che sin dai tempi di Hegel la questione è stata: quale sistema di credenze può mantenere unita la società ora che è venuta a mancare la religione? Questa mi sembra una cattiva domanda, dato che non vedo perché debba esservi un sistema di credenze. Mi sembra che' abitudini, speranze, interessi, aspirazioni, un'infinità di cose tengano unita la società. E quanto più una società diviene libera ricca democratica colta, tanto meno ha bisogno di un sistema di credenze comuni, e di conseguenza tanto meno ha bisogno di una filosofia con pretese di universalità. Può avere di più senza. Ce rt 11 non ci siamo ancora arrivati, ma la direzione in cui le più ricche democrazie si muovono è una società che non ha bisogno di ciò che Habermas crede. Il fatto poi che la pretesa di universalità sia una caratteristica della tradizione filosofica non mi colpisce come ciò che vi è di importante, poniamo, in Kant, Hegel, o Nietzsche. Ciò che è importante in questi pensatori è quello che essi possono fare per noi ora. Il fatto che avessero una tale pretesa è soltanto un ulteriore fatto storico relativo a loro. Non penso che il tipo di cose che io ammiro nella filosofia contemporanea sia _necessariamente implicato in tale aspirazione all'universalità. Lo ritengo implicito in tale tentativo non più di quanto non lo sia la critica letteraria contemporanea. Se la critica letteraria non ha una tale pretesa, non vedo perché la debba avere la filosofia. Cellerino. Neanche il pragmatismo? Voglio dire, non Le sembra che il Suo pragmatismo neghi l'universalità della filosofia con un argomento che pretende a sua volta di essere universale? Rorty. No, considererei il pragmatismo soltanto un'altra forma di critica letteraria che incidentalmente si occupa di un certo gruppo di testi, quelli appunto detti filosofici. Cellerino. Ma non crede che il pragmatismo, come l'ermeneutica, la filosofia analitica, parli il «linguaggio della filosofia», e che quindi appartenga ad una tradizione di argomentare razionale (la storia della filosofia, in una parola) con cui in qualche modo occorre fare i conti? In altri termini, se si nega la cogenza della tradizione è comunque difficile argomentare, in un senso o nell'altro. Taccuini Heidegger (o addirittura della filosofia tedesca o della filosofi.a tout court) sia totalitario, lontano dall'immagine della filosofia come emancipazione, amore disinteressato per il sapere, ricerca del maggior bene per l'umanità, ecc. Proprio intorno a questo problema ruota un saggio recente di Jacques Derrida, De l'esprit. Heidegger et la question (Paris, Galilée, 1987), che riproduce il testo di una conferenza letta nel marzo dell'anno scorso nell'ambito del convegno Heidegger: questions ouvertes organizzato a Parigi dal Collège International de Philosophie. Ora però non è «totalitarismo» né «nazismo» la parola-chiave che guida Derrida nella sua discussione, bensì «spirito» (o meglio, per ragioni che vedremo presto, Geist, lo spirito in tedesco e lo spirito tedesco); ciò che è tanto più paradossale in quanto «spirito» non sembra, almeno sulle prime, una parola centrale per la riflessione heideggeriana. Anzi, Geist rinvia all'apparato concettuale della metafisica e alle sue contrapposizioni tradizionali (soggeto/oggetto, res cogitanslres extensa, e, appagina s j ·atori Rorty. Non credo che ci sia un «linguaggio della filosofia». Proprio come non c'è un linguaggio della poesia inglese, ma c'è solo una serie di poesie, così c'è soltanto una serie di testi, da Platòne a Wittgenstein. Quanto alla distinzione tra razionale e non-razionale, suggerirei di intenderla come la distinzione tra persuasione e forza: ad un certo punto noi cambiamo le nostre credenze, perché qualcuno ha suggerito un'ipotesi alternativa, ha proposto un nuo- , 1, argomento, o anche una nuova inven111111c; qualcosa che vale come razionale perché, guardando indietro, possiamo vedere una serie di fenomeni comportarsi in maniera prevecjibile. date appunto le nuove credenze che si sono affermate. Non vale come razionale quando è tortura, quando nuoce. Mi sembra che dal punto di vista del pragmatismo il problema di come si possa assicurare la razionalità abbia una risposta politica piuttosto che filosofica: la razionalità si assicura rinforzando le libertà democratiche, rifiutando la tortura, la propaganda, a favore di una sempre maggiore cultura, di tutte le classiche virtù liberali, insomma. Ma i cambiamenti politici che allargano lo spazio della discussione e la rendono più libera, più semplice; più alla portata generale, non originano in alcun modo dalla filosofia. Non è alcuna particolare concezione filosofica circa la conoscenza, l'essere, la storia a renderci aperti alle opzioni di razionalità e democrazia; ciò che ci rende disponibili a tali opzioni è •una maggiore varietà di possibili credenze e desideri e un maggior grado di libertà nel decidersi per queste alternative. Cellerino. Rimane tuttavia sempre un dubbio di fondo'.· si potrebbe cioè sollevare l'argomento nietzsche1111s0econdo cui non e' è alcuna ragione di preferire la pèrsuasione alla forza, se non il fatto che «siamo professori». Rorty. È proprio ciò che io intendo con autoconsapevolezza morale. Voglio dire: noi professori siamo migliori dei torturatori. È una cosa altrettanto chiara quanto il fatto che la teoria di Lavoisier era migliore di quella del flogisto. Insomma, da qualche parte bisogna pur partire. punto, spirito/materia), che Heidegger si proponeva di scardinare con Essere e tempo: dove, in effetti, «spirito» non compare che tra virgolette, come termine improprio, da evitare e da censurare alla ricerca di una concettualità nuova. Se queste sono le premesse, l'evoluzione del cammino di pensiero di Heidegger, che dopo Essere e tempo presenta una crescente radicalità, dovrebbe condurre alla completa cancellazione dello spirito dal vocabolario dell'oltrepassamento della metafisica. Accade però proprio il contrario. Nel
ca -e ... ca .e E o - ca G) e: ■- - ca -- G) -e ■- ... G) o c. Q) - e, (U - - (U Jl .!! Q) "O (U C0 -co (U O) U) .... I Q) o= Q) .. u 0. =e (U Q) U) E ,... 00 =m Q) Jl - (U = U) u o e (U e e, Q) ai E I , I i ' I I, /' f -I . ' f t j I I I I ! , I Q) E-- a, c -o :::J::: ~ ::I :a.e ~0 u oc e ('Cl ~ ... ... - 'E..: oc () ('Cl ci:, ::o cn ·- 0 "' 'tJ :::J•- - ::I () e, e +:; :E Q) (,) Ou a. ::I ·- u cnO e ·;::; Q>•- () 5 ~ ('Cl -o E o -·- ·- u, "O "' Q) 0 ~ ... i.o 0 ex> c O) ('Cl ~ ·a, O) +:; e o a. Q) aa . . Q) cn :::J O) ~·;:; ·- C\I.:: t LO ~ .E O) ('Cl o () T"" - ('Cl ai u, "O 0 .... u ~-- ,!) ... E a> o :e - ('Cl ~ ~ ~-s: =e ~u - Q) a,_ "O Q) ·- ('Cl -::: Q) ('Cl g_... w ·- _,, ...... .... ~ E ~ ('Cl E u o ~ u e .... 0 $ -~~ * 'ci) -ti <l) ·- c ~c._ "O ('Cl ...,; u, .s Q) •.: .._ c -Bo ·- .e N ('Cl N '- ::::,._ -c oc ·- ('Cl e,> ... 0 o._ ·mm ·- ò -o c ,9 ·.::: ~0 -·- ... ('Cl ~E -o Q) - "O ... ~ ('Cl ... (,) ·- c () ('Cl cn ·- :::, e, - ~ Q) ('Cl -o.e ... Q) Q) §o ·- c "' ('Cl ~-- () u () ::I o- ~ o t1l e.._ a,3 co,B _!!lll Cl)= E l1l ·- o "0 cii Cl) ... e~ :i 1/) Eo 3l Il) u t1l I pagina 6 A più voci Alfabeta 106 I 1933. sei anni dopo Essere e tempo. e in un contesto carico di conseguenze come il Discorso di reuorato. Heidegger ritorna allo spirito con un pathos inatteso: e non esita a farsi carico della guida spirituale di un'alta istituzione come l'Università di Friburgo, espressione eminente dello spirito (senza virgolette) tedesco. ecc. Sarebbe troppo facile (e comunque ricondurrebbe riduttivamente alla questione dell'adesione personale di Heidegger al nazismo) ravvisare nel ricorso allo spirito un semplice espediente retorico. Casomai. si tratta di una ricaduta nella metafisica, e questo incomincia a portarci verso il nocciolo del problema. Ricorrere allo spirito, in un discorso politico come la prolusione rettorale, ma anche fuori da contesti così retoricamente condizionati (come per esempio nella Introduzione alla metafisica. del 1935) significa, per Heidegger. situarsi in un nodo molto forte della identità nazionale tedesca, che si è costituita non tanto sulla continuità di una storia o sulla garanzia di confini naturali evidenti ma sulla base di una identità spirituale. E precisamente: i tedeschi sono il popolo dello spirito. il popolo filosofico per eccellenza. che ha ricevuto in sorte di essere guardiano «del fuoco sacro, come la famiglia degli Eucolpidi ad Atene aveva la custodia dei misteri di Eleusi» (secondo l'espressione di Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia). Sarebbe ancora troppo facile, e troppo rassicurante. risolvere tutto in una stigmatizzazione dello spirito tedesco che si gonfia nella propria auto-affermazione, prima come nazionalismo, all'epoca dell'idealismo trascendentale, e poi, ancora più sinistramente, come nazismo. all'epoca di Heidegger. Il problema piò serio sta forse in questo. che non è possibile contrapporre i valori dell'umanismo alla perversione nazionalistica dello spirito. proprio perché il nazionalismo non è l'antitesi dell'uma.nismo, bensì la sua protesi, o metastasi, o - più ancora - la sua proiezione in grande scala. Da questo punto di vista, lo spirito tedesco nelle sue implicazioni anche più perturbantemente nazionalistiche e totalitarie fa parte della tradizione umanistica nelle sue maggiori pretese di universalità e di sovranazionalità. È un nesso intricato, ma che non si può sciogliere con delle dichiarazioni di principio, con la condanna di una filosofia. totalitaria o della parte totalitaria di una filosofia e di una tradizione nazionale. Perché attraverso la condanna dello spirito. anche come Geist e forse soprattutto come Geist, l'umanismo va contro se stesso, contro la definizione dell'uomo, come essere spirituale, separato, proprio in forza dello spirito, dall'indifferente natura, dalla barbarie. dall'animalità. Basti pensare - e questo è certo uno dei problemi più densi - che il discorso sui diritti dell'uomo con cui ci si oppone normalmente al totalitarismo si appoggia all'assiomatica dello spirito - cioè a quella stessa assiomatica che sta alla base del nazionalismo dello spirito - Geist. ecc. L o spirito che si infiamma nel Discorso di reltorato non è costitutivamente diverso dallo spirito che si infiamma nel discorso sui diritti dell'uomo. Per esempio, ha le sue stesse animadversioni. La difesa del «propriamente umano», nell'appello ai diritti dell'uomo come anche nell'appello alla missione spirituale della Germania, comporta, ad esempio, la medesima rigida linea di demarcazione tra uomo e animale che urta contro un eventuale discorso sui diritti degli animali. L'animale non muore. decede. l'animale non ha una mano, ma un arto: sono affermazioni heideggeriane molto note, che segnalano. come sottolinea Derrida, un caratteristico cedimento nei confronti della metafisica (e dunque dell'umanismo e dell'apologia dello spirito). (Di qui, paradossalmente, Heidegger risulta in parte scagionato. in quanto il richiamo allo spirito si pone come antitesi rispetto al vitalismo. al biologismo e insomma alla teoria della «belva bionda» di Rosemberg.) Si ripropone il nesso difficile da aggirare tra umanesimo e terrore. «Non ci si può smarcare dal biologismo. dal razzismo nella sua forma genetistica. non si può opporvisi se non reinscrivendo lo spirito in una determinazione opposizionale. facendone una unilateralità della soggelfività [... ]. La costrizione di questo programma resta molto forte, regna sulla maggior parte dei discorsi che, oggi e ancora per molto tempo, si oppongono al razzismo, al totalitarismo, al nazismo, al fascismo, ecc., e lo fanno in nome dello spirito, addirittura della libertà dello spirito, in nome di una assiomatica - per esempio quella della democrazia o dei 'diritti dell'uomo' - che, direttamente o no, ha a che fare con la metafisica della soggettività» (De l'esprit, p. 65). È nel quadro di un discorso sui diritti dell'uomo, e della umanità europea, che Husserl, nella Crisi delle scienze europee, (1935), sostiene che gli Americani fanno parte, «in senso spirituale» dell'Europa, mentre ne sono esclusi gli Esquimesi, gli Indiani, e gli Zingari «che vagabondano perennemente in tutt'Europa» . Almeno per Husserl, che tiene le sue conferenze a Vienna, alla vigilia dell'Anschluss ( e dopo essere stato allontanato dall'insegnamento perché ebreo) dovrebbero essere esclusi i secondi fini pratici e in base a cui si sarebbe tentati di risolvere o di accantonare la questione del nazismo di Heidegger. Husserl è portato a ritenere che la crisi della umanità europea sia indotta dall'ingresso di qualcosa di totalmente eterogeneo allo spirito, da un principio barbarico o maligno (per quanto poi proprio l'apologia husserliana dello spirito europeo espliciti. suo malgrado e, in qualche modo, contro ogni sua intenzione cosciente, una tendenza totalitaria che è implicita nello spirito che contrappone l'umano all'inumano, lo spirito di ~ma nazione a quello di altre nazioni e poi, con una estensione crescente, lo spirito dell'umanità europea contro coloro che vi sono estranei, come gli Zingari nella ricostruzione di Husserl). Nel 1953, dunque vent'anni dopo il Discorso di reltorato, Heidegger ritorna ancora una volta alla questione dello spirito (in Il linguaggio della poesia. Il luogo del poema di Georg Trakl, poi raccolto in In cammino verso il linguaggio, 1959): «Che cosa è lo spirito?», si chiede Heidegger interrogando Trakl; la risposta è: «lo spirito è fiamma». In un discorso fortemente orientato da Schelling, per il quale lo spirito umano, a differenza di quello divino, può dividersi in se stesso, e portare insieme il bene e il male, la salvezza e la catastrofe, Heidegger ci invita a pensare che la stessa fiamma brucia nell'enfasi nazionalistica e nel suo opposto, nella giustificazione del totalitarismo e nella condanna dei suoi esiti. Siamo molto vicini alla dialettica dell'Illuminismo, in cui Horkheimer e Adorno riconoscono la segreta complicità fra umanesimo e nichilismo, e anche tra l'Illuminismo come veicolo di emancipazione e l'Illuminismo come strumento in mano ai «grandi artisti del governo» (secondo una intuizione di Nietzsche). Il totalitarismo, il razzismo, la barbarie non sono l'altro rispetto allo spirito dell 'uomo e all'umanesimo come sua espressione e apologia; in essi non ci si esilia nell'inumano, ma si permane ancora totalmente nell'orizzonte dell'uomo. Proprio questo fantasma difficile da esorcizzare, da rigettare fuori dell'umanità, costituisce il problema più serio. «Il nazismo non è nato nel deserto. Lo si sa bene, ma bisogn'a ricordarlo sempre. E quand'anche, lontano da qualsiasi deserto, fosse cresciuto come un fungo nel silenzio di una foresta europea. lo avrebbe fatto all'ombra di grandi alberi. al riparo del loro silenzio o della loro indifferenza. ma nello stesso terreno. Ne redigerò il catasto di questi alberi che popolano l'Europa come una immensa foresta nera. non ne enumererò le specie. Per ragioni essenziali, il loro regesto trascende lo spazio di una semplice mappa. Nella loro fitta tassonomia, porterebbero il nome di religioni, di filosofie, di regimi politici. di strutture economiche, di istituzioni religiose o accademiche. In breve. di ciò che si chiama confusamente la cultura o il mondo dello spirito» (De l'esprit. p. 179).
I Alfabeta 106 A più voci pagina 71 otFOvato un romanzoinedito di Palazzeschi L a cronaca del ritrovamento del manoscritto di un romanzo inedito è tema in genere çonfinato al margine di una nota testuale che ne corredi l'edizione critica. In tal modo il ricercatore e lo studioso frappongono un diaframma di modestia fra le proprie affermazioni e il risultato dei propri lavori. Tale cautela appare oggi tanto più necessaria quanto più, da molte parti, si sentono esporre crescenti dubbi e perplessità sulla corretta gestione del rapporto tra deontologia critica e mercato editoriale. Lascerò da parte gli interrogativi, pur legittimi, sul grado di «falsità» connaturato a quell'atto di ritegno e affronterò invece u·na particolare occorrenza di questo caso.Ritengo in altre parole necessario e indispensabile dar conto del reperimento di un inedito, tracciando una storia delle circostanze, almeno in tutti quei casi in cui proprio quella storia possa servire a gettare una luce chiarificatrice sulla possibile interpretazione dell'opera. Dopo il lascito testamentario redatto nel febbraio del 1974 e purtroppo reso esecutivo nello stesso anno dalla morte di Palazzeschi, l'Università di Firenze e la Biblioteca della Facoltà di Lettere dettero inizio alla sistemazione complessiva della ingente eredità. Ovvio che l'interesse maggiore per le ricerche letterarie dovesse essere costituito dalla possibilità di analizzare, nella loro totalità, sia l'iòsieme di tutti i materiali epistolari sia il corpus degli autografi che Palazzeschi aveva conservato per tutta la vita. Ma è anche ovvio che l'operazione doveva essere condotta con estreme acribia e cautela. Depositi e costituzioni di Fondi di autori contemporanei presso istituzioni accademiche non sono certo fenomeni rari: ben più difficile è però riscontrare il caso di Università che siano nominate, di fatto e in diritto, «eredi universali» di un autore, così come avveniva con Palazzeschi. La ricerca doveva quindi concentrare le energie non tanto nell'indagine di una «parte» da cui poter trarre poi notizie decisive per la conoscenza di un «tutto». ma proprio nel non frammentare la totalità a disposizione in un'eccessiva predilezione per alcuni settori. II primo risultato di tale lavoro fu quindi il convegno di studi palazzeschiani tenutosi a Firenze nel 1976 (gli atti vennero pubblicati da Il Saggiatore) e la parallela mostra documentaria curata da Siro Ferrone che, nel catalogo, esponeva una prima valutazione sullo stato dei lavori. Esaurita questa prima fase e conclusasi anche la sistemazione delle proprietà immobiliari e «artistiche» di Palazzeschi (prima fra tutte queste ultime la splendida collezione di tele di De Pisis) venne dato inizio anche al lavoro di catalogazione della biblioteca personale dell'autore e, infine, degli autografi in suo possesso. Era qui che, sepolto in un insieme df più di trentamila materiali epistolari e di più di trecento manoscritti autografi delle opere, si trovava anche il romanzo inedito Interrogatorio della contessa Maria. Ho detto sepolto perché certo nessuno avrebbe potuto supporne in anticipo l'esistenza. Nel corso della sua lunga carriera letteraria Palazzeschi aveva avuto più volte l'occasione e il desiderio di curare edizioni complessive delle proprie opere, offrendo parallelamente prefazioni e avvertenze che Fabrizio Bagatti ne giustificavano bio-bibliograficamente trambe le stesure autografe riportavano già l'impianto e la scelta. le indicazioni dei corsivi a uso del tipograDisponibilità palazzeschiana da un lato e fo, quali motivi hanno spinto l'autore a taconfronti bibliografici dall'altro avevano cere sull'opera per quasi cinquant'anni? insomma creato una palpabile sensazione Non dubito che validi motivi di auto-censudi certezza riguardo ai testi editi e non, ri- ra possano anche apparire fin troppo evifiutati, corretti o riadattati. Si conoscevano denti al lettore del romanzo, considerate la ad esempio come inedite le poesie cui Pa- tematica e l'efficacia del linguaggio scelto; lazzeschi lavorava quando lo colse la morte evidenti magari per quel lettore che non e che, nel suo disegno, dovevano presenta- ricorda come Palazzeschi avesse tranquillare il titolo definitivo di Nove sinfonie. Stes- mente corso analoghi rischi pubblicando sa cosa si poteva dire della traduzione de Il certe pagine del Perelà o alcune poesie del rosso e il nero di Stendhal o anche, come primo periodo (penso ad esempio a I fiori). rarità più che effettivi inediti, le recensioni Del resto le temperie morali sono rapicinematografiche r--:-------;~,;g"""• ...... .,....___.,...,.. damente mutate nel pubblicate su «Epo- corso del secolo e Pa- •ca» nel biennio 1950- lazzeschi poteva ri1951. Insomma, un prendere in mano il corpus che, sebbene lavoro e coronare da riordinare, non con la stampa una faoffriva a tutta prima tica non indifferente, clamorose sorprese. a giudicare dall'imSembrava quindi più pegno profuso nel laimpellente porre un bar limae di cui fa fecriterio ordinatore de soprattutto la priper l'enorme episto- ma delle due redalario e in tale direzio- zioni. E vale la pena ne mi sono mosso a di sottolineare qui partire dall'inverno che i due manoscritti del 1983. Anche da dell'Interrogatorio questo lungo lavoro presenti nel Fondo sono giunti buoni ri- testimoniano solo la sultati: grazie alle fase terminale del lalettere conservate da varo palazzeschiano, Palazzeschi si sono quello che in realtà potuti chiarire me- andrebbe definito glia aspetti intricati come «penultima» e della letteratura no- «ultima» stesura. In vecentesca. Ne fanno genere Palazzeschi, a fede, ad esempio, la questo stadio, operamostra sul Futurismo va solo sul cesello stia Firenze: 1910-1920 listico formale, aventenutasi nel 1984 (il do già risolto al nocatalogo è pubblicato vanta per cento i da Sansoni), il con- dubbi strutturali. Tra vegno su Corazzini l'uno e l'altro degli svoltosi a Roma nel autografi del roman1987, l'edizione del zo, l'autore si limita carteggio con Prez- a snellire punteggiazolini curata da Mi- ture zoppicanti, prechele Ferrario per le cisare sostantivi e agEdizioni di Storia e gettivi forse troppo Letteratura (1988). indefiniti con miFresco di stampa è croinserimenti seanche il carteggio mantici finalizzati alcon Maria Luisa Bel- la dissoluzione di leli (Manni, Lecce, possibili anacoluti, 1987) ricco di indica- addolcire eccessive zioni sui rapporti tra forzature paratatti- Benjamin D. Maxham, Henry David Thoreau, Palazzeschi e il futu- National Portrait Gallery, che con una maggior rismo. SmithsonianInstitution Washington,D.C. resa «musicale» della D ai manoscritti, tuttavia, e proprio quando l'intera catalogazione pareva avviata alle tappe conclusive, doveva uscire la sorpresa più grande. L'Interrogatorio della Contessa Maria è ora nelle librerie e per quanto riguarda una descrizione tecnica delle due stesure manoscritte faccio ovvio riferimento alla Nota al testo che vi ho inserito. Resta aperto in ogni caso un interrogativo di non poco conto: perché mai Palazzeschi ha così accuratamente messo da parte un romanzo che già nel 1926 aveva annunciato al pubblico come imminente? Posto che di imperfezioni o incompiutezze non si può parlare, enlingua. Il romanzo era dunque, nella sostanza, perfettamente compiuto: il che riporta all'interrogativo di partenza. La risposta che qui vorrei proporre (con un grado di probabilità che è almeno pari alle altre possibili) è che il romanzo contenga, al suo interno, già nel suo proporsi come tale, la soluzione del problema. In altri termini è plausibile che l'autore abbia manovrato scientemente per costruire l'inedito, che lo abbia ideato così come si può fare con un ordigno a tempo: soluzione certo più unica che rara e che trova solo in Montale, stando agli ultimissimi reperti, una certa similitudine d'intenti. (Andrebbe forse ricordato che proprio Montale e Palazzeschi strinsero una fraterna amicizia per un lasso non disprezzabile della loro vita?) Visto da questa prospettiva, l'inizio di Interrogatorio della contessa Maria acquista un'inquietante capacità stimolatrice: tutte le considerazioni metanarrative, che parrebbero solo una elaboratissima captatio, trovano invece una loro ben precisa compiutezza strategica e progettuale. Il passo che qui riporto di seguito ne se- •gna il culmine fino quasi a sconfinare nella profezia: «[... ] e se a me per un caso venisse il capriccio o ad altri che potessero un giorno presso di me rintracciarle fra le mie carte, di rendere di pubblico interesse queste annotazioni, questi appunti, che in questo piccolo inserto racchiudo sotto il titolo: 'interrogatorio della contessa Maria' e se per caso ad essa capitasse di leggerli riscontrandovi la sola virtù del mio sforzo per esserle fedele, dovendo riscontrare com'io •mi sia arrabbiato, ingegnato, per non turbare la sua colla mia personalità, avrà un benevolo sorriso di compassione per me». Superfluo aggiungere, dato che ormai era prevedibile, che Palazzeschi aveva fisicamente raccolto i due autografi in un «inserto» cartonato che recava la dicitura del titolo. Strane coincidenze e certo eccessive nel numero per essere solo puri accidenti casuali. Il fatto è che qui abbiamo a che fare con un autore che risponde al nome di Aldo Palazzeschi; un autore che negli stessi anni del!' Interrogatorio precisa il titolo di un romanzo (La piramide) con l'indicazione «scherzo di cattivo genere e fuori di luogo»; un autore che, sempre nel medesimo periodo, pensava a un altro romanzo da intitolare soltanto «?» ( e con questo titolo lo annunciava al pubblico e agli amici!); un autore, infine, che è stato l'unico nella storia della letteratura italiana ad aver curato di persona una raccolta delle proprie poesie rifiutate, erigendosi a comicissimo filologo di se stesso (Difetti 1905, Garzanti, 1947 e Scheiwiller, 19852). Una sola cosa è certa: se il valore narrativo non è discutibile ma esaltato dalla magnifica resistenza all'usura del tempo, il significato letterario di Interrogatorio è saldato a quelle prime pagine. La scommessa palazzeschiana sul valore eversivo e sperimentale dell'opera si gioca (e si risolve) in quei paragrafi che anche il cesello sintattico ci segnala come luogo deputato e di intrigante affermazione poetica. È per questo che, come accennavo all'inizio, poche altre volte un romanzo inedito rimarrà in così grande debito di fortuna nei confronti ... della cronaca del suo ritrovamento. Con la pubblicazione dell'Interrogatorio della contessa Maria, allora, il discorso critico su Palazzeschi si riapre anche in senso complessivo. Soprattutto bisognerà rettificare certi approdi già consolidati concedendo maggiore evidenza al sottile meccanismo che, nel segno dello sperimentalismo, collega creatività tematica e coscienza critica degli strumenti letterari. Minimizzare l'ultimo di questi due termini conduce irreparabilmente a un frazionamento dell'importanza di Interrogatorio nell'evoluzione della prosa palazzeschiana, ma 'ci costringerebbe anche a limitare la portanza del termine «sperimentalismo».
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