Alfabeta - anno X - n. 105 - febbraio 1988

Alfabeta 105 A cosa serve oggi un Memorandum design Angelo Cortesi L ' impegno dei designer nella progettazione di beni-comunicazioni e servizi negli ultimi anni è stato colossale. Di rilevante portata è stato anche il fenomeno induttivo ed imitativo del design, che ormai è presente in ogni latitudine. La diffusione planetaria del prodotto industriale e la raggiunta simultaneità della comunicazione hanno contribuito in modo determinante alla creazione della necessità del prodotto ben disegnato, capace di comunicare le funzioni che svolge, ergonomicamente corretto-, realizzato in grande serie, spesso anche conveniente dal punto di vista economico. Il sistema di interscambio delle merci e dei servizi ha preteso che i prodotti rispettassero le esigenze culturali e funzionali degli utilizzatori, chi non si è adeguato a questo atteggiarnento o lo ha male interpretato, è stato escluso dal circuito. Questi straordinari successi, non hanno tuttavia smorzato le polemiche sul design, ma al contrario dall'inizio degli anni settan~ • ta si sono accentuate e si è iniziato a parlare sempre più intensamente di crisi del design. La contestazione politica del '68, i radical inglesi, e radical italiani, personaggi come Sottsass da un lato e Mari dall'altro, un certo numero di articoli di «Alfabeta», la nascita di riviste come «Modo», il Postmodernismo teorizzato da Jenks e da Portoghesi, Aldo Rossi ed il ritorno all'architettura, la filosofia del pensiero debÒle, QP.CIT ecc. Tutti questi fenomeni ed opinioni, sono serviti a creare una maggiore consapevolezza intorno ai problemi del design, ma per alcuni aspetti hanno anche contribuito a creare una notevole confusione. Confusione che si è via via accentuata man mano che il fenomeno si internazionalizzava, impattandosi su altre culture sia di natura antropologica che di tipo tecnico scientifico, quali il marketing, l'ingegneria dell'organizzazione, le varie teorie dei sistemi, la miniaturizzazione dell'elettronica e così via. Ma la cosa più grave avvenuta riguarda il fatto che tutti questi problemi, molti dei quali in sé giusti e posti correttamente hanno prodotto soltanto delle risposte tendenti alla riforma del linguaggio, senza far crescere il progetto nei termini del suo ruolo e del suo significato. Sarebbe come dire che una crisi politica in Italia invece di andare alla radice dei problemi dell'equità della distribuzione dei redditi, come soluzione taumaturgica, proponesse ai cittadini di parlare in latino, greco o tailandese. Nessuno dei fenomeni di critica al design è stato in grado di proporsi come modello per un sistema di consapevolezze superiori, alle quali la progettazione faccia riferimento esprimendosi poi con i linguaggi individuali o collettivi ritenuti più opportuni. Da qui è nata la necessità di produrre un documento internazionale che avviasse una procedura di sensibilizzazione sui problemi di ordine superiore aventi delle implicazioni ineluttabili con la progettazione. Progettazione che, per essere considerata tale, non può essere esecuzione strumentale di interessi individuali o di categoria, ma deve ogni volta, attraverso la sua specificità tecnica, affrontare, non solo gli aspetti evidenti ed espliciti, ma anche quelli indotti direttamente ed indirettamente. Si potrebbe affermare che i problemi trattati, non sono di sola pertinenza del design, ed infatti è vero. Tuttavia i designer attraverso l'esercizio di questa professione rappresentano la categoria che più di tutte è entràta in contatto operativo e fattivo, con diversi contesti sociologici, con le più svariate forme di utenza, con numerosi bacini produttivi. Hanno potuto interpretare le esigenze delle produzioni capitalistiche o socialiste, hanno potuto toccare la falsificazione e le verità, sanno quanto è il bene ed il male della produzione, conoscono l'organizzazione dell'impresa, esercitano il loro ruolo in rapporto aggiornato con le tecnologie, sanno che per fare il loro lavoro non A più voci possono essere solo tecnici, sanno che la bellezza è un diritto e che questo è facilmente raggiungibile con un po' di dedizione e decisione. Questi e tanti altri motivi collocano i designer in una posizione privilegiata, e se vorranno assumersi in toto od in parte gli impegni espressi nel Design Memorandum facendosene portavoce progettante e attivo nei confronti della società, potranno contribuire in modo determinante alla riqualificazione della vita, oltre che evitare di essere stritolati dalla onnidivorante macchina della produzione, la quale non solo ha abolito la critica, ma sta oggi cercando la formula per la propria autocelebrazione, che se sarà rozzamente portata alle estreme conseguenze rappresenterà anche la sua autodistruzione. ro, ma non si deve spingere questa constatazione fino al punto di rifiutare il comfort in modo globale. Piaccia o meno, occorre ammettere che nel comfort (almeno in alcune delle sue manifestazioni) vi sono anche elementi di effettivo vantaggio per la vita quotidiana degli uomini». Il design dovrebbe parlare sempre un linguaggio confortevole, ma spesse volte i designer hanno privilegiato un'idea di comfort, fondata su un concetto limitato di socialità. Non ci si può limitare a progettare un sistema abitativo, senza fare delle previsioni sui costi e sulle reali possibilità di diffusione a prezzi accessibili, secondo un modello concreto di funzionalità sociale. Altrimenti la cultura del design verrebbe a coincidere con una pratica di tipo artistico; ma questo sarebbe un ritorno alla preistor,, '~'- • ', k i '~ > Ji} ~ -r~ ,, ..... .,~~¼--~~~ .....·~, , ,_.; i P%:+.,,,.,,,_ ----...., Daumier, Che cosa vede lì dentro? Internità ed esternità nel design Aldo Colonetti U na cultura progettuale può essere sconfitta o dall'abbondanza o dalle difficoltà di essere presente nei momenti fondamentali della storia materiale: il design ha ricevuto e riceve, tuttora, tanti onori, tante medaglie, tanti riconoscimenti, ma non sempre ha lasciato e, soprattutto, è in grado di segnare positivamente la storia degli uomini e delle loro relazioni con gli oggetti e la natura. Se è vero che, come si scrive nel documento Design Memorandum, che «il design ha dato all'industria il lessico e con il lessico del design l'industria ha espresso prodotti dotati di linguaggio autonomo», non è sempre vero però il contrario, cioè il fatto che il design ha mostrato una certa difficoltà a tenere un rapporto dialettico con l'industria in modo tale da ricevere dalla cultura della modernità sollecitazioni, per andare al di là di esigenze puramente formali e riscoprirsi all'interno dello stesso processo produttivo. Che cosa è la modernità se non la capacità di incidere, positivamente, nella storia degli uomini secondo modelli d'intervento dove l'individuale e i suoi desideri e aspettative si ritrovano nella totalità delle relazioni complesse? Non sempre il design è stato in grado di rispondere a questa necessità sociale: la sua cultura si è persa negli oggetti, ma non si ritrova nel sistema degli oggetti. Come scrive, a proposito dell'idea di comfort, Tomas Maldonado, nel suo saggio Il futuro della modernità, «Il comfort è un'idea moderna; prima della rivoluzione industriale il bisogno (o l'aspettativa) di comfort era privilegio di pochi. Ma la progressiva diffusione del comfort a livello di massa non è stato un fatto accidentale. Non c'è dubbio che esso ha svolto, sin dall'inizio, un ruolo fon~ damentale nel compito di disciplinare il tessuto sociale della nascente società capitalistica. Diciamo dunque che nel comfort, nelle sue pieghe più nascoste, c'è un disegno di controllo sociale. Tutto questo è veria del progetto-moderrio. Se il livello produttivo soffre di sovrabbondanza, una nuova forma potrebbe innestare nel mercato un'idea rinnovata di prodotto; se, invece, il livello produttivo soffre dal punto di vista dell'esiguità della merce, nuovi concetti di funzionalità potrebbero rimettere in moto il meccanismo economico e quindi le risorse del mercato verrebbero sollecitate verso investimenti nella direzione delle necessità strutturali. Il design sta sempre in mezzo al guado, se il fiume rappresenta, simbolicamente, il percorso nella storia degli uomini; ma il designer non è quasi mai in grado di decidere da solo se è il caso di orientare ed intervenire nei processi produttivi perseguendo la prima o la seconda delle ipotesi progettuali. Anche se il design è un tipico prodotto della modernità, non sempre la cultura dei designer mostra una consapevolezza nel segno della modernità; i suoi orizzonti sono ancora, frequentemente, quelli dei suoi gusti particolari, della sua casa, non del problema dell'abitare moderno e del rapporto, per esempio, tra ambiente naturale e realtà artificiale. Insomma la critica dell'esistente, come recita giustamente il Memorandum, rimane sullo sfondo dell'operatività del designer, per cui il suo orizzonte si limita a registrare le modificazioni di superficie per non entrare in conflitto con il parco di oggetti già esistenti. La nozione di ambiente, diventa così per la cultura progettuale, una sorta di simulacro a cui immolare, solo simbolicamente, la propria incapacità di avere rapporti concreti con il mondo della materialità. La maggior parte degli oggetti disegnati in questi ultimi anni soffre di una ce.rta immaterialità, proprio perché sembrano privilegiare l'internità rispetto all'esternità, la soggettività senza codici invece dei grandi linguaggi universali delle cose, delle funzioni fondamentali dell'esistere. I designer peccano di scarso storicismo, come se tutto fosse possibile perché non esistono più i vincoli del contesto, del tempo e dello spazio storici. Ecco, un'altra critica che si potrebbe fare è questa: il design è idealistico, perché la pagina 91 sua filosofia «è fondata sulla tesi che la realtà vera consiste nelle idee, in opposizione alle cose materiali, la cui realtà mutevole e precaria, sarebbe solo apparente». II desider(o del designer sarebbe quello di progettare il mondo, sottovalutando il fatto che già il mondo degli uomini possiede una propria progettualità, cioè «un'anticipazione per il venire-in-essere di qualcosa che, rispetto al futuro, può essere qualificato come possibile»: la cultura del designer è spesse volte -r:ÉXV'YJ, nel suo significato platonico e aristotelico, in quanto, come scrive Alexander Koyré, «abitudinaria quasi per essenza, perché essa opera conformemente "alle regole che non comprende e che, di conseguenza, non è capace di criticare e ancora meno di cambiare, se non per inavvertenza o dimenticanza». Il sapere scientifico e tecnologico fa da sfondo a questa pretesa intenzione di rifondazione, anche quando le stesse intenzioni del progettista, si presentano, dichiaratamente, con un basso profilo, sia per quanto riguarda i contenuti tecnologici del prodotto, sia in relazione alla possibilità concreta di utilizzare il progetto realizzato. Non è vero che il gioco ironico del decorativismo, della pura superficialità sia il risultato di un pensiero debole che abbandona le speranze della socialità: anzi, questi atteggiamenti mascherando la loro presunta debolezza, manifestano una coerente ideologia di forte aderenza all'esistente, assunto quasi come un noumeno invalicabile. Bisogna reinventare il rapporto con le quattro dimensioni fondamentali del progetto: strutturale, funzionale, comunicativa, onirica, per non dimenticare anche il desiderio di essere altro da sé; così scrivono gli estensori del Memorandum: Ma certamente ogni rinnovamento deve svilupparsi dalla conoscenza dello stato attuale del design, della sua salute, al di là dei suoi successi di prestigio. Ma già questa operazione di analisi non è semplice perché è necessario innanzitutto definire lo stesso concetto di design. Credo che sia ancora valida la formulazione di disegno industriale elaborata da Tomas Maldonado e Soloviev nel 1969: «Il disegno industriale è un'attività creatrice, che tende alla costituzione di un ambiente materiale coerente per sopperire in modo ottimale ai bisogni materiali e spirituali dell'uomo. Questa finalità deve essere raggiunta attraverso una determinazione delle proprietà formali dei prodotti industriali. Per proprietà formali non si devono intendere esclusivamente le caratteristiche esteriori e superficiali, ma quelle relazioni strutturali che conferiscono ad un sistema coerenza funzionale e formale e allo stesso tempo contribuiscono all'incremento dellà produttività». Solo così forse il design, senza perdere il suo rapporto con il sistema produttivo, potrebbe ritrovare la sua funzione di critica sociale, da non intendersi, ovviamente, come puro esercizio di tipo ideologico-politico. Come scrive Gui Bonsiepe, nel suo Teoria e pratica del disegno industriale, «La rinuncia all'impegno progettuale finisce nel vuoto del disimpegno pseudo-rivoluzionario; invece che affrontare le contraddizioni per risolverle, vi passa sopra. Riconoscere queste contraddizioni e portarle a consapevolezza non significa necessariamente né accettarle come costanti, né interiorizzarle, né capitolare di fronte ad esse. La coscienza progettuale non può contentarsi delle brillanti formulazioni della critica dell'ideologia». Il design, per rinnovarsi, deve diffidare da ogni interiorizzazione del progetto, ma anche deve evitare formulazioni ideologicamente troppo ottimistiche; la concretezza del suo operare, d'altronde, non può nemmeno accontentarsi delle contraddizioni del presente, assunte come costanti metastoriche. L'unica via di rifondazione dovrebbe essere quella di relazionarsi con tutte le discipline che hanno a che fare sia con le competenze della modernità, ma anche con una sicura conoscenza storica che possa tenere lontano dall'errore di confondere i fatti di cronaca dalle grandi linee di sviluppo e di trasformazione della società.

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