Alfabeta 105 di visioni del mondo, di meri interessi) che emergeva dalla crisi del moderno. Se togliamo dall'analisi di Weber i toni disperati del grande sconfitto, non possiamo che riconoscere nel suo politeismo il nostro disincanto. Non si tratta di una parola d'ordine, né tantomeno di una via d'uscita, ma di una definizione, più utile di altre, della nostra condizione. Ora, se questo tipo di disincanto politeistico è l'esito del politico moderno (che non lascia posto né al primato dello Stato né al primato dell'economico-sociale, né al primato del teologico né a quello delle rappresentanze, ma alla loro coesistenza de-legittimata), il problema della politica assume un tono necessariamente nuovo. Esposito, nel suo intervento nel numero 103 di «Alfabeta», si riferiva alla categoria di im-politico come a un modo di approfondire, in negativo, la crisi della politica, e parlava di una tradizione nascosta in cui al massimo di capacità analitica (saper vedere, senza illusioni, gli sviluppi del politico moderno) si accomA più voci pagna la massima distanza dall'effettualità del politico. Una capacità di cui avrebbero dato prova in primo luogo Simone Weil, Hannah Arendt, Ernst Jiinger (e perché no, Heidegger). Alla presa senza alternative, e senza trascendenza, del politico iper-moderno, all'impensabilità definitiva della politica, si contrapporrebbe una im-politicità consapevole e radicale. Un altro modo di definire questa posizione, e la tradizione che sembra sottenderla, è a mio avviso quello di etica gnostica. Se del concetto di gnosi non riteniamo soltanto gli elementi più appariscenti o suggestivi (come oggi spesso avviene), ma il dualismo radicale e senza mediazione - ciò che ha influenzato profondamente poeti c_emeBlake Coleridge e, nel nostro tempo, Simone Weil e Bateson - possiamo trovare che è possibile agire nell'ambito inevitabile del politico, senza cedere alle sue lusinghe. Un ordine trascendente, che ci sollevi dal fardello della caduta storica, non è oggi pensabile se non come alibi per qualcosa di infinitamente Temi. Il politico oggi pagina 71 peggiore della modernità sviluppata (gli «errori» di Heidegger e Schmitt ce lo ricordano ancora). Una distanza radicale dal politico, senza l'illusione di torcerne in senso monoteistico o teologico gli esiti, senza rifiutarne l'effettualità (così come non rifiutiamo l'effettualità della nostra vita materiale), ma soprattutto senza fuggire nell'escatologia o nel caldo abbraccio delle chiese: questo definisco qui come etica gnostica. E dovendo citare due esempi ancora vivi di questa etica, non posso che riferirmi a Simone Weil, quando opponeva fino all'ultimo, a chi la voleva convertire, le ragioni delle vittime del monoteismo politico (dai catari agli indios pagani), e soprattutto a Max Weber, che fino agli ultimi giorni della sua vita ha accompagnato la massima consapevolezza del politico (della sua degradazione) alla sua pratica responsabile. Se c'è una tradizione nascosta dell'impolitico, non si tratta della fuga, ma della presenza come distanza appassionata. Destra/si11istra A Ila base del dibattito in corso sui diversi nodi teorici del pensiero politico della sinistra, vi è un paradosso che va, preliminarmente, riconosciuto nei suoi caratteri essenziali, prima di addentrarsi in qualsiasi tipo di analisi. Da un lato, studi di taglio socio-antropologico e ricerche storico-politologiche hanno se non altro fortemente ridimensionato - e in qualche caso perentoriamente dissolto - la possibilità stessa di utilizzare il binomio destra/sinistra come adeguate categorie di descrizione o di valutazione dell'universo politico; dall'altro lato, questa dicotomia, o altre che di essa possono essere considerate sinonimi o translitterazioni, continua ad essere impiegata largamente e indifferentemente, tanto nel linguaggio comune, quanto nelle trattazioni più specializzate, come espressione di un 'antitesi intuitiva, di una sorta di assunzione preanalitica autoevidente. Alla persistenza della coppia destra/sinistra nel lessico politico, nonostante l'ormai assodata inconsistenza concettuale, corrisponde, inoltre, una sostanziale invarianza dei comportamenti a livello empirico, nel senso che non è dato osservare né continui rovesciamenti di schieramento né una specifica mobilità latitudinale degli attori politici, come sarebbe invece lecito attendersi se la crisi della rappresentazione assiale della politica trovasse riscontri diretti e lineari negli orientamenti pratici dei diversi protagonisti. È nota la spiegazione fornita da alcuni studiosi per il paradosso ora enunciato: a fondamento della polarità destra/sinistra vi sarebbe non già la casuale disposizione verificatasi nell' Assemblea costituente, durante la Rivoluzione francese, bensì una simbologia che affonda le sue origini nelle radici della nostra cultura e nelle immagini stereotipiche connesse alle rappresentazioni primarie. In alternativa a tale interpretazione, che ha fra gli altri il difetto di non poter trovare conferma in alcuna indagine empirica, vorrei suggerire un'ipotesi che non pretende di essere particolarmente originale, ma che è idonea se non altro ad inquadrare più nitidamente i termini stessi del paradosso di cui si discute. Cercherò, in altre parole, di indicare per quali motivi non già il «concetto», ma la «realtà» stessa della sinistra si sia venuta sempre più indebolendo nell'arco dell'ultimo decennio, al punto tale da riflettersi anche in una «crisi» terminologica; al tempo stesso, e per converso, tenterò di dimostrare che tale estenuazione, coincidente con - e dipendente da - quello che opportunamente è stato definito il suo «compimento», in linea di tendenza non comporti affatto un dissolvimento, ma solo una trasformazione, della sinistra, e delle sue «ragioni». L'origine del declino della sinistra può, anzitutto, essere individuata nel venir meno di quello stesso fattore che ne aveva, invece, propiziato l'ascesa circa un secolo fa, vale a dire il rapporto prima, e l'identificazione poi, col Movimento operaio. Per molti decenni, e fino alla prima metà degli anni settanta, questi due termini potevano essere considerati interscambiabili, nel senso che l'iniziativa e la teoria del Movimento operaio erano, per così dire, sempre e «naturalmente» «di sinistra», tanto quanto appartenere alla sinistra comportava una sostanziale identificazione con le lotte e le strategie delle organizzazioni dei lavoratori. Da entrambi i lati ·questa connessione si è poco alla volta allentata, sia perché le trasformazioni conseguenti alla fuoriuscita dall'universo industrialista hanno ridimensionato il ruolo e la vocazione progressista del Movimento operaio, sia perché l'«essere di sinistra» ha cominciato a predicarsi in molti modi, e comunque non più mediante il semplice sigillo del «pensiero operaio». Questo fenomeno - qui riassunto, ovviamente, in forma puramente enunciativa - marcia storicamente, e concettualmente, di pari passo con una seconda «grande trasformazione», intervenuta nelle articolazioni concrete assunte dallo Umberto Curi scontro politico, all'interno dei singoli stati e delle relazioni fra essi. Dopo un secolo scandito da due guerre mondiali, da una miriade di conflitti regionali, da guerre civili verificatesi nella maggior parte dei paesi europei, da rivoluzioni politiche di ragguardevoli dimensioni, da alcuni anni, almeno nel vecchio continente, sembra essersi ormai consolidata una stagione di prevalente stabil,izzazione, il cui connotato saliente è costituito dall'esclusione della forza nello svolgimento della lotta politica. Si assiste, in altre parole, alla rottura del legame storico fra guerra e trasformazione, fra il dispiegamento - di principio illimitato - della conflittualità interna o interstatuale, e processi di innovazio11e del «compimento bellico», come telos capace di conferire senso ed incisività all'espressione degli antagonismi. In questa situazione - agevolmente verificabile analizzando la parabola descritta dalle lotte sociali dopo la svolta del '68 - si pone allora il problema di stabilire se, e con quali mezzi, sia possibile modificare diritti, egemonie, rapporti di potere, vale a dire produrre realmente cambiamenti di forma, e non solo «aggiustamenti» graduali, nella struttura del sistema politico, da un lato senza innescare una competizione di violenze contrapposte - esclusa «di principio» dal sopravvento della delegittimazione della guerra come forma di trasformazione -, e dall'altro senza cadere nella riduzione del conflitto a gioco, la cui «logica» implica l'eliminazione della base stessa del conflitto. È, insomma, ancora possibile una politica di trasformazione, vale a dire una politica «di sinistra», quando la guerra, come senso «forte» della politica, non è più ammessa? In quali modi si possono perseguire obiettivi di mutamenti reali, nelle stesse strutture di legittimità e di potere, senza soggiacere all'irrompere incontrollato della forza, ma anche senza subire la trasformazione caricaturale della politica in gioco? A ncora più decisivo, perché relativo non solo all'identità della sinistra, o ai modi di conduzione della lotta politica, ma alla stessa natura della politica, nelle sue relazioni con altre sfere di attività, è il terzo fattore, a cui è possibile riferire il tendenziale declino della sinistra. Un esame anche cursorio delle dinamiche di mutamento affermatesi nel corso degli ultimi anni in campo economico e sociale, mostra che esse non hanno infatti soltanto mutato i rapporti di forza interni al sistema politico, in direzione di una sempre più netta marginalità delle organizzazioni tradizionali della sinistra, ma hanno soprattutto favorito una modificazione strutturale e funzionale delle relazioni intercorrenti fra politica ed economia e politica e società, dissolvendo ogni presunta capacità totalizzante della politica, sempre più ridotta ad un ruolo tecnicamente circoscritto. Non è necessario accedere alle semplificazioni di certe rappresentazioni sociologiche, né condividere la tesi di quanti scorgono il delinearsi di un universo finalmente liberato dalla competizione e dal conflitto, per riconoscere la sostanziale attendibilità di un'immagine della società come _sistema complesso, articolato e frammentato, disciplinato da meccanismi di autoregolamentazione, mosso da agenti immanenti alla sua costituzione interna, e comunque sempre meno riconducibile a logiche e regole esogene, in qualsiasi modo definite. Anche in questo caso, il consolidarsi della tendenza alla emancipazione del sociale dal politico - ovvero, più esattamente, ad una diffusione molecolare delle lotte per il potere, conseguente ad una perdita del monopolio del potere da parte del livello politico formale - contribuisce oggettivamente a limitare il ruolo delle forze di sinistra, culturalmente e vocazionalmente legate ad un'accezione della politica come governo in senso forte dei processi di crescita economica e di mutamento sociale, la cui massima prosperità, appunto, è stata storicamente legata ai periodi di «primato», o comunque di massima «fortuna», della politica. Può convivere la sinistra con una moltiplicazione virtualmente illimitata dei centri decisionali, con la sparizione di ogni Gestalt capace di informare le diverse sfere della vita sociale, riconducendole ad un'unica sede del potere? Può essa sopravvivere, in presenza di una tendenziale scissione fra potere e politica? Ma la stessa proposizione degli interrogativi ora formulati, e più in generale il riconoscimento dei molteplici fattori di oggettivo indebolimento della sinistra, non potrebbero dirsi correttamente posti, ove non si completasse l'abbozzo di ragionamento qui suggerito con un'ulteriore - e fondamentale - precisazione. Il tendenziale superamento dell'universo industrialista, e del suo radicarsi sul presupposto del lavoro manuale come principale creatore della ricchezza sociale; la rottura della presunta regolarità naturalistica del ciclo politica-guerra; la progressiva liberazione dalla «necessità» della politica, non rappresentano soltanto, e ancor meno soprattutto, la causa del deperimento della sinistra. Questi fenomeni incarnano, al contrario, il compimento della funzione storica della sinistra, ne esprimono la capacità di imporre e generalizzare il proprio come linguaggio «universale», le proprie finalità come obiettivi universalmente condivisi e perseguiti. L'emancipazione dalla «schiavitù» del lavoro, mediante la piena valorizzazione delle risorse del «cervello sociale»; il consolidamento della democrazia come spazio regolato dei conflitti; la moltiplicazione dei luoghi, dei soggetti e delle forme attraverso i quali si decide la questione del potere, non possono, evidentemente, essere considerati se non come mete raggiunte, risultati acquisiti, come effetti, dunque, di una egemonia compiuta, pur se spesso non vista o inadeguatamente interpretata. Il paradosso, di fronte al quale sembra allora trovarsi attualmente la sinistra, consiste insomma nella coincidenza fra il proprio sostanziale «successo» storico e il suo apparentemente, e consequenzialmente, inevitabile «declino», fra il suo «compimento» e il suo «scacco», fra la sua «storia» e il suo «destino». La necessaria presa d'atto di questa contraddizione, tutt'altro che meramente «pensata», non implica, d'altra parte, alcun inerte sostare sul limite, né include alcuno stratagemma «mistico». Al contrario, è possibile convertire il riconoscimento dell'esaurimento di una funzione storica, in una prospettiva capace di conferire significato ad una sinistra che abbia percorso pressocché interamente la propria parabola evolutiva, senza rassegnarsi ad assecondarne l'involuzione. Se la politica come platonica «arte regia», come linguaggio universale, al quale ricondurre la molteplicità degli idiomi «specialistici», può apparire avviata al tramonto, non altrettanto si può dire per ciò che della politica risulta essere la matrice originaria che la costituisce come destino, e non meramente come tecnica, vale a dire il risorgente, e sempre nuovo, confliggere degli interessi fra individui, gruppi sociali, ceti, paesi. Il fatto che nella perenne lotta per il potere si sia forse conclusa una fase storica, fortemente segnata dall'influenza e dalla capacità di trasformazione di una forza co'me il movimento operaio, non comporta necessariamente né la dissoluzione degli antagonismi - o la loro «pacifica» composizione contrattualistica - né, tanto meno, il venir meno delle «ragioni della sinistra». Proprio in un periodo come quello attuale, si profila anzi la necessità di non ridurre la politica a mero esercizio dell'ainministrazione, o a godimento di una rendita di posizione, ma, all'opposto, di riscoprire la persistente validità della sua accezione originaria: quando il «fine» a cui tendere appare offuscato, può essere opportuno ripartire dall'origine.
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