Alfabeta 105 Saggi pagina 35 r alerba ntar~anc~~zçorregg L a finzione narrativa si basa su un doppio registro: parla lo stesso linguaggio delle affermazioni di verità, eppure per tacito patto, è sottratta alla verifica e risponde - tutti i lettori lo sanno - a una convenzione che autorizza il narratore del racconto che viene accettato, per abnorme che sia, come primo limite di un «mondo possibile», da cui dipendono tutte le restrizioni successive. La verosimiglianza esige, come minimo, la coerenza: ammesso e non concesso che l'incipit sia arbitrario e libero, ogni passo che gli vien dietro deve far salvi i precedenti, stare al gioco dei loro «facciamo che» e prenderli sul serio come condizioni date. Anche il rifiuto del concatenamento forzato ad opera di infrazioni o eccezioni incongrue, può essere riassorbito facilmente a forza di motivazione (riferendo la fuga per la tangente allo stato mentale disgregato oppure, motivazione più «elevata», all'infatuazione lirico-mistica). Quale soluzione rimane, allora, a non voler concedere al verosimile il potere di far passare, per la porta dell'acquiescenza, tutta una gerarchia di valori? La via è da cercare tra i modi di interrompere il racconto, con l'obiettivo di discuterne le motivazioni e di mettere la somiglianza al vero a confronto con le differenze dal vero. È questo il procedere narrativo di Malerba: e la figura del salto mortale non indica solo un virtuosismo acrobatico, ma disegna esattamente il ribaltamento riflessivo che ricade sur piace. Non vi è narrare in Malerba se non attraverso un controcanto appaiato (dialogico): per una voce che si pone dicendo «io» c'è, addirittura nelle strettoie di una sola frase, un'altra voce che dice «tu» e - interrogando, precisando, magari negando - espone un punto di vista divergente; ma non si limita a metterlo accanto, lo mette in concorrenza, chiamando a giudicare, implicitamente o esplicitamente, la pluralità dei lettori. La ritmicità dell'andamento prosodico, che l'autore stesso ha tenuto a segnalare volgendo in versi un capitolo di Salto mortale,1 non toglie che la scansione costitutiva del romanzo sia quella del ritmo «logico»: ora rallentato dall'incertezza, ora frenato bruscamente dalla smentita, ora riavviato con le cautele dell'ipotesi condizionale. Un ritmo marcato certo dal ritornare di alcune formule, che però non sono neutre, ma subito rimandano a forme del ragionamento: del confutare («guarda che» o «ti sbagli» - queste due anche unite: «guarda che ti sbagli» - o «non scherziamo»), del sospendere («momento»), dell'attenuare («mica tanto»), del concedere («Allora» ... , «Va bene, ma» ... ) . A meno che il racconto non venga sbloccato da una perentoria risoluzione imperativa (del tipo: «Avanti vai avanti»), una delle voci può scegliere di lasciar qualcosa in mano all'avversario, pur di guadagnare un nuovo palmo di terreno finzionale. Anche l'alzata di spalle («e tu lasciami sbagliare») è una controffensiva debole che ammette le ragioni del contraddittore, nel momento stesso in cui se ne libera. Mi sembra plausibile parlare di racconto concessivo. Per far questo, il testo di finzione deve uscire fuori di sé, in un va-e-vieni di linguaggio e metalinguaggio. Ma soprattutto ciò comporta la presupposizione di un mondo esterno (o realtà che dir si voglia) accessibile da chiunque, sulla cui base sia possibile infirmare i passi proposti dal racconto; o meglio sottoporli a prova e argomentazione, dopo di che assodarli nella conferma o condannarli nell'errore. Non si tratta, dunque, di ostilità pregiudiziale, sebbene la caparbietà oppositiva non lasci nulla di intentato; e giunga addirittura a fare addebiti al sogno, anche là dove qualche licenza non sarebbe certo né sorprendente né rovinosa. Il sognatore riconosce Cirillo e Metodio intenti a un tavolo e suppone che stiano inventando i caratteri cirillici; ma l'io da sveglio annota pronto in parentesi: «C'è tuttavia un errore nel sogno perché soltanto Cirillo inventò i caratteri cirillici e Metodio fµ a fianco del fratello soltanto per la diffusione della ti uova scrittura». 2 Eccesso di pignoleria? Sfoggio di erudizione? Non direi: ci troviamo di fronte a quell'istanza, che ho definito «istanza di precisione», che percorre da capo a fondo tutta l'opera di Malerba, compresi i cicli di storiette o i regesti lessicali di parole abbandonate. Tra gli esiti di questa istanza possiamo comprendere anche i puntigli terminologici che assillano tante pagine malerbiane: ne sa qualcosa l'inizio de Il protagonista, con quel «La tana non è una tana»,3 che non ha il tempo di poggiare a terra il primo passo dell'universo diegetico, ed è subito correzione. In una ricerca di giustezza che fa il paio con l'esigenza morale e politica della giustizia. Anche la polemica sulla precisione linguistica chiama in causa l'esterno: infatti un termine può dirsi più adeguato solo rispetto a un qualcosa di extralinguistico; questo dato «duro», questa materia basilare è costituita - se interpreto bene il discorso che Malerba porta avanti attraverso le sue narrazioni - dal corpo e dalle sue pratiche. Non per niente l'esattezza nomenclatoria è chiamata principalmente a distinguere le parti del corpo in appoggio a un agire strumentale, vuoi erotico vuoi commestibile: l'esattezza linguistica, allora, si salda strettamente con l'abbassamento ideologico;4 la lotta alla generalità è tutt'uno con la lotta alla idealizzazione. Ma non si deve credere a una forma di realismo, anzi è esattamente l'opposto: mentre il realismo certifica e rassicura la propria rappresentazione mediante una pretesa equivalenza tra linguaggio e realtà, qui il ricorso al reale nella ricerca dell'espressione corretta porta all'incertezza della rappresentazione che viene mostrata nel suo farsi, in pubblico - sotto un controllo che, data la disparata provenienza degli interventi, può con ragione dirsi collettivo. La materialità dell'immaginazione esige che tra mondo possibile e mondo reale ci sia un nesso di interferenza. Portata così nei fondamenti stessi della finzione, l'interferenza perde il valore superficiale di procedimento comico tra gli altri: a questo punto si può applicare al racconto in generale ciò che Malerba dice del sogno quando lo definisce un inserimento sul tipo dell'«anacoluto», portatore di «variazioni e aggiunte, dilatazioni e correzioni». 5 In questa prospettiva, già il primo passo della finzione è un correggere; che operi prolungando o dilatando o déformàndo, investe l'esistente con una tensione trasformatrice che rimanda, a monte, a un'insoddisfazion'e critica. Lo si vede anche nella fantasia «iperbolica» de Il pianeta azzurro: «L'ordine del mondo è sempre stato per me oggetto di desideri smodati e di una costante preoccupazione. (... ] Vorrei correggere tutto, rimuovere spostare pulire cancellare. [... ] Quanto sarebbe più facile e piacevole la vita se ogni cosa fosse al posto giusto, bene sistemata, pulita e funzionante secondo i criteri della ragione e del piacere. [... ] In concorrenza con il Supremo Architetto avrei· voluto spostare le montagne, trovare un posto più adatto per i fiumi le pianure i mari i laghi i ghiacciai i deserti i vulcani. Non mi piace la distribuzione del freddo e del caldo, della vegetazione, della pioggia, della popolazione delle miniere, del petrolio, vorrei rifare tutta la geografia del Pianeta». 6 Sistemazione ambientale che volge ben presto verso l'ecologia sociale, fino al proposito - che sta al centro del libro - di eliminare un personaggio politico davvero ;<inquinante». Q uanto a correzione il sogno non è da meno - il Malerba onirografo faceva sparire la basilica di San Pietro1 - anzi sembra godere della massima potenza metamorfica. La differenza tra sogno e letteratura, dal punto di vista della correzione, sta nel fatto che nel primo il confronto tra l'immaginario e il reale, se pure può portare alla confutazione (come nel caso visto poco fa) dei «simulacri notturni», non può tuttavia modificarne il testo del racconto; nella narrazione letteraria, invece, da un lato l'intervento correttivo dell'immaginario è intenzionale (cioè controllato), dall'altro è possibile che la controprova del reale agisca nel racconto, dando luogo a un processo, se non dialettico sicuramente dialogico. 8 La correzione fa cortocircuito con la correzione, così come l'utopia con la concretezza, e il paralogismo con la logica. Una volta inteso come correzione, il primo passo (il porsi) della finzione può venire vagliato quanto a «correttezza», e perfino cancellato (levato) dai passi successivi. Non c'è· allora nessun elemento privilegiato per originaria evidenza e innocenza felice; e questo ancor prima che le tecniche propriamente transtestuali (inter-, iper- o meta-testuali: citazione, rifacimento, commento) vengano a mettere l'accento sulla economia di scambio di qualsiasi materiale verbale. Il lettore è avvertito: fin dal primo «porre» del racconto, non va preso per buono nessun «simulacro di esistenza», e lo stesso senso che appare alla comprensione immediata va valutato come un orientamento sull'oggetto, un «voler far credere» che in quanto tale aggira o occulta il vero oggetto del discorso. C'è da aspettarsi, prima o poi, un gesto interpretativo che «sveli», in tutto o in.parte, gli scopi di quell'orientamento, ossia il senso nascosto. Si è costretti a tornare indietro, per rivedere alla luce degli sviluppi dell'interpretazione i connotati anche di quel primo passo, che cercava di passare inosservato con il viatico del patto di finzione: mentre qui il lettore stipula un contratto più vasto, che comprende le regole dell'argomentazione e del giudizio critico; deve essere, in altre parole, un lettore che riflette, altrettanto munito di una «ermeneutica del sospetto». Nel romanzo più recente, Il pianeta azzurro, le tre voci che si scambiano (o si sottraggono) il ruolo del narratore, mettono a nudo, l'una sull'altra, l'agire strategico che muove la scrittura (i valori e interessi relativi al corpo singolo o al corpo sociale, che sono esterni al linguaggio); ironicamente la stessa veste letteraria che la scrittura assume è vista come una copertura («una cortina di nero fumo»), un tentativo di far passare sotto le mentite spoglie dell'autonomia estetica il secondo fine del discorso. Rispetto al pas~ato, forse meno manipolazione lessicale, più distensione nei procedimenti: ma la carica critica9 si concentra sull'identità del narratore, in cui è sottilmente fantasmatizzata 10 la persona, anagraficamente riconoscibile, dell'autore medesimo. In anni di ritorni alla narrabilità dell'esperienza e ·albisogno naturale di racconto, Malerba continua ad immergere il Mythos negli acidi corrosivi di Logos. Così come deroga dall'estetica del bello verso una (moderna) estetica dello strano, àltrettanto decisamente la sua comicità, troppo raziocinante per rilassare, sta dalla parte del disincanto. Del resto, quando in epoca non sospetta Malerba aveva messo in scena un raccontatore orale, era stato per sottoporre l'esposizione alle continue interruzioni di un pubblico incontentabile e sempre sul punto di dimettere la convenzione e di denunciare il valore di scambio. Dagli anni sessanta de Il serpente e di Salto mortale agli anni ottanta de Il pianeta azzurro, Malerba .non è rimasto certo immobile, ma nemmeno ha rinunciato a perseguire, oserei dire sistematicamente, una via alternativa. Le costanti e le variabili, le direzioni impresse per effetto esterno dello sviluppo storico così come i riferimenti endoletterari, gli stilemi tipici e le autocitazioni così come le opere uniche, tutta questa «macchina che va a correzione» può essere compresa solo alla luce di una metodica sperimentale che, con i suoi congegni, costruisce complessi e inquietanti risvolti su di una idea a prima vista semplice e innocua: che l'immaginario non può essere sostituito al reale, perché ne fa parte. Note (1) Sul n. 62 di «Nuovi argomenti» (1979), Malerba ha versificato il capitolo 37 di Salto mortale (Milano, Bompiani, 1968: ora Torino, Einaudi, 1985). (2) Diario di un sognatore, Torino, Einaudi, 1981, p. 22. (3) Cfr. ILprotagonista, Milano, Bompiani, 1973, p. 7. (4) La precisione terminologica è un' «abitudine» per il macellaio narrante di Due schiaffi (in «L'ombra d'Argo», nn. 7-8~1986, pp. 153-6), esperto nel nominare i pezzi del corpo commestibile. Proprio nel commento a questo racconto, Luperini sottolinea lo stretto nesso di «logica del linguaggio» e «ideologia» (ivi, p. 159). (5) Diario di un sognatore, cit., p. 9. (6) ILpianeta azzurro, Milano, Garzanti, 1986, pp. 162-3. (7) Cfr. Diario di un sognatore, cit., pp. 49-50. (8) Al contrario dei testi scritti che possono essere emendati e «stesi» più volte, «non siamo in grado di introdurre nei nostri sonni qualche sogno confortevole, non possiamo impedire o frenare i sogni sgradevoli»; insomma, fa notare Malerba intervenendo su La composizione del sogno (in «Lettera internazionale» n. 7, inverno 1986, p. 56), nel sogno «non siamo padroni della scena». (9) Nel dibattito recentemente promosso dalla rivista «Altri termini», (nn. 6-7-8, ottobre 1986-settembre 1987), Malerba, a proposito de ILpianeta azzurro, spiega l'operazione con l'intento «di trasferire il lavoro di sperimentazione dal linguaggio tout court alle strutture. Linguaggio più comunicativo, strutture più complesse (sperimentali)» (p. 81). (10). La fantasmaticità dello scrittore moderno va strettamente collegata al mutamento del suo statuto sociale; Malerba lo dice a chiare note in uno scritto recente di taglio saggistico: proprio quando ha abbandonato lo «status servile» conquistando il diritto di produrre e di vendere una merce senza acquirenti, lo scrittore è «diventato un fantasma» (Lo scrittore come fantasma, in «Autografo» n. 12, ottobre 1987, in particolare p. 6). Questo scri(to è il capitolo conclusivo di una monografia sull'opera di Luigi Malerba, di imminente pubblicazione col titolo Malerba. La materialità dell'immaginazione, presso Il Bagatto libri di Roma.
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