Alfabeta - anno X - n. 105 - febbraio 1988

pagina 20 interpretano un altro testo; ma non sempre di questa complessità sono consapevoli sia i lettori sia gli stessi uomini di lettere. La cultura italiana ha quasi sempre sottovalutato la materialità della scrittura e l'organizzazione dei prodotti editoriali: finalmente è uscito un libro che, didascalicamente e con grande chiarezza espositiva, affronta questo problema. Si tratta de li manuale del grafico, (Bologna, Zanichelli, 1987) autore Giorgio Fioravanti, il secondo testo di questo progettista. grafico, dopo Grafica & Stampa (1985). Il libro viene qui presentato dalla prima revisione del testo originale fino ai più complessi sistemi integrati editoriali, in modo tale che, come scrive lo stesso Fioravanti, ogni redattore possa «porsi come tramite fra l'autore e il pubblico; disponendo il materiale in modo corretto e con l'adozione di tecniche idonee, egli può raggiungere l'obiettivo di rendere più agevole la lettura e la comprensione dei contenuti del libro». Ogni capitolo del Manuale non è solo una chiara esplicazione di tutte le tecniche necessarie per realizzare uno stampato editoriaPino Pascali a Milano Fulvio Abbate I I «~o?o» Pascali nel percors? artistico contemporaneo nchiede, ancor oggi, approfondimenti sulla gittata globale di un lavoro che attraverso un codice inventivo colloquia con la mutazione del concetto di opera. D'abitudine l'avventura progettuale (e narrativa) di quest'artista è assimilata a matrici duchampiane in una strumentazione ulteriore del ready-made attraverso i segnali pop statunitensi e del nouveau réalisme, sino alla fondazione del- )'Arte povera nei suoi aspetti molteplici. E in effetti, osservato con prudenza filologica, l'iter operativo di Pascali non fa torto a tale lettura: i primissimi assemblage (pressocché inediti), le bandiere debitrici a Jasper Johns, i rilievi di busti e labbra femminili, le armi, e, infine, il grande rompicapo formale della natura «ricostruita» all'interno dello spazio abitativo, quindi nel quotidiano. Eppure l'artista pugliese, il Maestro di Polignano, è innanzitutto una personalità singolare che non consente repliche; e che si serve di una cifra, affabulatoria e automitologica, come portato principale in grado di suggerire il destino poetico dell'opera-oggetto, sovente al di là del tracciato che gli storici d'arte gli attribuiscono. La biografia, d'altronde, ne chiarifica ulteriormente l'attitudine: nasce nel 1935 in Puglia, ma la sua infanzia scorre a Tirana, in Albania, dove il padre, funzionario di polizia, ha trasferito la famiglia. Gli amori primi riguardano il Gioco (e tra questi la pistola d'ordinanza paterna), Cita, la scimmia di Tarzan; poi giungeranno gli zoo, la pesca subacquea, i film di Franchi e Ingrassi a e, ancora, le vetrine dei giocattoli e ancora Cita: la musa, per certi versi, del suo ininterrotto legame fascinatorio con le mitologie arcaiche e della spettale; è qualcosa di più proprio per questa filosofia di fondo che privilegia la materialità del fare rispetto alla pretesa Leggerezza della scrittura, come se potesse esistere il pensiero senza una cultura progettuale in grado di bloccarlo e sedimentarlo su supporti di chiara e di esplicita leggibilità. Il libro è, innanzitutto, un, prodotto visivo che legge le parole: la sua materialità, è vero, si coniuga con la scrittura verbale ma possiede anche una propria autonomia, un proprio statuto storico e disciplinare. Il libro di Fioravanti ne descrive, analiticamente, tutte le fasi svelando, forse per la prima volta in modo compiuto, i segreti di un mestiere che è capace di affossare o esaltare un autore solo con l'organizzazione degli spazi e la presentazione del testo nella prima e quarta di copertina. Anche questa stessa rivista, «Alfabeta», diventa tale solo dopo la trasformazione degli scritti in forme e strutture tipografiche persuasive. Proprio per questa ragione il Manuale del Grafico è anche un saggio sulla cultura materiale, scritto dall'interno della professione, per cui il risultato finale va al Cfr/evidenziatore di là delle attese di un pubblico più attento alla storia delle comunicazioni visive. Questo dovrebbe essere sulla scrivania di chiunque abbia a che fare con lo scrivere; solo così ci si renderebbe conto della complessità di un prodotto editoriale. Aldo Colonetti Malie, 1987 Arrivederci ragazzi, di Malie, è stato riconosciuto dalla giuria di Venezia, e dal pubblico che lo ha posto in primo piano tra gli indici delle frequenze, come un film di rilevante valore artistico e narrativo. Lo stesso regista ne ha voluto sottolineare gli aspetti autobiografici, identificandosi con uno dei due protagonisti adolescenti: l'amico del ragazzo ebreo che frequenta il suo stesso collegio negli anni del regime di Vichy, e che sarà denunziato e deportato dagli occupanti tedeschi, per non tornare mai più. Non mi sembra, invece, sia stato dato il rilievo che merita al fatto che si tratta di un film girato in Francia nel 1987; e che da questa datazione tragga un significato del tutto particolare. Anche in Francia, come in Germania, e adesso anche qui in Italia, con l'intervista di Renzo De Felice sul «Corriere della Sera» di dicembre, ha avuto luogo in questi ultimi anni, un tentativo «revisionista», volto sostanzialmente a scagionare il nazionalsocialismo, il fascismo, i governi «Quisling» di Pétain o di Salò dai loro crimini; e tra questi persino la persecuzione e lo sterminio degli ebrei. «Per la prima .volta, forse" - aveva scritto Vladimir Jankéli~itch sin dal 1943- degli esseri umani sono perseguitati ufficialmente non per ciò che fanno, ma per ciò che sono; espiano il loro 'essere', e non il loro 'avere', non delle azioni, una opinione politica o una fede, ma la fatalità di una nascita.» Due studiosi francesi, Stéphane Courtois e Adam Raysky, hanno pubblicato, sempre nel 1987, presso le edizioni parigine de La Découverte, un libro intitolato Qui savait quai? L'exterminations des Juifs 1941-1945, ove si documenta, in modo ineccepibile, l'operato e ostre colarità di massa, lo strumento della persistenza ludica. Non si tratta di un gioco burlesco d'ironia regressiva; Pascali non crede al sarcasmo, piuttosto si preoccupa di vagliare i referenti, gli idoli del proprio immaginario infantile: li «preleva» e li immette nel teatro dell'opera secondo una strategia della rappresentazione vicina al concetto di reverie. Le Armi del 1965, costruite con perizia da scenografo illusionista, non alludono in ogni caso all'oggetto _offensivo, né sono met<\fore della metria del tuttotondo fa da controvoce l'assenza virtuale del peso e della massa, grazie ai materiali: e cioè la tela bianca fissata su una struttura di legno che contiene già il disegno dell'opera. Le finte sculture mostrano un bestiario reale e fantastico: squali e giraffe, dinosauri e draghi. È un bestiario sovente acefalo: soltanto gli elementi di massima significazione gestuale-anatomica sono utilizzati formalmente nella costruzione dell'artificio. Pascali così dimostra l'assimilazione di quella linea della L'Editore Crocetti annuncia l'uscita di PIIII diretto da Patrizia Valduga Il primo mensile italiano di cultura poetica internazionale Da metà gennaio nelle edicole. L'abbonamento annuo può essere sottoscritto versando L. 50.000 sul conto corrente postale n. 43879204 intestato a Crocetti Editore. CROCETTI EDITORE Via E. Falck 53, 20151 Milano, te!. (02) 3538.277 pulsione di morte, segnano piuttosto il desiderio del possesso attraverso la riproducibilità delle cose e dell'esistente; hanno l'essenza delle «macchine celibi» della tradizione dada-surrealista ma, diversamente da queste ultime, presentano l'appagamento dell'istinto desiderante. Ma non è attraverso le Armi che Pascali fa il verso agli argomenti della scultura, bensì nel ciclo successivo cosiddetto delle Finte sculture (1966). Ad una concreta voluscultura moderna che muove da Brancusi. 32 metri quadrati di mare circa (1967), forse il suo più noto lavoro, con le Pozzanghere e le Botole ha espresso comunque il massimo sforzo pascaliano per la ricostruzione della natura fuori da ogni concezione monumentale del fare artistico. Non è interessato al simulacro del mare, non vuole affermare la perdita, bensì la valenza epifanica della stratificazione profonda di un'immagine (immagine-forma) che si sostanzia antropologicamente in se stesso. Nel 1968 (che è anche l'anno della sua tragica scomparsa) presenta nella sala personale alla Biennale di Venezia i lavori in lana d'acciaio: Arco di Ulisse e Ponte, tra gli altri. Si dissocia dalle posizioni di chi attua il gesto politico di chiudere gli spazi espositivi, in una scelta che conferma ancora un'indole nella quale ogni dialettica esterna all'affabulazione ininterrotta non trova domicilio. Credo che Pascal i (e penso la sua opera accanto a un altro protagonista come Richard Long) attraverso 1 metro cubo di terra (nel nome è la cosa) sia riuscito ad esprimere il domicilio di Cerere e la memoria catastale; la Terra in questo prodigioso suo pensiero diviene luogo del mito e oggetto del possesso anche come possibile valore di scambio, e, forse inconsapevolmente, Pascali ha qui realizzato il più bell'omaggio alla memoria delle lotte contadine del Meridione. La mostra milanese, curata da Fabrizio D'Amico e Simonetta Lux, racconta senza omissioni le fasi di un lavoro che è tra i maggiori contributi artistici della seconda metà del secolo. Il catalogo edito da Mondadori-De Luca è un corretto documento che si aggiunge alla vasta bibliografia sull'artista. Forse l'allestimento avrebbe richiesto una più attenta scansione cronologica del percorso, se non altro per evitare l'equivoco che Leonardo Sinisgalli ipotizzava in un suo testo lucidissimo: ossia l'opera di Pascali come oggetti abbandonati sul pavimento di una palestra nel disordine del caso. Pino Pascali (1935-1968) Milano, Padiglione d'Arte Contemporanea 15 dicembre 1987 - 31 gennaio 1988 Catalogo a cura di Fabrizio D'Amico e Simonetta Lux Milano, Mondadori, 1987. Alfabeta 105 del governo di Vichy per «scovare» e consegnare gli ebrei francesi all'occupante tedesco. «Dal marzo 1942 all'agosto del 1944, 75.721 ebrei sono stati deportati - vi leggiamo. Di essi 2.044 erano bambini di meno di sei anni, e 8.780 ragazzi di meno di diciassette anni. Ne sono tornati meno di 3.000». Erano i tempi in cui su uri giornale francese, «Le pays libre», si poteva leggere (12 aprile 1941): «Per la vita, perché il nostro Paese possa durare, ripuliamo, senza ritardi, la cancrena ebrea: sbarazziamoci di questa verminaia, come si fa delle cimici e dei topi». E in Italia? Non mi risulta che una ricerca analoga sia stata compiuta, o, comunque, abbia avuto la risonanza che si sarebbe meritata. Ieri come oggi; e forse particolarmente oggi - come il film di Malie o il libro di Courtois e Raysky. Oggi, dopo la presa di posizione di De Felice, e certi ambigui corteggiamenti verso coloro, il Movimento Sociale Italiano, che del fascismo apertamente si proclamano eredi e continuatori. Mario Spinella Astrazione Marco Meneguzzo A straziane in arte, è una parola che necessita di una rigenerazione concettuale, quasi di una palingenesi: coinvolta nella dicotomia conflittuale con la figurazione, durante gli anni cinquanta, mantiene un rapporto di quasi uguaglianza col concetto di avanguardia, e sicuramente si situa nel territorio ultimamente aborrito, e ora in via di ripensamento, della modernità. Un fardello di cui ci si libera difficilmente, e che è costato a chi ne praticava i modelli l'accusa di essere fuori dello scenario reale, nell'ambito dell'utopia progressiva delle ascendenze idealistiche: anche oggi, parlare di «Astrazione povera», come va facendo Filiberto Menna ormai dal 1982 (le avvisaglie sono nel catalogo Costruttività, ma scelte e formulazioni più aderenti alle nuove generazioni d'artisti sono ne li meno è il più del 1986) rischia di apparire obsoleto, l'estrema propaggine di un'idea di progetto che il mutare degli scenari ha irrimediabilmente bocciato. Non è così: il concetto merita ben altre considerazioni, e soprattutto maggiori sottigliezze interpretative. Identificare, come fa Menna, l'arte recente - non l'attuale - con la riflessione sul passato, secondo moduli diversi ma sempre riconducibili ad un nucleo citazionistico, può essere riduttivo, ma certo contiene buona parte di evidente verità; contrapporre a questa forza entropica e centripeta il rilancio della «costruzione del nuovo» attraverso l'astrazione (poi si esaminerà anche l'aggettivazione del termine) pone in essere questioni francamente «a monte» di ogni singola scelta artistica. Parrebbe infatti che la querelle fosse salita di un grado categoriale, coinvolgendo nella lotta quel che si considera essere una declinante postmodernità - centrata

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