Alfabeta - anno X - n. 105 - febbraio 1988

Alfabeta 105 suggestioni dell'esterno, le crisi, le scelte concretamente operate, il senso che queste acquistano. Con la decisione di operare nello specifico dei testi moderni, si evidenziava anche la storicità di un fenomeno legato a trasformazioni sociali - divisione del lavoro, sviluppo dell'editoria e del giornalismo, estensione e diversificazione dell'area dei lettori-, nonché a una diversa coscienza del mestiere di scrivere e del valore della propria produzione. Roger Pierrot, già direttore del Dipartimento manoscritti della B.N., racconta come si è costituita questa collezione, a partire dal lascito di Victor Hugo, sancito, con stile tutto suo, nelle disposizioni testamentarie del 31 aprile 1881, quattro anni prima della morte: «Je donne tous mes manuscrits, et tout ce qui sera trouvé écrit ou dessiné par moi à la bibliothèque nationale de Paris, qui sera un jour la Bibliothèque des Etats-Unis d'Europe». E Stendhal, che scriveva per pochi lettori del 1880 o 1935, rilegava lui stesso i propri manoscritti, costellandoli di annotazioni e I pacchetti di Alfabeta di testamenti a margine con indicazioni per la pubblicazione e imperativa condizione (La vie de Henri Brulard) di «envoyer les exemplaires aux bibliothèques d'Edimbourg, Philadelphie, New-York, Mexico, Madrid et Brunswick» (aggiungendo da gentiluomo: «Changer tous !es noms de femme, condition sine qua non»). E così via, fino a Sartre, noncurante dispensatore di manoscritti agli amici e ironico commentatore della propria trasformazione in «monumento storico», ma nient'affatto insensibile a una strategia delle edizioni e dell'effetto di spiazzamento post-mortem. Fino a Christa Wolf, che ha fatto dono all'ITEM dei 33 incipit del romanzo autobiografico Kindheitsmuster. La riflessione in questa direzione è tuttavia per il momento secondaria rispetto al - lavoro sui testi e all'esigenza di una profonda revisione della teoria del testo. Nell'articolo succitato, Louis Hay, con alle spalle, ormai, anni di ricerche e di fortuna di una problematica dell'avantesto a partire dalla formulazione di J. Bellemin-Noel (Le texte et l'avant-texte, Larousse, 1972), riaffronta dunque la questione dello statuto del testo, per portare alla constatazione che questo non può essere definito in maniera assoluta; e propone di pensarlo «come un possibile necessario, come una delle realizzazioni di un processo che rimane sempre virtualmente presente sullo sfondo e costituisce come una terza dimensione dello scritto». E anche quest'ultima espressione ha fatto fortuna: di «terza dimensione del testo» si parla ormai per designare lo spazio del suo divenire ... Riemerge dall'energica cancellazione che era stata decretata negli anni sessanta la nozione di autore, priva di aura e di aureola, come di colui che è stato concretamente all'opera in tutte le tappe di realizzazione del progetto creativo, colui che si ritrova dalle prime annotazioni su un foglietto fino alle disposizioni per le edizioni o per quella grossa parte di materiale che dall'edizione rimane esclusa. Figura reale e figura storica, che nel lavoro porta gli umori della sua condizione esistenziale, i rumori pagina 15 della storia che si fa intorno a lui, le suggestioni di ciò che legge, che vede, che ascolta, l'immagine del lettore a cui si rivolge. E ·acquista rilievo, in questo tipo di investigazione, anche la nozione di incompiutezza, che da segno di fallimento o d'impedimento alla realizzazione diventa modo di esistenza della scrittura, spesso dotato di una sua necessità interna. L'attenzione passa dagli effetti ai meccanismi che sono all'opera nell'inachèvement, in quanto illuminanti dei processi di scrittura. Esplosa alle soglie dell'era informatica e della videoscrittura - nel momento dello storico commiato da carta e penna, che hanno permesso l'iscrizione degli umori e degli affetti nell'occupazione dello spazio, così come nella correzione e nella cancellatura - la passione per la genesi dei testi della nostra modernità coniuga l'aspirazione alla scientificità con il fascino per una traccia che si sa destinata a scomparire. Ha anch'essa la sua storicità, e come tale, oltre che per i risultati, merita di essere interrogata. Valé eProust on~·-e e trasmissionedel senso Maurizio Ferraris Ermeneutica di Proust Milano, Guerini, 1987 pp. 124, lire 13.000 Elio Franzini Il mito di Leonardo Milano, Unicopli, 1987 pp. 468, Lire 44.000 U no dei punti di forza ma anche dei limiti della tradizione ermeneutica sta nel privilegiamento delle lingue naturali. È la lingua il vero medium espressivo nel quale si raccoglie il significato ultimo delle produzioni umane. Ciò non vale solo per l'ermeneutica intesa come autonoma prospettiva filosofica, e in particolare per il pensiero di Hans-Georg Gadamer che ne costituisce forse il più significativo esito (e comunque il massimo punto di riferimento del dibattito contemporaneo). La centralità della lingua percorre la tradizione ermeneutica, e precorre i suoi esiti ultimi, il porsi in primo piano dell'interpretazione come una prospettiva autonoma, indipendente dagli oggetti sui quali volge l'attenzione. Come ha ricordato Habermas nel Discorso filosofico della modernità, la teoria dell'interpretazione, già a partire dal romanticismo, si riconduce a quel movimento di contestazione del «primato platonico-aristotelico del logico sul retorico» che fu proprio della corrente che conduce da Dante a Vico. Questa centralità della lingua, derivata dal grande alveo umanistico, ha fornito all'ermeneutica un 'universalità che le ha permesso di porsi al centro di molta parte della riflessione filosofica contemp'oranea. È quanto si può ricavare con particolare evidenza dalla riflessione di Gadamer: in quanto il linguaggio è la fondamentale condizione non epistemologica dei singoli saperi, la teoria dell'interpretazione può prospettarsi come un'universale koiné filosofica. Una prospettiva di questo genere presenta tuttavia diversi rischi: primo fra i quali quello di mettere a tacere i diritti del silenzio, della cifra, del geroglifico, del fare Federic Vercello e po1et1co, di tutto cw, in altri termini, che non ha a che fare con la trasmissione del senso ma con le sue origini e la sua edificazione. Per sfuggire a questi rischi è necessario modificare il nostro punto di vista: principalmente non eleggere l'accadere delle interpretazioni come criterio ultimo del significato delle opere (secondo l'insegnamento che l'ontologia ermeneutica ha derivato da Heidegger). Questo comporta infatti che si privilegi essenzialmente la definizione ultima dell'opera, sia pure sempre ulteriormente riformulabile sulla base del divenire delle interpretazioni. È su questa via che si pone Elio Franzini nel suo studio su Il mito di Leonardo, nel quale ci si propone un punto di vista volto a delineare la fenomenologia della creazione artistica. Si tratta di porsi in un'ottica che riconduce la creazione artistica al fare, a un fare consapevole denso di conoscenza. La t, u 1 o /4 «La prego, torni nella sua cassa, altrimenti comprometterà il mio equilibrio!» «Le Charivari». 13 gennaio /869 significativa occasione per un tentativo di questa natura è la ricognizione del mito di Leonardo e, in particolare, del nesso che in esso si evidenzia tra creazione artistica e riflessione filosofica. È un mito che, nello studio di Franzini, viene ripreso nelle sue vaste articolazioni nella cultura rinascimentale e nei loro riflessi sulla cultura novecentesca, per giungere a Valéry e a un approccio fenomenologico del fare artistico. Il mito in questo contesto non è soltanto il mito di Leonardo; o, più precisamente, quest'ultimo è l'immagine adeguata del mito sottinteso dal fare artistico in generale. La produzione delle opere (ci troviamo in un contesto decisamente antiromantico all'interno del quale utilizzare il termine creazione sarebbe inadeguato) ha origine all'interno di una natura della quale l'opera d'arte non è che il proseguimento. Ma nel proseguirla l'opera non esaurisce le sue sources; al contrario le arricchisce ridando luogo a quell'enigma del quale essa è una primitiva risposta. Ogni opera è dunque un inestricabile intreccio di mito e conoscenza, e il suo messaggio filosofico, l'universalità dei suoi contenuti non può essere estrapolata e posta - per così dire - fuori contesto. Non si tratta di ritrovare il «pensiero», il contenuto speculativo dell'arte, e di tradurlo nel linguaggio della filosofia (sia pure con intenti antimetafisici) come avviene, per esempio, nella sia pur straordinariamente densa e ricca interrogazione heideggeriana dei poeti. Ciò costituirebbe, in fondo, ancora un privilegiamento di quella linguisticità che costituisce il punto di forza, e il probabile limite della tradizione ermeneutica. È da questo punto di vista che si possono cogliere i messaggi del1 'arte; la cui universalità è quella propria dell'homo faber. È un riconnettere le diverse attività umane, i diversi saperi riconoscendone il loro originario carattere poietico. È proprio da questo punto di vista che si rivf;la la portata della figura e del mito di Leonardo nella cultura estetica novecentesca: «È significativo - scrive Franzini - che attraverso Leonardo si apra una stagione

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