Alfabeta - anno X - n. 105 - febbraio 1988

pagina 12 A più voci Alfabeta 1051 • erav1 • òSeantichità D ue buoni convegni sull'antico quest'autunno: un incontro a Bressanone, in ottobre, tra le équipes di ricerca di Padova e Pavia, promosso da Oddone Longo e Diego Lanza; e un colloquio a Siena in dicembre, dovuto ancora a Oddone Longo, insieme con Maurizio Bettini e Carlo Tullio Altan, e sfociato nella costituzione di una società per gli studi antropologici sul mondo antico. Da un certo punto di vista, il seminario di Bressanone, su Il verosimile e il meraviglioso nella cultura antica e medievale, ha costituito un caso particolare, un'anticipazione tematica, del più ampio quadro di un approccio antropologico-culturale all'antico che si è tracciato (e problematizzato) a Siena. Nella «tipologia della cultura antica» delineata a Bressanone (e l'intervento conclusivo di Cesare Segre conforta circa la legittimità di questa espressione), è emersa una tendenza dominante di quella cultura intorno ai temi di verosimile e meraviglioso. La tendenza, cioè, a disciplinare, ad assumere il controllo della forza retorica del verosimile, del suo potere suasivo, e del carattere inquietante del meraviglioso, in quanto rottura delle norme dell'essere e del dover essere (L'addomesticamento del diverso mediante l'assimilazione al noto, di cui ha parlato Longo.) Questo sforzo di disciplinamento, come ha mostrato Francesco Bertolini, ha le sue origini lontane già nei poeti omerici, che trattano il materiale folclorico con le cautele, le manipolazioni sapienti imposte dall'esigenza di moralizzazione da un lato, di plausibilità dall'altro, che la loro epoca, il loro pubblico, il loro stesso senso di responsabilità culturale richiedono di fronte ai contorni incerti, troppo simbolici e polisemici, del mondo delle fiabe. Come l'epos rimpiazza, nella cultura alta, il folclore, così molto più tardi il nuovo sapere, scritto e razionale, dei filosofi, tenterà di sostituirsi all'epos. Fabio Roscalla ha ripercorso il cammino di questo straordinario sforzo platonico, che riesce al solo patto di indossare, mimeticamente, i panni del nemico sconfitto'. Platone lotta tenacemente per garantire le condizioni di dominio di un logos razionalmente «forte», <<saldo», immediatamente referenziale alla verità; ma il suo avvento, sempre dilazionato (per l'eccesso di ambizioni, di aspettative unificanti e totalizzanti che gli vengono attribuite), finisce per costringere il discorso platonico, nell'attesa, ad attestarsi su di un piano allegorico-metaforico, a rassegnarsi allo scacco - riconosciuto nel Timeo - di costituirsi come un eikos mythos, un «mito verosimile», che tiene - in una provvisorietà senza termini - il luogo della verità annunciata ma imprendibile. È piuttosto Aristotele, grazie ad un lavoro di disciplinamento del logos, e sul logos, più efficace proprio perché meno ambizioso, meno immediatamente proiettato verso la -totalizzazione dominante, a pqrtare a compimento la normalizzazione culturale di verosimile e meraviglioso. Le sue strategie concettuali sono state sezionate a Bressanone, con la sicurezza che le è consueta, da_Silvia Gastaldi. In primo luogo, Aristotele deporta il verosi,. mile (eikos) dal suo luogo originario, poetico-retorico, per inserirlo sull'asse ontologico-epistemologico: il verosimile è ciò che tende accadere con frequenza e regolarità, Mario Vegetti è prossimo alla normalità della natura e quindi suscettibile di una conoscenza epistemologicamente legittimata: per questo, secondo il celebre verdetto aristotelico, la poesia, ambito elettivo del verosimile, ha maggior dignità «filosofica» della storia, che si limita alla narrazione di eventi irregolari e sporadici. Quanto al meraviglioso, l'analisi aristotelica lo riduce a un caso-limite del verosimile: sorprendente, perché apparentemente fuori dal logos e dalla natura, esso non ha in realtà nulla di anomalo, dispone di «cause» soltanto più remote e celate allo sguardo. In questo senso, Diego Lanza ha chiarito l'analogia istituita da Aristotele fra il meraviglioso della tragedia e i sorprendenti meccanismi automatici, gli automata, che cominciavano allora a stimolare la riflessione. Essi si muovono senza ragione apparente, solo perché il dispositivo motore, la «causa», è nascosta all'occhio dello spettatore; allo stesso modo il dispositivo tragico suscita meraviglia, non perché irrazionale e anomalo, ma perché le sue cause, perfettamente umane e «naturali», sono dal poeta fino a un certo punto occultate, e solo in seguito rese disponibili alla comprensione razionale. Sulla scorta di Aristotele, un paio di secoli più tardi, Polibio produrrà la teoria del «meraviglioso» nella storia, un meraviglioso capace di renderne la narrazione altrettanto legittima, sul piano ontologico ed epistemologico, di quella tragica secondo Aristotele. Ho cercato di mostrare (anche sulla scorta di ricerche recenti di Adriana Zangara), come questo «meraviglioso» consista per Polibio nell'unificazione, e nella razionalizzazione, imposta agli eventi storici dallo sviluppo universale del dominio romano: in questo modo, la storia si unifica, si normalizza, si rende disponibile alle procedure di controllo del logos. Grazie a tutto ciò, può costituirsi una tenace ideologia storiografica di tipo «scientifico»: la narrazione storiografica può presentarsi come descrizione rigorosa di un campo ontologico stabilizzato, e abbandonare sem- • mai al destino della fiction fantastica proprio quel mythos poetico che Aristotele le aveva contrapposto come maggiormente «filosofico». Il predominio del verosimile aristotelico in estetica e in storiografia tende comunque a confinare l'ambito del meraviglioso non-normalizzato nel ghetto di un genere letterario minore, anche se di vasto consumo, quello dei paradossografi, scrittori, appunto, di «mirabilia». È interessante notare che questa letteratura costituirà nel Medioevo e nell'Umanesimo (come ha mostrato Pastore-Stocchi) una sorta di repertorio museografico delle «strane antichità», venerabile come tutto il classico ma non più suscettibile - per esempio secondo Petrarca, che rifiuta Marco Polo_::di ulteriori espansioni moderne. Eppure, il meraviglioso tende in modo più o meno sotterraneo a sottrarsi alla normalizzazione imposta dal ferreo dispositivo aristotelico. Monica Centanni legge per esempio, nei tardi racconti delle avventure di Alessandro in Oriente, la tensione verso una rottura quasi-romantica dei limiti di un mondo che Aristotele voleva finito e concluso. Nel romanzo fantastico di Luciano, F. Donadi e Anna Beltrametti vedono in modi diversi la forza dirompente del meraviglioso: nel senso onirico, inquietante, del «meraviglioso quotidiano» il primo; nel senso di una estrema provocazione letteraria, di una sfida parodistica lanciata alla logica aristotelica del verosimile la seconda. M olti dei materiali discussi a Bressanone (gli Atti verranno, si spera, tra breve pubblicati a cura di O. Longo e D. Lanza), potrebbero venir considerati, si diceva, come una particolare esemplificazione tematica dei problemi più generali discussi nell'incontro di Siena. Qui si è partiti da un'esigenza comune, largamente avvertita e in parte già sperimentata: quella di innestare una prospettiva antropologica negli studi sulle culture· antiche, che, nonostante il profondo rinnovamento intervenuto negli ultimi decenni, rischiano sempre di nuovo di incagliarsi nelle secche ideologiche del classicismo da un lato, in quelle tecnicistiche della filologia antiquaria dall'altro. Del resto, è anche probabile che per gli stessi antropologi non sia privo di interesse l'allargare lo sguardo verso società di scrittura ad alto livello di formalizzazione culturale come appunto quelle antiche (non solo greco-romane, naturalmente, ma anche orientali). Il primo e più agevole terreno d'incontro è, naturalmente, quello dell'antropologia culturale, con le sue propaggini tipologicosemiotiche. Così come alcuni dei contributi di Bressanone, almeno due di quelli presentati a Siena possono venir considerati esemplari in questo senso. G. Pucci ha sperimentato la possibilità di una lettura «narratologica» dell'opera figurativa individuandovi la trasposizione spaziale della concezione della temporalità a suo tempo individuata nella cultura latina di Maurizio Bettini. Il tempo viene qui pensato, secondo Bettini, in uno schema polare avanti/dietro, cui corrispondono le dimensioni passato/futuro (con una chiara valorizzazione assiologica del passato). Nella figurazione, Pucci ha mostrato come questo schema venga spazializzato secondo la polarità destra/sinistra (dove si riattiva, senza ovviamente che si possa pensare ad una «dipendenza» culturale, l'analisi aristotelica del movimento). Dal canto suo, Diego Lanza ha analizzato i materiali rituali e mitologici' messi in scena da Euripide nell'Ifigenia in Tauride, ricostruendo i dispositivi di selezione da un lato, di ridondanza dall'altro con cui il tragico governa questi materiali: il senso di questi dispositivi è stato problematizzato in ordine a un duplice interrogativo semiotico, circa le strategie del messaggio poetico da un lato, le attese del pubblico del teatro ateniese dall'altro. Ma come procedere oltre, in questo esperimento di innesto dell'antropologia negli studi classici? Qui la discussione senese è stata vivace, e il problema resta naturalmente aperto. Clemente ha posto un interrogativo di fondo: quale antropologia? Non certo quella delle pur ricorrenti, e •troppo facili, tentazioni comparatiste. Né ci si può fermare alla pura e semplice contrapposizione, alla Lévi-Bruhl, di pensiero mitico-simbolico e pensiero razionale: nessuno dei due è naturalmente presente allo stato puro in culture complesse come quelle antiche, dove elementi appunto miticosimbolici persistono fin nel cuore delle più astratte teorizzazioni filosofico-scientifiche (i lavori di G. Lloyd sono lì a dimostrarlo), e dove per contro i materiali mitici e rituali sono oggetto di un lavoro costante e assiduo di interpretazione, di risemantizzazione, di ricontestualizzazione culturale (e anche questo ci è ben noto per esempio dalla tragedia). L'analisi di questi intrecci, che richiede all'antichista uno sforzo di acculturazione antropologica e all'antropologo almeno l'abbandono di schemi oppositivi validi forse per società più tradizionali, più «fredde», rappresenta certo uno dei compiti più stimolanti che ci stiano di fronte. A un patto, almeno per quanto mi riguarda: che l'antropologia non sia un cavallo di Troia per convalidare il ritorno di ideologie irrazionalistiche, più o meno neo-romantiche, intese a valorizzare le arcane verità del mito e del «simbolo» a danno di quelle più mondane dei saperi teorici (pur con il loro carattere inestricabilmente intessuto di incertezza e di arroganza, di cui veniamo sempre meglio rendendoci conto). Altri partecipanti al colloquio di Siena, e soprattutto gli storici come Ettore Lepore, hanno espresso la loro preferenza per un ritorno ai grandi temi dell'antropologia sociale - e cioè alle strutture produttive e riproduttive, alle forme economico-politiche, agli apparati ideologici - che, dopo il vivace dibattito degli anni sessanta e settanta, appaiono ora in qualche modo di nuovo sottratti all'attenzione degli studiosi. Poiché in questione, in ogni modo, è sempre di nuovo l'interpretazione dei testi, non si tratt_erà comunque di definire una ortodossia antropologica buona per tutti i casi, ma di mettere a punto un ventaglio di strumenti di analisi, insieme duttili e precisi. Ben consapevoli, comunque, che nessuno di essi è neutrale ed esente da pre-giudizi di ordine complessivo. Se la critica dell'ideologia è uno dei campi di lavoro dell'antichista-antropologo, essa deve però anche venir messa in opera, innanzitutto, sulle strategie e gli strumenti di questo stesso lavoro. Su questo (oltre che sulla capacità di produrre effettivi incrementi di conoscenze storico-culturali) si misurerà la vitalità della «società» fondata a Siena, verso la quale credo sia lecito nutrire attese importanti. È lecito perché - come anche Bressanone è Siena hanno confermato - ·esistono già in questa direzione significative esperienze di lavoro, di collaborazione e di aggregazione fra gli antichisti delle diverse specialità (grecisti, latinisti, storici, archeologi, storici della filosofia). E trovare momenti collettivi di confronto è tanto più importante ora, in quanto ci sono venuti a mancare, nel giro di pochi mesi, due importanti figure di riferimento, pur così diverse fra loro, come quelle di Moses Finley e di Arnaldo Momigliano. Mi riferisco alla loro scomparsa senza alcuna intenzione retorica né di appello alla pietas comune. Ognuno a suo modo, essi hanno per lunghi anni stimolato la consapevolezza critica, la.sperimentazione intellettuale nel campo degli studi di antichistica; e hanno «protetto» culturalmente gli sforzi di innovazione, garantendo loro una sorta di autorevole legittimazione sia nei riguardi delle spinte più obsolete della tradizione, sia di tendenze culturali .egemonizzanti come quelle di orientamento analitico e di area anglosassone. È importante proseguire insieme nella direzione, da loro tracciata, di «scongelare», e «decolonizzare», in ogni senso, gli studi classici.

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