A più voci Storia letteraria e divulgazione Design memorandum Il politico oggi Curi, Dal Lago Tradizione del nuovo Argan . ·, Saggi Sul.rischio Vineis Malerba Muzzioli .. .....,.~e,'-~· ... .. . , .... \ ,. • "' ~ ,i .. . . . ,,, ·- ... Cfr Recensioni Evidenziatore Classifiche Mostre Convegni "'i . .,_ .. :· ,,..,. . .,.. •.~-. Pacchetti di Alfabeta Proust. Genesi del testo Heidegger. Segnali sul sentiero Hirschman ,, Nuova serie Febbraio 1988 Numero 105 I Anno 10 Lire 6.000 Edizioni Caposile s.r.l. Via Caposile. 2 • 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo 111/70• Printed in ltaly Prove d'artista Giovanni Giudici Enrico Rambaldi Paolo Pietroni A Ivan Angelo Ugo La Pietra YuriSoloviev Design eperestrojka • . , ... , ...... - ..... ~,,. .":..,~"' ,,.,. .
pagina 2 Le immagini di questo numero Alfa beta 105 onoréDaumier, odell'esse11ziale I l ruolo del disegno satirico è sempre oltre l'immaginabile della realtà, anche se alcuni elementi dell'immagine devono essere riconducibili ai codici degli interpreti. La comprensibilità di un'immagine che parla del presente attraverso citazioni, testi che sono già nel futuro, non è immediata e direttamente collegata al panorama iconografico già operante e funzionante nel mercato delle comunicazioni visive. Proprio in questo spazio non ancora segnato, non ancora delimitato né occupato dai linguaggi preesistenti, deve operare il disegno satirico, la caricatura, ovvero tutta quella serie di interpretazioni del mondo che parlano di un altro mondo, di un'altra società possibile. Nella tavola del disegnatore tutta questa tensione verso il contrario del principio di realtà, verso un nuovo codice etico e politico, si traduce in segni forme scritture che pur restando fondati nella storia del presente, parlano dello scandaloso occultamento della verità, della giustizia, dei grandi valori della solidarietà sociale. Interno ed esterno, visibile ed invisibile, desideri e intenzioni, ordine e disordine, sono alcune delle polarità presenti in ogni disegno che non si accontenti del puro e semplice rispecchiamento della realtà. Come scrive Ernst Gombrich nel suo saggio La maschera e la faccia, «questa funzione della nostra reazione corporea nella esperienza del/'equivalenza può anche servire a spiegare l'aspetto preminente della caricatura, la tendenza alla distorsione e ali'esagerazione: il senso interiore delle dimensioni, infatti, differisce radicalmente dalla perfezione visiva della proporzione. Il senso interiore esagera sempre. Tentate di muovere verso il basso la punta del naso; vi sembrerà di avere un naso diversissimo, mentre il movimento reale che avete compiuto è solo una frazione di centimetro. Nulla di strano quindi se il caricaturista e l'espressionista che si affida al suo senso interiore tenderà ad alterare la scala; gli è possibile farlo senza pregiudicare la sensazione di identità se riusciamo ad essere partecipi delle sue reazioni di fronte alla stessa immagine». Honoré Daumier, uno dei grandi della caricatura del secolo scorso, dagli anni trenta fino a metà degli anni sessanta è stato un testimone diretto della Francia e del- /' Europa e delle loro contraddizioni politiche e sociali. Luigi Filippo, la repubblica francese, la folla anonima della III classe, il fantasma della pace giocato per alimentare la guerra, il secondo impero di Napoleone III: questi e altri repertori storici costituiscono il filo conduttore della sua storia, dei suoi disegni, una parte dei quali è presente nella mostra Il ritorno dei barbari: europei e selvaggi nella caricatura, aperta presso l'Accademia di Belle Arti di Napoli fino a metà marzo. La mostra, risultato di un'intesa fra Regione Campania, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli, è curata da André Stoll, autore insieme ad altri collaboratori anche del catalogo pubblicato da Mazzotta. Nell'introduzione di Stoll, giustamente si fa riferimento alla doppia realtà sempre presente nel disegno satirico, dove l'apparenza delle cose si trasforma nel suo contrario: «È partendo da figure in apparenza pacifiste di una moderna retorica politica che Daumier, con l'aiuto della sua arte e della sua tecnica di straniamento, si accinge a svelare le loro contraddizioni interne come tra pretesa armonia e realizzabilità, e tra uso del potere e impossibilità. Esasperando il disegno, egli spinge la parodia di questi personaggi della pace e di un'Europa armonica nel patologico e nel paradossale, a tal punto che la pretesa di idealità propagandata dai loro autori già si perde in un'estetica del brutto e dell'assurdo». La mitologia romana di Marte diventa, allora, per Daumier la riscoperta, dietro l'euforia di una società tecnologica e Sommario Design memorandum Dall'etica del progetto al progetto dell'etica pagina 8 Renato Cristin Segnali sul sentiero Francesco Muzzioli Malerba, raccontare e correggere Alfabeta 105 Febbraio 1988 Yuri Soloviev Design e perestrojka pagina 8 Angelo Cortesi A cosa serve un Memorandum design pagina 9 Aldo Colonetti lnternità ed esternità nel design pagina 9 Alberto Cadioli Editoria culturale Le Monnier 150" pagina 10 Claudia Salaris (Segnavia, di M. Heidegger; Uber die Linie, di E. funger; La fine della modernità, di G. Vattimo) pagina 17 Alberto Tarozzi Hirschman e, sullo sfondo, Mozart (Le teorie dello sviluppo e il terzo mondo, di B. Hettne; L'economia politica come scienza morale e sociale, di A. O. Hirschman; I pionieri dello sviluppo, a cura di G.M. Meier e D. Seers) pagina 18 Cfr pagina 35 Prove d'artista Giovanni Giudici Stopper pagina 36 Enrico Rambaldi De Motu pagina 36 Paolo Pietroni Il sogno di volare pagina 37 Ivan Angelo Bar pagina 38 Ugo La Pietra sofisticata, di una pace fondata sull'industria bellica. Anche i gesti più privati, le cerimonie apparentemente meno significative, si trasformano, con la matita di Daumier, in spettacoli osceni, assurdi, dove l'unica logica da rispettare è quella del rispetto delle forme. Daumier collabora ad alcune riviste dell'epoca, soprattutto «Charivari», e «La caricature», dove l'ostilità àlla politica governativa di Luigi Filippo e di Napoleone III, si rivela non tanto nella crudeltà di un visivo che direttamente presenta i grandi problemi sociali non risolti, quanto nell'ironia intorno alla retorica e alla magnificenza del regime. Gli anni sessanta sono gli anni dell'Esposizione Universale di Parigi; Daumier illustra, per esempio, questa grande iniziativa propagandistica descrivendo la curiosità della borghesia come segno non d'intelligenza ma di interesse acritico a tutto ciò che la società industriale presenta. La liberalità si trasforma nel suo contrario; L'altalena politica, dedicata alla borsa come nuovo gioco di società; o il disegno dedicato proprio all'esposizione, nel quale l'Esposizione e la Pace conversano ali'interno di un rapporto d'improbabile uguaglianza. Anche il concetto di risparmio viene deriso da Daumier; Cassa di Risparmio, un'immagine uscita nel 1868 in Le Charivari, interpreta questa azione apparentemente nobile, come un'azione della quale approfittano solo i grandi centri del potere finanziario. Anche La mia bicicletta, dove la Pace monta una bicicletta realizzata con una bocca di cannone, ironizza sulla contraddizione di una politica di pace fondata sul/' aggressione militare e quindi sulla violenza verso nazioni più deboli. Il segno di Daumier è impietoso, realistico ma contemporaneamente forte di una volontà utopistica, perché il suo discorso va oltre il confine dei fatti, della cronaca per cercare di disegnare, non tanto una società futura quanto una realtà senza ipocrisie. La tenuta dei disegni di Daumier, proprio per questa ragione, è nel segno della contemporaneità, le sue immagini parlano parzialmente, anche dei nostri problemi politici e sociali. La satira utilizza un linguaggio universale; come scrive ancora Gombrich «la percezione ha sempre bisogno di universali, non potremmo percepire e riconoscere i nostri simili se non potessimo cogliere l'essenziale e separarlo dall'accidentale». Honoré Daumier ha sempre colto nei suoi disegni l'essenziale. Edizioni Caposile s.r.l. Aldo Colonetti Mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore tecnico Luigi Ferrari Pubbliche relazioni: Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Monica Palla Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4 20139Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Stem S.r.l. Via Feltre 30, Milano Distribuzione: A più voci Antonio Porta Chi autorizza chi I Taccuini di Marinetti pagina 11 Evidenziatore pagine 19-20 Prova d'artista grafica pagina 39 Francesco Leonetti, Antonio Porta, Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 60.000 Storia letteraria e divulgazione pagina 3 Pound e la scienza Poesie pagina 4 Maria Luisa Ardizzone Alla radice del «Paradiso» dei Cantos pagina 4 L'arte come lavoro sulla percezione Intervista a Giulio Carlo Argan a cura di Francesco Leonetti pagina 5 Alesundro Dal Lago Fine della politica? pagine 6-7 Umberto Curi Destra/sinistra pagina 7 Amao ai collaboratori Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) gli articoli non devono superare i limiti di lungheua indicati per le singole sezioni (3-4 cartelle per A più voci; 5 cartelle per/ pacchetti di Alfabeta; 2-3 cartelle per Cfr; 10-15 cartelle per Saggi; le cartelle si intendono da 2000 battute) in caso contrario saremo costretti a proceMario Vegetti Meravigliose antichità pagina 12 1pacchetti di Alfabeta Sandra Teroni Proust. Genesi del testo (A la recherche du temps perdu, 1. di M. Proust; La naissance du texte, Colloque international; Leçons d'écriture, a cura di A. Grésillon e M. Werner; Le manuscrit inachevé) pagine 14-15 Federico VerceUone Valéry e Prçust Origine e trasmissione del senso (L'ermeneutica di • Proust, di M. Ferraris; li mito di Leonardo, di E. Franzini) pagine 15-16 dere a tagli; b) gli articoli delle sezioni recensive devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre indicare: autore, titolo, editore (con città e data), numero di pagine e prezzo; c) tutti gli articoli devono essere inviati in triplice copia ed è richiesta l'indiqwone del domicilio del collaLa classifica di Pier Aldo Rovatti Alessandro Dal Lago Gillo Dorfles Aldo Colonetti pagina 19 Cfr/Mostre pagine 20-21 Cfr/Altri libri pagina 21 Cfr/Convegni pagina 22 Cfr/Recensioni pagine 22-23 Cfr/Campi e discipline pagine 29-31 Saggi Paolo Vineis Sul rischio pagine 33-34 boratore. Tutti gli articoli inviati alla redazione vengono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Occorre in fine tenere conto che il criterio indispensabile del lavoro intellettuale per «AHabeta» è l'esposizione degli argomenti - e, negli scritti recensivi, dei temi dei libri - in termini utili e evidenti per il JetLe immagini di questo numero Honoré Daumier, o dell'essenziale di Aldo Colonetti In copertina: «La mia bicicletta!» «Le Charivari», 17 settembre 1967 tore giovane o di livello universitario iniziale, di preparazione culturale media e non specialista. Manoscritti, disegni e fotografie non si restituiscono, «Alfabeta» respinge lettere e pacchi inviati per corriere, salvo che non siano espressamente richiesti con tale urgenza dalla direzione. Il Comitato direttivo Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Aldo Colonetti, Alessandro Dal Lago, Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art direction e produzione: Gianni Sassi Cooperativa Nuova Intrapresa Grafica: Ancilla Tagliaferri Antonella Baccarin Editing: Studio Asterisco Luisa Cortese Alfabeta servizio abbonati Con nostro estremo rincrescimento, siamo tenuti ad informarVi che per gravi disservizi postali, le copie di «Alfabeta» 100 e 101, consegnate da noi regolarmente rispettivamente in data 15 settembre e 18 ottobre, non sono ancora pervenute agli abbonati. In data 9 noEstero Lire 80.000 (posta ordinaria) Lire 100.000 (posta aerea) Numeri arretrati Lire 10.000 Inviare l'importo a: Caposile srl Piazzale Ferdinando Martini, 3 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 57147209 Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati vembre 1987 ci è staia data assicurazione dall'Amministrazione delle Poste Italiane, che tale grave ritardo di spedizione verrà risolto al più presto. Certi della Vostra comprensione, cogliamo l'occasione per porgervi cordiali saluti. Il responsabile Francesco D'Abramo
Alfabeta 105 A più voci pagina 31 Chi aut5tizza chi Storia letteraria hi autorizza chi? È la domanda che è venuta spontanea quando le di- e scussioni sui recenti aggiornamenti di opere di storia letteraria contemporanea sono arrivate al calor bianco. I fuochi delle polemiche si sono, per la verità, accesi in settori diversi, con pochi rapporti tra loro, salvo il fatto che si tratta di Letteratura. Cerchiamo dunque di procedere rapidamente ma ordinatamente. Lasciamo ormai da parte la questione delle presenze e delle assenze del Dizionario Bompiani degli Autori di tutti i tempi e di tutti i paesi ( edizione 1987) dal momento che il mancato coordinamento tra i vari settori e la non omogeneità dei criteri di selezione è stata sufficientemente messa in rilievo e comunque non pregiudica il buon uso di un'opera di rapida consultazione. Certe lacune, poi, saranno facilmente rimediabili in successive edizioni. La vera discussione è cominciata a partire dagli aggiornamenti della Storia della Letteratura di Garzanti, opera di Geno Pampaloni per la narrativa e di Giovanni -Raboni per la poesia, come è noto. A me pare che la questione possa essere correttamente impostata a partire dalla scelta dell'Editore, colui che appunto si è preso la prima responsabilità di autorizzare selezioni e giudizi.· A me pare che Garzanti non avesse molte scelte a sua disposizione. Chi chiamare, infatti, per la letteratura contemporanea, se non qualcuno dei rari critici impegnati nella lettura quotidiana delle opere? Se la pratica della recensione è entrata in crisi, come anche «Alfabeta» ha più volte fatto rilevare, schiacciata soprattutto dalle strategie del marketing editoriale, è già molto che siano ancora disponibili sul mercato due critici come Pampaloni e Raboni. Il vero problema nasce dopo, dall'inadeguatezza delle risposte critiche alle loro scelte (che nessuno può pretendere che siano «perfette»). Ma quelle risposte da chi possono realmente arrivare se lo stato della critica «militante» è stato ufficialmente dichiarato «di crisi»? Tanto che Edoardo Sanguineti è stato costretto a dire, fuori dai denti, che sarebbe perfino meglio «bloccare le recensioni», con tutti i rischi connessi, «perché i recensori ormai tradiscono abitualmente il loro mestiere» (cfr. «L'Espresso», n. 15, 1987). È una legge antica quanto il mondo. Una volta che vi è stata autorizzazione dall'alto, è necessaria una legittimazione, dal basso. E una legittimazione può avvenire, in casi come questi, per mezzo di discussioni e rilievi adeguati, come sicuramente è stato quello di Guido Almansi a Pampaloni, che ha sollevato la questione del «comico» nella nostra letteratura; «comico» che è sempre stato visto come il fumo negli occhi, quasi disturbasse le sublimi altitudini degli scrittori presuntuosamente «Grandi» (cfr. «Panorama», 17 gennaio 1988). Proprio le eccezioni, rilevanti e confortanti, ci hanno confermato quel «vuoto critico» che è stato più volte descritto e denunciato; in questo «vuoto» si alzano fortissime le grida dei mezzi più potenti e pochi sono in grado di andarsi a leggere i veri rilievi tra le righe, tra le pieghe delle «opinioni». Questa mancata legittimazione da parte dei lettori non è stata messa in rilievo. Hanno invece prodotto disagio le osservazioni sul metodo, di Paolo Mauri a PampaIoni (cfr. «La Repubblica», gennaio 1988) perché al di là dell'indubbia intelligenza dello scritto, resiste il sospetto che un metodo rigoroso, ammesso che possa essere messo a punto (e Mauri non ne indica alcuno) diventa fatalmente autoritario e taglia fuori, in nome di una qualche ideologia critica, il brulicare delle proposte, il proliferare degli errori, insomma la stessa vitalità contraddittoria, come ogni vitalità, della letteratura. Ma torniamo a Edoardo Sanguine ti, che ha risposto a una richiesta di giudizio su due altre recentissime iniziative di storiografia letteraria, il volume secondo della Letteratura italiana raccontata da Enzo Siciliano (Mondadori Editore) e l'annuncio parallelo dell'uscita di La letteratura italiana, in edicola, a fascicoli settimanali, diretta da Enzo Siciliano, editore Armando Curcio. Il giudizio di Sanguineti è interessante dal punto di vista di una possibile storiografia «alta». Ha detto Sanguineti: «In una situazione di vuoto non è un caso che prevalgano le narrazioni estetizzanti alla Siciliano e le imprese enciclopediche alla Asor Rosa». Bene, da qui si può ripartire inserendo l'altra trascurata dimensione del discorso: la divulgazione. Dal punto di vista della divulgazione la narrazione personalizzata di Enzo Siciliano ha un valore più negativo che positivo; si rifà ai tentativi, ricordati e esecrati, di un Papini o di un Bargellini. Al contrario la progettata narrazione a più voci, ideata sempre da Siciliano per l'editore Curcio, può essere giudicata bene, perché ha messo al lavoro di divulgazione, se così si può dire, molti poeti e scrittori di notevole valore, e ha chiesto ad alcuni protagonisti Cassa di Risparmio, «Le Charivari».17febbraio 1868 .. della letteratura attuale, di raccontare quella del passato. In fondo, se ci pensiamo bene, il collettivo ideato da Enzo Siciliano, può perfino coltivare l'ambizione di riempire quel «vuoto critico» nel quale i singles della critica rischiano a ogni passo di perdersi. Ora, restando nell'ambito della divulgazione si può anche sottoscrivere quello che ha scritto Claudio Magris (cfr. «Corriere della Sera», 17 gennaio 1988) e qui ne riportiamo il passo conclusivo: «Intorno alle dispense appese all'edicola c'è semmai un residuo alone di quell'avventurosa proliferazione di libri, libelli, opuscoli e compendi con cui i poligrafi del Settecento iniziavano la letteratura moderna e la problematica ma sanguigna alleanza fra libro e giornale; c'è un'eco dei romanzi e dei manuali popolari del secolo scorso, delle enciclopedie a fascicoli e magari degli album di figurine sui quali imparavamo storia, geografia o zoologia. I veri topi di biblioteca rosicchiano anche le dispense, quando la carta ha un buon sapore». È chiaro che il «metodo» tanto invocato da alcuni (e sulla cui eventuale funzionalità si potrà discutere una volta che si presenti) difficilmente può essere «sanguigno», mentre quello che ci occorre, adesso, è vitalità e energia, onde evitare quella caduta nel «futuro del passato» che qualcuno ci ha presentato come unico scenario possibile (cfr. «La Repubblica», 24 dicembre 1987, inserto speciale Cultura: li passato che ci aspetta). Siamo talmente circondati da «richiami all'ordine» (neoconservatori, neoqualunquisti, neoapocalittici, neopuzzasottoilnaso, ecc.) che rischiamo di farci succhiar via tutto il sangue da questo nuovo esercito di microvampiri. ,,. ;· ,_f" J... • '7"" ':'. ..... -· ...a ......
pagina 4 A più voci Alfabeta 1051 Taccuini Pounde la scienza As Dantef's/ mirage in le philosophe Come il miraggio di Dante nel filosofo, so in Il Circo spectre of the così sull'orbita celeste lo spettro della procession of the Gods (Plato) processione degli dei (Platone] yea theref's/ the image on a circle, that they traversed, eer we ascended unto this. sì c'è l'immagine sulla sfera che essi hanno attraversato, prima che noi vi ascendessimo. cioè il piano centrale curvo i.e. centrai curve piane della sfera, confrontato con il segme11to of sphere. cfd. to segment forth /rom center A che muove dal centro A And I this /esser wheel, yet mighty[;/ for the rast grew pale & nebulous we traversed the luminous, unstable - seeming firm. I am he, so loquitur the new, truth speaker, here that eer the rest gave forth the sign whereby ye & the Fiorentine do steer. Wehn[ce/ wrote thus the memory. Of what our souls erst saw in Company with God when looking down we far beheld the whirling that we deem true being, when the shell is ali our bond. Alle radici del «Paradiso» dei Cantos Maria Luisa Ardizzone Q uanto si tenta attraverso questi documenti è di segnalare un metodo e il suo percorso fatto di annessioni, di nuclei in dilatazione, di interazioni tra vari nuclei e che tocca, seppure problematicamente, il suo acme tra il finire degli anni venti e la ~rima metà degli anni quaranta. Acme propiziato dagli studi sul Cavalcanti e lo scavo teoretico strutturato cui costrinsero il poeta, che il progettato paradiso induceva intanto a ulteriore sintesi e chiarificazione. Di questo rimane cospicua testimonianza nell'epistolario, in parte inedito, avviato con il filosofo George Santayana dal 1939 e in alcune lettere già edite, a T.S. Eliot e Otto Bird della fine degli anni trenta. Seppure gli scritti giovanili, propri più alla preistoria che storia del poeta, permettano di stabilire una singolare coincidenza tra il primissimo e l'ultimo Pound. Su tale linea questi documenti segnalano la tensione verso un sistema che non dà un sistema; secondo l'esplicita dichiarazione di Pound contenuta in una lettera a SantaE io sono questa ruota più piccola ma potente; poi che la striscia divenne pallida e nebulosa noi attraversammo l'instabile luminoso che sembra fermo Io sono colui - così parla - il nuovo profeta, qui poiché prima degli altri ho tracciato il segno per cui tu e il Fiorentino siete guida. e così la memoria ha scritto di ciò che le nostre anime per prime videro in compagnia di Dio quando guardarono giù noi lontani contemplammo la rota che crediamo l'essere vero, quando il corpo è tutto il nostro limite. yana per cui, con il poeta, si potrà parlare di «disposizione» alla filosofia e di «bits», «frammenti» di filosofia. Il paradiso, quale si realizzerà nel poema, è nucleo aggregante e che anche motiva. Dove alcune pulsioni o predilezioni del poeta, individuabili sin dagli anni del College, trovano un significato che le supera, ma a cui ci si può rifare per riconoscerne la stratificazione. In tale prospettiva i primi tre documenti addotti segnalano in omogeneità l'importanza annessa alla natura e, in apertura, il fac-simile (I B], indica nel ragazzo raccoglitore di minerali e catalogatore una disposizione che prelude a un metodo: ...l'inventario, il particolare, il dettaglio, quello che in I Gather the Limbs of"Osiris (1911-1912) penetrerà come «the method of luminous detail». Il secondo [II] fa corrispondere alla interrogazione interiore lè risposte scritte nella natura. Non è la letteratura o Ovidio il fuoco di I Essay (1908(?]). Non il significato pure importante del mito di Dafne come risolto in The Tree (A lume spento, 1908), e su cui Pound ritornerà variamente, ancora nel XC con l'altro mito pure ovidiano di Bauci e Filemone. Non la natura come metamorfosi e divenire, bensì più fervido di risultati, rivelatore di una direzione I saw, up looking to the rea/m that Io ho visto, guardando in alto, verso il regno is true essence, tho they think we lie della verità, sebbene essi pensino che noi mentiamo noi che siamo della Sfera, that are of Bali, e del Tempo & temporality Lo Him ritieni you deem il maestro del gregge ihe master of flock he is the Fiorentine - him have ye transformed on the way to here egli è il Fiorentino - e tu lo hai trasformato but not far hence sulla via dell'al di qua ma non lontano da qui I bring the [?faith/ of our Graecian truth Io porto la fede della nostra verità greca The earlier pattern of the Son of God il più antico modello del Figlio di Dio this that is che esiste but of earth ma è terreno doth gather terribly terribilmente ci ricongiunge alla polvere che noi cantiamo to the slack we sing The earlier martyr for the truth ye see. Il più antico martire della verità vedete. That drank the hemlock so bold heartedly. Che bevve la cicuta così coraggiosamente. Jan. 19.08 19 gennaio 1908 ricca di sviluppi anche imprevedibili, che al dubbio dell'esistenza risponde la natura, che la risposta non è nell'astrazione ma nella concretezza, nella fisicità. E guardando gli esiti futuri emerge l'importanza di questi «flashes of cosmic consciousness» quando li si metta in relazione con, l'eletto da Pound, sistema confuciano, che unifica e pronuncia come processo della natura, anche la tensione etica, la vi~a delle emozioni. A sua volta [III B] («As Dante'[s] mirage», 1908) esplicitamente propone un programma che continua, ma per capovolgerlo, il percorso dantesco opponendo a eternità, temporalità, alla sfera celeste, «Bali» ed «earth». «Shell», la carcassa, il corporeo, è «il nostro limite» ma è quanto Pound si propone di esaltare. L'esplicita fonte platonica riconoscibile nel Fedro e alcuni versi centrali di ritorno nella prosa di The Spirit of Romance (1910) - lì dove inizia la lettura del Paradiso dantesco - ci aiutano a capire la direzione cui Pound guardava. Agli anni del College risale inoltre l'affermazione che il poeta deve lasciarsi limitare dal suo «medium» e «bounds». «As Dante'[s] mirage» è il documento precoce di una consapevolezza, preannuncia il Poema, dice di una continuità che diventa imperativo al capovolgimento. Nell'intervista rilasciata a D. Hall (1962) Pound farà arretrare l'idea del Poema al 1904-1905. Questa prova di poesia ci permette di assegnare al 1908 il progetto di una terrenità da cantare che sarà corporeità e fisica. È l'affrancamento da ciò che è ritenuto «bondage», perciò non più tale, che ci permette di riprendere alle radici il particolare umanesimo poundiano, indipendente dalle suggestioni degli anni londinesi. Il suo «Socrate» sarà Confucio, la sua Grecia sarà la Cina o ancora, con metafora dantesca negli Ur-Cantos, il suo Virgilio sarà la Cina. Dante è il modello a cui si guarda e da non ricalcare. Il percorso si farà dell'inversione di marcia. E quanto il poema per eccellenza del Medioevo tese alla metafisica, il poema del Novecento risponderà nel fisico, nel temporale, seppure egualmente forte sarà la carica e lo spessore etico. E il fisico verrà ricercato con la stessa ansia di assoluto, puntualità di riflessione, precisione con cui tradizionalmente era stato trattato quanto attiene alla metafisica. Tratto da: Maria Luisa Ardizzone, Ezra Pound e la scienza, Milano, Libri Scheiwiller, 1987.
Alfabeto 105 A più voci pagina s 1 L'arte OOiiie lavoro sulla • \ Leonetti. Caro Argan, poco fa, prima di approfondire i problemi del tuo Libro su Michelangelo e il suo manierismo, che tu stai per terminare, mi hai detto conversando: che l'arte si pone in crisi, oggi, insieme con l'etica del superamento. E che il post-moderno - come pur Michelangelo - nega appunto il superamento, il Laicismo, e gli atti progettuali o le utopie che cercano di costituire un «possibile» nel processo storico, nel movimento complessivo. (Permettimi di presentare in ordine utile a noi i tuoi propri argomenti e i momenti diversi dell'incontro con te.) Argan. Oggi vi è la crisi di tutta una cultura che si è data, come struttura primaria, la storia. E la storia è coerente raccordo tra memoria del passato, flagranza del presente, immaginazione del futuro. Il moderno è (o è stato) il contrario di ciò che fu l'antico in altri tempi, quando si pensava che i valori fossero tali in quanto stabili, magari eterni. Ma quel pensiero aveva un'essenza religiosa, che la cultura moderna ha abrogata: i valori la interessano perché mutano. Il ricambio dei valori non comporta però - ripeto ora qui - l'annientamento dell'idea del valore; al contrario. Non c'è modernità senza critica e superamento del passato; e non c'è superamento senza finalità, finalità senza intenzionalità, intenzionalità che non si traduca in progetto. Il rifiuto del superamento è il rifiuto della progettualità. Ora, la prima connotazione del post-moderno è stata già posta da Gianni Vattimo come annientamento del concetto di superamento: se non è superamento di un passato, il progresso è solo crescita quantitativa. Né altro che questa è la dinamica interna di una società dei consumi, sempre più indifferente ai valori d'uso e interessata ai valori di scambio. Tuttavia l'arte del post-modernismo non è affatto un sano o malsano ritorno alla tradizione; è la constatazione di uno stato di crisi. Il tradizionalismo infatti è soltanto apparente, svuotato di ogni significato dal fatto che dipende da uno stato di necessità, dall'impossibilità di poter fare altro. Non lo è, anche, perché, da quando nel Trecento il concetto di moderno è stato assunto come connotante dell'arte, nella cultura artistica occidentale non c'è stata altra tradizione che la tradizione del moderno. E infatti .. esiste, inoltre, l'arte è un lavoro sulla percezione: come dare a percepire qualcosa che si è percepito. E ha concorso fortemente a formare quella comune esperienza del reale • senza la quale non soltanto la cultura, ma la società stessa, non sarebbero possibili. Non si giunge alla percezione autentica se non attraverso la sua storia; ma non si può fare la storia della percezione se non facendo la storia dell'arte. Leonetti. Rileggo il tuo scritto del 1986, riguardante La Biennale di Venezia e La relazione di arte e scienza che è stata proposta in quell'occasione organizzativa. E peraltro gli argomenti di quello scritto (pubblicato in «Domus», gennaio 1987) sono utilizzati e ripresi qui, con tuo sviluppo. Tu dici che allora a Venezia il problema «è stato presentato da diversi punti di vista non tutti convincenti». non di un ritorno si tratta col post-moderno ma di una •• ~ • • .;.. ..,, i' - ricaduta; il passato è come una malattia che ci si por- • \t~ii(~\~\>. ta dentro e che, riacutizzandosi, scopre la propria .~ ---~. 1 ,;.;.,:,,.~..~-. ll"f,"!:;-; fata le inguaribilità. -:.c·.:' ·· -:''<,..;.::.:i. .. . -~ -,- ,. Col tanto frequente ricorso alla citazione (per lo più •.-• 1·· ~j./· · · :· :y ,:- sgrammaticata) si rievoca soltanto l'immagine, la facies - ' dell'arte citata: scompaiono le grandi coordinate che davano alla forma artistica forza cognitiva, lo spazio e il tempo. E oggi nella cultura e nella società ~ in atto una trasformazione strutturale; né si può ancora dire se nel senso di una più vasta laicità o di un più rassegnato e irredimibile conformismo. Leonetti. Ora più particolarmente ti interrogo per il dibattito aperto da Menna e da me in «Alfabeto»: che riguarda La situazione dei giovani artisti e scrittori oggi (con qualche modo di riferimento nuovo alle avanguardie) e Lametodologia critica utile a ridare orientamento o chiarezza o polemica esplicita nella ricerca. In alcuni di noi operatori del Sessanta riteniamo che i fenomeni del post-modernismo siano stati in parte recessivi. Tu poni un accento forte sul- /' esigenza di ripresa della progettualità (che, io penso, va ridefinita in termini più fluidi, accorti o tempestivi, che anni addietro). E però nel tuo discorso teorico e critico è importante, anzitutto, un'interpretazione decisiva tua propria 1ella per'ì(zione e dello svuotamento che oggi viene ad essa imposto. Argan. lo ritengo che la pura percezione non sia affatto un dato dell'esperienza empirica. Ci sono dei sovrapposti e stratificati sedimenti culturali (basti pensare, per citarne uno solo, alla prospettiva) che fanno parte del nostro atteggiamento, ma pensandoli storicamente acquistano tanta trasparenza da non offuscare la realtà primaria dell'atto percettivo. E sono proprio essi che ne costituiscono la struttura. Non è un atto solo fisiologico, ma psichico. Da quando Stop, La questione orientale -· .'·, E non sembrava che Làci fosse - osservo io - Laconsapevolezza che il quesito più recente era stato posto da alcuni epistemologi, Kuhn e Feyerabend, e anzitutto da Popper (mi è avvenuto già in «Alfabeto» di darne riferimento criti- • co): come conseguenza della messa in crisi della nozione di «certezza» nella ricerca scientifica, dopo che è caduta la verifica sperimentale. E dunque si arrivava a dire che La storia della scienza in se stessa non è un'approssimazione alla verità, né per ·accumulo né per altra via di approfondimento, ma, proprlo come nell'arte, è una storia di stili. Vi è oggi una pausa, mi pare, su questa posizione scettica pur se rigorosa. Nel tuo discorso, diversamente, vale un'attenzione straordinaria ali'arte che, cercando di stabilire Lastruttura e il valore della percezione autentica, opera, tu dici, «con metodi scientifici ma all'interno di una cultura storica» (e in tal senso ti riferisci anche al design). Il nesso che tu poni fra scienza e arte è molto importante, in quanto arrivi a dire dell'arte., «è sempre stata relazione progettata, controllata e finalizzata, tra: percepito, e dato a percepire.» E aggiungi: «Era così quando era intrinsecamente religiosa e dava direttive di comportamento ai devoti; perché non dovrebbe essere oggi intrinsecamente scientifica e dar direttive di comportamento scientifico, o almeno razionale, a una società che vede nella scienza L'assedella propria cultura?» Scrivevi così negli anni scorsi, e io cito dal saggio breve apparso in «Domus», dal quale mi hai proposto di ripartire. E ho riassunto, in più tratti, il tuo pensiero non per riaprire i quesiti di statuto epistemologico di arte è di scienza, ma per chiederti ora, ne~'orientamento del nostro lettore, una tua valutazione analitica della situazione dell'arte nel- /' attuale società di massa, come più recentemente appare. Argàn. lo credo che sia importante oggi modificare il concetto di scienza, generalmente intesa come un'attività «modello»; mentre oggi il fatto stesso che la scienza è così legata con la tecnologia ripete, a una dimensione molto più vasta, la fase del manierismo: che è la fase dell'intellettualizzare la tecnica (in contrasto col binomio di teoria e pratica, quale è nel laicismo rinascimentale di Leonardo e nella modernità particolarmente novecentesca). E per l'arte stessa il punto è: quale concezione della storia riescano oggi i giovani a legare con un nuovo concetto di scienza. Siccome l'arte è la sola attività di cui si faccia la critica in presenza del fenomeno, è possibile che si elabori proprio attraverso Lastoria dell'arte un pensiero storiografico capace di captare il senso dei fenomeni attualmente imposti a un consumo immediato e irriflessivo. La massa delle immagini emesse a getto continuo (dagli oggetti passando alla produzione e gestione di circuiti dell'informazione pér mezzo d'immagini) è tale ormai da ridurre l'immaginazione degli utenti a un ruolo passivo. C'è un blocco dell'immaginazione, e quindi di ogni intenzionalità progettuale e costruttiva. E il problema, come ho già detto altre volte, è: la società in via di formazione avrà ancora un proprio sistema di valori? Ne farà parte il valore estetico, quali che siano per essere le tecniche capaci di produrlo? Se la società futura sarà interessata soltanto al consumo, ammetterà ancora il concetto e il giudizio di valore, quando è chiaro che il valore e il giudizio sono una remora al consumo massiccio, indiscriminato, distruttivo? ,_ ,,t· A riflettere sui grandi avvenimenti del nostro , V/ secolo, per esempio l'uccisione di Kennedy, ci ;./ _À, accorgiamo che non sono stati storicizzati. E non • si è giudici dove si è stati testimoni. Noi siamo nella condizione del protagonista della Chartreuse stendhaliana che vede Waterloo e non capisce niente. Chi partecipa è coinvolto e non vede l'insieme. Si può raggiungere oggi una capacità di giudizio dei fatti flagranti che ci depassano? Certo sta innescandosi un processo in cui la percezione, data come pensiero, finisce di esercitare una gran parte del pensiero; la percezione, invece che come pensiero, si dà come premessa o materiale su cui si esercita il pensiero ... Si prepara un mondo che sono ben contento di essere sicuro di non vedere. Leonetti. Anch'io ... Vorrei dare qui infine, altre tue definizioni e battute, che condivido con entusiasmo, riferite sia ali'arte che ali'ambiente. Anzitutto tu dici: «Quella che Schiller chiamava educazione estetica come educazione alla libertà è oggi educazione alla percezione cosciente». E aggiungi con precisione: « È logico che il potere, responsabile della degradazione de~'ambiente, non desideri tale educazione ... E questo può spiegare lo stato indecente delle scuole del/'arte e il pervicace rifiuto di riformarle». Infine diciamo insieme: «Ma tutto questo discorso nasconde un'intenzione politica? Certo, certo... »
I pagina 6 I I dibattito sui fondamenti del politico, avviato quasi due anni fa da Paolo Flores d'Arcais su «MicroMega», e ripreso di recente su «Alfabeta» (con interventi di Formenti, De Giovanni, Esposito), ha avuto l'indubbio merito di smuovere la palude di luoghi comuni in cui la sinistra teorica italiana si era adagiata da molto tempo. Ma ha anche rivelato che la tradizione teorica della sinistra era ed è assolutamente evanescente. Tranne poche eccezioni, chi è intervenuto nel dibattito ha aperto prospettive teoriche, o semplicemente proposto riletture, relative ad autori (da Hannah Arendt a Schmitt, da Jiinger a Heidegger o a Bateson) del tutto estranei alla cultura di sinistra tradizionale. Mi sembra che, in questo senso, abbia ragione Cacciari quando sottolinea che l'espressione «Crisi della sinistra» è una diagnosi pietosa. Se la sinistra è l'espressione compiuta del moderno, nei suoi aspetti progettuali o utopici ormai realizzati (ieri, «soviet più elettrificazione», oggi «democrazia più informatizzazione»), allora non è in crisi, ma è semplicemente defunta, avendo da tempo esaurito i suoi compiti. Ma sarebbe ingenuo, oltre che ingeneroso, limitare questa diagnosi di inconsistenza o di inesistenza alla sola sinistra. I partiti cattolici, e ciò che resta di quelli laici, condividono ormai la stessa tradizione culturale della sinistra, e cioè qualcosa che assomiglia vagamente al vuoto, la stessa litania di etichette e riferimenti sbiaditi («libertà», «democrazia», «giustizia», «solidarietà sociale», ecc.). Quando ecologisti e movimenti cristiani integralisti (stando ad alcuni sociologi, le novità politiche attuali) si trovano uniti nell'esaltare i nuovi carismi televisivi, non siamo di fronte soltanto a un fenomeno bizzarro, ma a sintomi di una trasformazione che attraversa tutti gli schieramenti, rendendoli puramente ritualistici. Sintomi, d'altronde, che gli osservatori empirici ci hanno mostrato fino alla nausea: interscambiabilità di programmi, parole d'ordine e perfino personale politico, per quanto riguarda i partiti; passaggio ormai inconfutabile dalla politica agita alla politica rappresentata, inscenata, per quanto riguarda le istituzioni vecchie o quelle nuove (come i media). Sarebbe, una volta di più, inutile lamentarsi di questa post-modernità (così come è sinistro farne l'apologia). È forse più opportuno riflettere brevemente su alcune trasformazioni semantiche di lungo periodo soggiacenti sia alla ben nota fine dell'opposizione canonica destra/sinistra, sia al consumarsi della tradizione politica in Occidente. Una prima questione su cui conviene soffermarsi è quella del «tradimento del disincanto» (Flores), che non a caso ha dato avvio all'intero dibattito. Anch'io non ritengo (in ciò d'accordo con Esposito) che il disincanto moderno sia stato tradito in termini di progressiva spoliticizzazione (o neutralizzazione, come avrebbe detto A più voci Temi. Il politico oggi Schmitt). Qui bisogna distinguere, in primo luogo, tra politica nel senso etimologico (politeia) e politica nel senso moderno - effettuale (tutto spostato sul politico, come termine neutro: cosa, macchina, apparato). Se si ha in mente la politeia di Pericle (che Hannah Arendt ha rievocato, in termini filosofici, in Vita activa), si dovrebbe ricordare che quel modello è già sconfitto quando si inizia la tradizione metafisico-politica occidentale. Se non vogliamo parlare di Platone, ricorderemo che il tipo di polis in cui Aristotele identifica la costituzione più opportuna è temperato (anzi, vincolato) da un sistema di disuguglianze sociali e politiche (ad esempio la distinzione fondamentale tra proprietari della terra, dotati di diritti politici, e agricoltori, che ne sono privi), e retto da un principio superiore, la virtù, che ne fanno qualcosa di unico e irripetibile. Quando Hannah Arendt ha ripreso il modello filosofico della politeia, ha individuato soprattutto, in senso controfattuale, l'inevitabile spoliticizzazione dell'Occidente - e cioè il fatto che le accezioni moderne di politica, come gestione sociale e funzionamento dell'apparato-Stato (policy e politics) contengono una radice negata, un etimo neutralizzato. Evidentemente, nessuno può illudersi che quell'etimo possa rinascere nella sua accezione originaria. Nel caso della politica il tradimento della politeia è fondativo, e quindi non più un tradimento (dato il tono negativo, un po' risentito, che questo termine comporta). In breve, siamo di fronte a un accaduto che impone ancora oggi le sue coordinate alla nostra prassi. In ciò allieva di Heidegger, Hannah Arendt sapeva bene che il richiamo all'incanto della polis vale come indice di una differenza, analogamente alla riflessione sull'Essere del secondo Heidegger, ma non può valere come riproposizione nostalgica. Se invece, in termini filosofico-politici più concreti, ci si riferisce al tradimento del disincanto attuato nella modernità, allora il disincanto non può apparire che come il moderno tout-court ( e anche qui se il tradimento è costitutivo, non è più un tradimento). Il moderno si fonda come costituzione anti-politica, nel senso che nega la possibilità dell'azione diretta, priva di delega. Il moderno, in quanto si costruisce a partire dal conflitto distruttivo delle guerre di religione (Hobbes), opera come dislocazione della politica in favore del politico come cosa, apparato, macchina. Il cristallo in cui Hobbes rappresenta il Leviatano è chiuso verso il basso, è duramente separato dai soggetti. Ora, è questa la nozione di politico che si afferma nella modernità, riassumendo al suo interno ogni possibilità di azione e di prassi politica. A questa nozione fondativa appartiene in realtà anche il discorso rivoluzionario, dal giacobinismo a Marx. L'idea di una società civile che sopprime lo Stato non fa che riprodurre, fino alle estreme conseguenze, la separazione originaria tra soggetti spoliticizzati (per così dire) e Stato-macchina. È ormai riconosciuto che l'ossessione per lo Stato Situazione europea «Le Charivari», 18 agosto 1868 Alfabeto 1051 caratterizza gli esiti politici del marxismo (Lenin insegna). Il fatto è che il compimento della forma-Stato, a cui la sinistra ha dato il suo contributo essenziale, si è realizzato secondo modalità che hanno fatto del pensiero giacobino e marxista qualcosa di irrimediabilmente obsoleto. ' E necessaria qui una precisazione. Se l'impossibilità della politeia nel moderno non può dar luogo a nostalgie originarie, lo stesso dovrebbe valere per quel pensiero iper-politicizzato che è legato al nome di Schmitt. La disperazione per la neutralizzazione intrinseca al moderno ha portato, come è noto, Schmitt a reiterati : tentativi di vedere nello Stato la possibilità di un'opposizio- • ne o un freno a quel fatale indebolimento del principio di autorità che è la secolarizzazione. Indipendentemente dalla scansione di questi tentativi (dalla Chiesa cattolica come espressione di una forma capace di unificare là dove il moderno differenzia e divide, nel saggio giovanile su Cattolicesimo romano e forma politica, fino ai più tardi saggi su Hobbes, in cui è ripresa la funzione trascendente dello Stato), si deve sottolineare come la pretesa di recuperare positivamente nel politico una dimensione «politica» dell'agire sembri essere superata dagli sviluppi più recenti (dalla metà del nostro secolo in poi) del rapporto tra forma-Stato e società «spoliticizzata». Per riassumere in una formula questi sviluppi, si può parlare di un complesso sistema di strategie (in senso foucaultiano) con cui lo Stato cerca di colmare la sua separazione originaria dai soggetti. Il fatto che la «politica» sia completamente riassunta nel politico significa oggi che i soggetti, i cittadini, si trovano nella situazione paradossale di essere tanto più integrati nello Stato allargato nel politico quanto più sono espropriati dalla loro politicità. Situazione paradossale;in quanto vero e proprio double-bind che non consente vie d'uscita. I patetici slogan neo-liberali sulla limitazione dello Stato non fanno altro che esaltare una presa in cui la commistione con il politico si attua sul terreno dominante dell'economia, dell'informazione, della gestione dei media. Questa, a mio avviso, è la forma estrema della secolarizzazione: se il moderno è trasferimento di concetti teologici in concetti politici, l'attuale post-modernità si configura come iniezione del politico nelle forme plurali del sociale (e viceversa). È questa seconda secolarizzazione che ha reso a mio avviso obsoleti sia gli slogan di «sinistra» (la società contro lo Stato) sia gli slogan iper-politici (la decisione contro la neutralizzazione, il politico contro.,il sociale). Un modo di definire questo esito della secolarizzazione è senza dubbio quello di politeismo - un politeismo, si noti, che dovrebbe essere definito come lo definiva Weber nel 1920, come un rinascere spettrale di antichi dèi. Questi, per Weber, non erano affatto incantati ma defi7i-1 vano quella plurahtà (di culture, di spezzoni
Alfabeta 105 di visioni del mondo, di meri interessi) che emergeva dalla crisi del moderno. Se togliamo dall'analisi di Weber i toni disperati del grande sconfitto, non possiamo che riconoscere nel suo politeismo il nostro disincanto. Non si tratta di una parola d'ordine, né tantomeno di una via d'uscita, ma di una definizione, più utile di altre, della nostra condizione. Ora, se questo tipo di disincanto politeistico è l'esito del politico moderno (che non lascia posto né al primato dello Stato né al primato dell'economico-sociale, né al primato del teologico né a quello delle rappresentanze, ma alla loro coesistenza de-legittimata), il problema della politica assume un tono necessariamente nuovo. Esposito, nel suo intervento nel numero 103 di «Alfabeta», si riferiva alla categoria di im-politico come a un modo di approfondire, in negativo, la crisi della politica, e parlava di una tradizione nascosta in cui al massimo di capacità analitica (saper vedere, senza illusioni, gli sviluppi del politico moderno) si accomA più voci pagna la massima distanza dall'effettualità del politico. Una capacità di cui avrebbero dato prova in primo luogo Simone Weil, Hannah Arendt, Ernst Jiinger (e perché no, Heidegger). Alla presa senza alternative, e senza trascendenza, del politico iper-moderno, all'impensabilità definitiva della politica, si contrapporrebbe una im-politicità consapevole e radicale. Un altro modo di definire questa posizione, e la tradizione che sembra sottenderla, è a mio avviso quello di etica gnostica. Se del concetto di gnosi non riteniamo soltanto gli elementi più appariscenti o suggestivi (come oggi spesso avviene), ma il dualismo radicale e senza mediazione - ciò che ha influenzato profondamente poeti c_emeBlake Coleridge e, nel nostro tempo, Simone Weil e Bateson - possiamo trovare che è possibile agire nell'ambito inevitabile del politico, senza cedere alle sue lusinghe. Un ordine trascendente, che ci sollevi dal fardello della caduta storica, non è oggi pensabile se non come alibi per qualcosa di infinitamente Temi. Il politico oggi pagina 71 peggiore della modernità sviluppata (gli «errori» di Heidegger e Schmitt ce lo ricordano ancora). Una distanza radicale dal politico, senza l'illusione di torcerne in senso monoteistico o teologico gli esiti, senza rifiutarne l'effettualità (così come non rifiutiamo l'effettualità della nostra vita materiale), ma soprattutto senza fuggire nell'escatologia o nel caldo abbraccio delle chiese: questo definisco qui come etica gnostica. E dovendo citare due esempi ancora vivi di questa etica, non posso che riferirmi a Simone Weil, quando opponeva fino all'ultimo, a chi la voleva convertire, le ragioni delle vittime del monoteismo politico (dai catari agli indios pagani), e soprattutto a Max Weber, che fino agli ultimi giorni della sua vita ha accompagnato la massima consapevolezza del politico (della sua degradazione) alla sua pratica responsabile. Se c'è una tradizione nascosta dell'impolitico, non si tratta della fuga, ma della presenza come distanza appassionata. Destra/si11istra A Ila base del dibattito in corso sui diversi nodi teorici del pensiero politico della sinistra, vi è un paradosso che va, preliminarmente, riconosciuto nei suoi caratteri essenziali, prima di addentrarsi in qualsiasi tipo di analisi. Da un lato, studi di taglio socio-antropologico e ricerche storico-politologiche hanno se non altro fortemente ridimensionato - e in qualche caso perentoriamente dissolto - la possibilità stessa di utilizzare il binomio destra/sinistra come adeguate categorie di descrizione o di valutazione dell'universo politico; dall'altro lato, questa dicotomia, o altre che di essa possono essere considerate sinonimi o translitterazioni, continua ad essere impiegata largamente e indifferentemente, tanto nel linguaggio comune, quanto nelle trattazioni più specializzate, come espressione di un 'antitesi intuitiva, di una sorta di assunzione preanalitica autoevidente. Alla persistenza della coppia destra/sinistra nel lessico politico, nonostante l'ormai assodata inconsistenza concettuale, corrisponde, inoltre, una sostanziale invarianza dei comportamenti a livello empirico, nel senso che non è dato osservare né continui rovesciamenti di schieramento né una specifica mobilità latitudinale degli attori politici, come sarebbe invece lecito attendersi se la crisi della rappresentazione assiale della politica trovasse riscontri diretti e lineari negli orientamenti pratici dei diversi protagonisti. È nota la spiegazione fornita da alcuni studiosi per il paradosso ora enunciato: a fondamento della polarità destra/sinistra vi sarebbe non già la casuale disposizione verificatasi nell' Assemblea costituente, durante la Rivoluzione francese, bensì una simbologia che affonda le sue origini nelle radici della nostra cultura e nelle immagini stereotipiche connesse alle rappresentazioni primarie. In alternativa a tale interpretazione, che ha fra gli altri il difetto di non poter trovare conferma in alcuna indagine empirica, vorrei suggerire un'ipotesi che non pretende di essere particolarmente originale, ma che è idonea se non altro ad inquadrare più nitidamente i termini stessi del paradosso di cui si discute. Cercherò, in altre parole, di indicare per quali motivi non già il «concetto», ma la «realtà» stessa della sinistra si sia venuta sempre più indebolendo nell'arco dell'ultimo decennio, al punto tale da riflettersi anche in una «crisi» terminologica; al tempo stesso, e per converso, tenterò di dimostrare che tale estenuazione, coincidente con - e dipendente da - quello che opportunamente è stato definito il suo «compimento», in linea di tendenza non comporti affatto un dissolvimento, ma solo una trasformazione, della sinistra, e delle sue «ragioni». L'origine del declino della sinistra può, anzitutto, essere individuata nel venir meno di quello stesso fattore che ne aveva, invece, propiziato l'ascesa circa un secolo fa, vale a dire il rapporto prima, e l'identificazione poi, col Movimento operaio. Per molti decenni, e fino alla prima metà degli anni settanta, questi due termini potevano essere considerati interscambiabili, nel senso che l'iniziativa e la teoria del Movimento operaio erano, per così dire, sempre e «naturalmente» «di sinistra», tanto quanto appartenere alla sinistra comportava una sostanziale identificazione con le lotte e le strategie delle organizzazioni dei lavoratori. Da entrambi i lati ·questa connessione si è poco alla volta allentata, sia perché le trasformazioni conseguenti alla fuoriuscita dall'universo industrialista hanno ridimensionato il ruolo e la vocazione progressista del Movimento operaio, sia perché l'«essere di sinistra» ha cominciato a predicarsi in molti modi, e comunque non più mediante il semplice sigillo del «pensiero operaio». Questo fenomeno - qui riassunto, ovviamente, in forma puramente enunciativa - marcia storicamente, e concettualmente, di pari passo con una seconda «grande trasformazione», intervenuta nelle articolazioni concrete assunte dallo Umberto Curi scontro politico, all'interno dei singoli stati e delle relazioni fra essi. Dopo un secolo scandito da due guerre mondiali, da una miriade di conflitti regionali, da guerre civili verificatesi nella maggior parte dei paesi europei, da rivoluzioni politiche di ragguardevoli dimensioni, da alcuni anni, almeno nel vecchio continente, sembra essersi ormai consolidata una stagione di prevalente stabil,izzazione, il cui connotato saliente è costituito dall'esclusione della forza nello svolgimento della lotta politica. Si assiste, in altre parole, alla rottura del legame storico fra guerra e trasformazione, fra il dispiegamento - di principio illimitato - della conflittualità interna o interstatuale, e processi di innovazio11e del «compimento bellico», come telos capace di conferire senso ed incisività all'espressione degli antagonismi. In questa situazione - agevolmente verificabile analizzando la parabola descritta dalle lotte sociali dopo la svolta del '68 - si pone allora il problema di stabilire se, e con quali mezzi, sia possibile modificare diritti, egemonie, rapporti di potere, vale a dire produrre realmente cambiamenti di forma, e non solo «aggiustamenti» graduali, nella struttura del sistema politico, da un lato senza innescare una competizione di violenze contrapposte - esclusa «di principio» dal sopravvento della delegittimazione della guerra come forma di trasformazione -, e dall'altro senza cadere nella riduzione del conflitto a gioco, la cui «logica» implica l'eliminazione della base stessa del conflitto. È, insomma, ancora possibile una politica di trasformazione, vale a dire una politica «di sinistra», quando la guerra, come senso «forte» della politica, non è più ammessa? In quali modi si possono perseguire obiettivi di mutamenti reali, nelle stesse strutture di legittimità e di potere, senza soggiacere all'irrompere incontrollato della forza, ma anche senza subire la trasformazione caricaturale della politica in gioco? A ncora più decisivo, perché relativo non solo all'identità della sinistra, o ai modi di conduzione della lotta politica, ma alla stessa natura della politica, nelle sue relazioni con altre sfere di attività, è il terzo fattore, a cui è possibile riferire il tendenziale declino della sinistra. Un esame anche cursorio delle dinamiche di mutamento affermatesi nel corso degli ultimi anni in campo economico e sociale, mostra che esse non hanno infatti soltanto mutato i rapporti di forza interni al sistema politico, in direzione di una sempre più netta marginalità delle organizzazioni tradizionali della sinistra, ma hanno soprattutto favorito una modificazione strutturale e funzionale delle relazioni intercorrenti fra politica ed economia e politica e società, dissolvendo ogni presunta capacità totalizzante della politica, sempre più ridotta ad un ruolo tecnicamente circoscritto. Non è necessario accedere alle semplificazioni di certe rappresentazioni sociologiche, né condividere la tesi di quanti scorgono il delinearsi di un universo finalmente liberato dalla competizione e dal conflitto, per riconoscere la sostanziale attendibilità di un'immagine della società come _sistema complesso, articolato e frammentato, disciplinato da meccanismi di autoregolamentazione, mosso da agenti immanenti alla sua costituzione interna, e comunque sempre meno riconducibile a logiche e regole esogene, in qualsiasi modo definite. Anche in questo caso, il consolidarsi della tendenza alla emancipazione del sociale dal politico - ovvero, più esattamente, ad una diffusione molecolare delle lotte per il potere, conseguente ad una perdita del monopolio del potere da parte del livello politico formale - contribuisce oggettivamente a limitare il ruolo delle forze di sinistra, culturalmente e vocazionalmente legate ad un'accezione della politica come governo in senso forte dei processi di crescita economica e di mutamento sociale, la cui massima prosperità, appunto, è stata storicamente legata ai periodi di «primato», o comunque di massima «fortuna», della politica. Può convivere la sinistra con una moltiplicazione virtualmente illimitata dei centri decisionali, con la sparizione di ogni Gestalt capace di informare le diverse sfere della vita sociale, riconducendole ad un'unica sede del potere? Può essa sopravvivere, in presenza di una tendenziale scissione fra potere e politica? Ma la stessa proposizione degli interrogativi ora formulati, e più in generale il riconoscimento dei molteplici fattori di oggettivo indebolimento della sinistra, non potrebbero dirsi correttamente posti, ove non si completasse l'abbozzo di ragionamento qui suggerito con un'ulteriore - e fondamentale - precisazione. Il tendenziale superamento dell'universo industrialista, e del suo radicarsi sul presupposto del lavoro manuale come principale creatore della ricchezza sociale; la rottura della presunta regolarità naturalistica del ciclo politica-guerra; la progressiva liberazione dalla «necessità» della politica, non rappresentano soltanto, e ancor meno soprattutto, la causa del deperimento della sinistra. Questi fenomeni incarnano, al contrario, il compimento della funzione storica della sinistra, ne esprimono la capacità di imporre e generalizzare il proprio come linguaggio «universale», le proprie finalità come obiettivi universalmente condivisi e perseguiti. L'emancipazione dalla «schiavitù» del lavoro, mediante la piena valorizzazione delle risorse del «cervello sociale»; il consolidamento della democrazia come spazio regolato dei conflitti; la moltiplicazione dei luoghi, dei soggetti e delle forme attraverso i quali si decide la questione del potere, non possono, evidentemente, essere considerati se non come mete raggiunte, risultati acquisiti, come effetti, dunque, di una egemonia compiuta, pur se spesso non vista o inadeguatamente interpretata. Il paradosso, di fronte al quale sembra allora trovarsi attualmente la sinistra, consiste insomma nella coincidenza fra il proprio sostanziale «successo» storico e il suo apparentemente, e consequenzialmente, inevitabile «declino», fra il suo «compimento» e il suo «scacco», fra la sua «storia» e il suo «destino». La necessaria presa d'atto di questa contraddizione, tutt'altro che meramente «pensata», non implica, d'altra parte, alcun inerte sostare sul limite, né include alcuno stratagemma «mistico». Al contrario, è possibile convertire il riconoscimento dell'esaurimento di una funzione storica, in una prospettiva capace di conferire significato ad una sinistra che abbia percorso pressocché interamente la propria parabola evolutiva, senza rassegnarsi ad assecondarne l'involuzione. Se la politica come platonica «arte regia», come linguaggio universale, al quale ricondurre la molteplicità degli idiomi «specialistici», può apparire avviata al tramonto, non altrettanto si può dire per ciò che della politica risulta essere la matrice originaria che la costituisce come destino, e non meramente come tecnica, vale a dire il risorgente, e sempre nuovo, confliggere degli interessi fra individui, gruppi sociali, ceti, paesi. Il fatto che nella perenne lotta per il potere si sia forse conclusa una fase storica, fortemente segnata dall'influenza e dalla capacità di trasformazione di una forza co'me il movimento operaio, non comporta necessariamente né la dissoluzione degli antagonismi - o la loro «pacifica» composizione contrattualistica - né, tanto meno, il venir meno delle «ragioni della sinistra». Proprio in un periodo come quello attuale, si profila anzi la necessità di non ridurre la politica a mero esercizio dell'ainministrazione, o a godimento di una rendita di posizione, ma, all'opposto, di riscoprire la persistente validità della sua accezione originaria: quando il «fine» a cui tendere appare offuscato, può essere opportuno ripartire dall'origine.
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