Alfabeta - anno X - n. 104 - gennaio 1988

Alfa beta 104 F orse non è troppo giusto che l'autore di un saggio su Kafka passato quasi inosservato prenda la parola a proposito dell'opera dedicata allo scrittore praghese da Pietro Citati, opera posta, come ognuno può vedere, nel pieno delle luci di una ribalta pubblicitaria e promozionale (Kafka, Milano, Rizzoli, 1987). La mia imparzialità di critico potrebbe essere contestata per «legittima suspicione», tanto più che il mio sfortunato Comicità di Kafka non è neppure menzionato, nella breve postilla in cui Citati liquida frettolosamente, come è nel suo stile, i pochi contributi bibliografici a lui precedenti. E non vi trovo menzionata neanche un'opera capitale come la lettura dell'autore del Castello dovuta a Deleuze e Guattari. Non sarebbe bello però insistere oltre misura su simili infortuni personali, né far pesare in eccesso i torti patiti sulla propria pelle. O meglio, se si dovesse constatare di aver perso con ciò la necessaria serenità mentale sarebbe più opportuno tacere, lasciar perdere. Ma mi spinge a prendere la parola ugualmente il sospetto che in realtà, a patire gravi torti, sia la stessa concezione che, attraverso questi decenni postbellici, ci siamo fatti della critica letteraria, e di cui il mio intervento di qualche anno fa è stato appena un modesto campione, così come invece quello di Deleuze-Guattari ne può essere considerato espressione piena e convincente. Se non sbaglio, un'idea direttiva della critica che si è tentato di imbastire in questo lungo periodo era che non ci si potesse limitare ad accarezzare l'opera (romanzo, racconto, raccolta di poesie), né farle il verso. Si partiva insomma dalla concezione di una eterogeneità di fondo, tra l'opera e l'intervento critico: la prima, autorizzata a raggiungere una sua splendida organicità, di frutto che può nascondere l'origine artificiale, i legami col contesto culturale, di cui pure è intessuta; ma compito della critica veniva considerato invece quello di far emergere questa trama di radici (magari chiamandola anche rizoma). O in altre parole si tr~ttava di «smontare» il poema (prendiamo il termine nel suo significato più ampio), magari anche di «decostruirlo», come qualcuno preferirebbe dire oggi: di affondare il bisturi nel suo corpo pur pieno e rotondo, o anche solo di sollevarne l'epidermide, di mettere in luce i muscoli, separandoli dall'ossatura, stabilendo quanto, nell'opera totale, spettasse a ciascuna di queste componenti, e soprattutto secondo quale strategia e combinazione riuscissero a coesistere, ad assicurare un equilibrio dinamico. Ecco allora la panoplia dei numerosi strumenti d'approccio, scarnificatori, vivisezionanti, molto duri, se si vuole, ma indispensabile per capire, per fare luce: fenomenologia, strutturalismo, psicoanalisi, antropoanalisi, narratologia ... Il tutto, certo, accompagnato dalla consapevolezza, appunto, di una eterogeneità di fondo, tra questi approcci e l'interezza organica del «poema», il quale dunque era autorizzato a mantenere un suo grado di imprendibilità, ovvero di ambiguità, ma senza che ciò consentisse ai critici di crogiolarsi a loro volta tra il dire e il non dire, nel culto del non so che; spettava a loro l'obbligo di «disambiguare», tanto per usare un'altra delle parole tecniche di fronte a cui non si credeva possibile recedere, in sede critica. E si acA più voci Taccuini suKa_ a Renato Barilli compagnavano altri postulati sulla scia di questa prima convinzione: che il rapporto tra l'autore e l'opera non fosse naturale, lineare, ma che intervenissero sempre dei coefficienti di trasformazione, delle chiavi di volta, per cui l'«io» narrante e qualunque altro personaggio erano sempre da considerare fondamentalmente diversi dallo scrittore, frutti, certo, del suo vissuto, ma attraverso mediazioni complesse e zigzaganti. Per la stessa ragione non sembrava lecito mettere sullo stesso piano le opere calcolate a tavolino dall'autore, da lui volute e costruite, con ogni altro documento scaturito dalla sua esistenza. L'analisi del testo e delle sue strutture doveva «premiare» sui materiali biografici, lettere, diari, , testimonianze di amici, intuizioni conseguite magari contemplando fotografje o altri reperti appartenenti alla sfera della privacy dello scrittore in quanto uomo comune. Inutile dire che Citati sovverte tutti questi canoni: egli è specializzato nell'accarezzare le opere cui va il suo commento, anzi, la sua lunga, interminabile parafrasi, mossa dall'intento di appianare il solco tra l'intervento creativo dell'autore e il suo stesso, in sede critica, come se l'uno continuasse l'altro, magari con una specie di gara concorrenziale, come se la parafrasi critica si proponesse di funzionare da altoparlante, da .. amplificatore, da potente ripetitore: Gli accorgimenti retorici di cui Citati fa uso e abuso sono conseguenti a un tale obiettivo di dilatazione testuale: si tratta di una continua «variazione sul motivo» e di un ricorso sistematico all'elenco, con l'inevitabile enfasi che lo accompagna. I motivi, gli spunti di trama, le invenzioni locali che tanto amiamo nell'universo kafkiano, i tic dei personaggi, vengono appunto ripetuti, variati, resi ridondanti ed esornativi: fino a contraddire quel carattere di espressione asciutta, parca, funzionale che opportunamente Citati riconosce al suo scrittore. Se Kafka è riduttivo, «povero», castigato, il «trattamento» cui viene sottoposto ne fa un prodotto lussureggiante, straripante: esate L_[______ ...,)l: • • :I •• • e tamente come capita agli arrangiamenti musicali, ai motivi messi in maschera, dove il musicista aggiunto si compiace di «lavorare» l'idea originale, di renderla' più opulenta. E beninteso, al seguito di questo primo e fondamentale, vengono violati tutti i canoni aggiunti: nell'onda del commento di Citati saltano i tratti differenziali fra Kafka stesso e i Karl e Josef K. e K. che egli distribuisce lungo il suo percorso narrativo: tutti oggi ammettono che sono altrettante trappole, ovvero proiezioni infedeli e menzognere, perfette dimostrazioni della «faipagina 9 lacia biografica». Tra loro e lo scrittore vengono frapposti geniali moduli di trasformazione, per cui dagli uni non si può risalire al primo, così come è ingenuo pretendere di arrivare da questo, e dal suo «vissuto», a quelli per mera estensione lineare. Invece nella lettura di Citati una tale differenza fondamentale è ignorata, Kafka e K. si confondono, i piani di analisi slittano di continuo, non sappiamo se il critico stia interpretando una creatura letteraria, o se invece ci inviti a un atto di pietà, di tenerezza, di compassione verso un'esistenza individuale. La riprova evidente di questa pericolosa confusione sta nel fatto che Citati ripartisce equamente il suo interesse sulle opere, sui testi (e quindi, in primo luogo, sui tre romanzi) così come sugli epistolari e su ogni altro materiale biografico. Anzi, a contare le pagine, forse risulterebbe che quelle dedicate a «sceneggiare», per esempio, i tentativi infelici di fidanzamento, o le condizioni di vita, di igiene alimentare dell'uomo Kafka, sono più numerose delle altre rivolte a «leggere» i testi veri e propri. Tra questi ultimi, poi, non è impostato mai un tentativo di coglierne differenze reciproche, scarti, spostamenti di accen- . ti in una strategia globale della creazione. Non derivano forse tutti dallo stesso uomo Kafka , e non è lui il vero oggetto della prosa del nostro critico, il punto di mira di un reticolo inesausto di aggettivi trepidanti, fondati sull'estensione dell'elenco? Sullo sfondo, sta senza dubbio una certa frequentazione delle chiavi di lettura oggi più diffuse: Citati, cioè, ha pure un po' di conoscenza dei sistemi, delle ossature cui, oggi, si usa agganciare l'universo kafkiano: sa bene, per esempio, che il ricorso all'inconscio è in netto aumento di favore, così come si sta impiegando sempre più la categoria del comico, o accentuando la pregnanza di figure come quelle dello Straniero e dello Scapolo (non c'è però alcun accenno alle «macchine celibi»). Ma, per carità, non si pretenda da lui di fare scelte esplicite, di motivarle: un tale compito è da lasciare ai critici pedanti che si <\ffannano nella loro insulsa pretesa di comprendere. Lui, è autorizzato a prolungare il gioco della creazione, e dunque ad avvolgersi nelle stesse ambiguità che la teoria estetica più avveduta ormai concede senza riserve all'arte e alla poesia. Egli ha fatto il salto di categoria, si considera equiparato a quella dei poeti tout court. Ma allora, come spiegare il successo di questa come di ogni altra sua lettura precedente? È pur vero che quotidiani, case editrici italiane e straniere se ne contendono i prodotti, li lanciano con un impegno sconosciuto ad ogni altra opera saggistica. Forse è la rivincita della «maggioranza silenziosa», di quel letterato che dorme allo stato latente nell'intimo di migliaia di laureati, professionisti, notabili, e che ha sempre intrattenuto un'idea della poesia come oggetto consolatorio, blandente, avvolgente, accompagnato da un incanto verbale, da una musica di variazioni: tanta carne, anzi, tanta adipe, e niente ossa, e se anche queste ci sono, per carità, che se ne restino nascoste: metterle in luce, è impoetico, indisponente, urtante. L'operazione mollezza e rotondità deve svolgersi senza subire battute d'arresto.

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