Alfabeta - anno X - n. 104 - gennaio 1988

A più voci Alfabeta 1041 individuare e ad applicare e modificare le regole formative dell'arte» (E. Garroni, Creatività, Enciclopedia Einaudi). Il nuovo dovrebbe transitare, innanzitutto, all'interno di un nuovo orizzonte produttivo e interpretativo dove, e non è solo nominalismo, il termine costruzione sostituisca la parola creazione: è una pregiudiziale programmatica, perché solo così è possibile controllare, nel senso di una comprensione aperta e non chiusa ad altri contributi disciplinari, il linguaggio e, in particolar modo, l'oggetto da sottoporre al giudizio. Da questo punto di vista, il sapere filologico, e non quello citazionistico, dovrebbe rappresentare il nucleo intorno al quale ricostruire il significato della parola arte e dell'attività critica. Non è questa, un'esortazione all'ordine delle cose: nasce da un'esigenza di chiarezza contrattualistica tra chi parla e chi ascolta, tra chi fa e chi interpreta. Io credo che il post-moderno sia stato soprattutto il risultato, più che della caduta e della crisi della progettualità, della difficoltà di comprendere le trasformazioni del mondo contemporaneo; da qui l'atteggiamento di un osservatore che si limitava a cogliere il diverso come segno di una contiguità temporale e spaziale, e senza tentare di ricondurre la frammentazione del pensiero e delle cose a una serie di ipotesi e di modelli interpretativi che potessero dare un senso al mondo. Ecco, l'arte di questi ultimi 10 anni ha sofferto sul piano del senso, che è sempre necessario dare ad ozni azione creativa. L'unico significato possibile è stato una sorta di resa all'evidenza fenomenica della cosa; per cui l'opera risultava essere il prodotto di una passiva osservazione della realtà mascherandola, il più delle volte, con una serie di sovrapposizioni letterarie e filosofiche. L'artista deve essere una persona colta che sappia di che cosa si sta parlando o, perlomeno sia in grado di scegliere e non si faccia invece scegliere dall'industria culturale, che è sempre più «intelligente» del singolo artista, perché sa cogliere il particolare all'interno della totalità; mentre la singolarità creativa si presenta come non-omologata per trasformarsi poi in un atteggiamento funzionale all'ordine simbolico preesistente. Solo così, almeno credo, l'arte può ritrovare la sua ragion d'essere al di là della sua rilevanza economica mondana; e solo così, la critica potrebbe ridiventare, da atto creativo essa stessa, momento di divulgazione e di comunicazione in quanto mappa di orientamento nella totalità del sistema delle arti. Il problema della qualità dell'opera d'arte e della consistenza disciplinare della critica d'arte viene in un secondo momento, perché, come scrive Jan Mukafovsky, «il segno artistico a differenza del segno comunicativo non è servile, cioè non è uno strumento. Esso non comunica delle cose ma esprime un determinato atteggiamento verso le cose, un determinato atteggiamento dell'uomo verso tutta la realtà che lo circonda e non solo verso quella che è direttamente rappresentata nell'opera. L'opera però non comunica questo atteggiamento, bensì lo fa nascere direttamente nel fruitore» (Il significato dell'estetica). Si tratta allora di fondare la tradizione del nuovo, oltre che sull'estetica, anche sull'etica, perché il valore artistico è determinato dalI'«atteggiamento verso le cose», e non solo dalle qualità intrinseche della singola opera d'arte o dalla capacità di estrapolare, maieuticamente, dalle stesse, la loro ragion d'essere, il loro statuto qualitativo. Taccuini La Valte.-.-....· eticae • q, ormazione I I Discours de Laméthode di Cartesio è considerato, più per lo stile intellettuale che per la novità dei contenuti, un vero e proprio atto di battesimo della modernità. L'autore vi racconta come, riflettendo sulla propria esperienza prima ancora che sulle conoscenze acquisite, è arrivato alla condusione che il dubbio e l'esame scrupoloso e personale sono i soli criteri direttivi affidabili di una condotta razionale. Il metodo cartesiano è moderno in primo luogo perché non si propone come una grammatica dell'agire intellettuale e etico, ma come la parabola di un individuo che ha deciso di affidarsi alla sua personale responsabilità: «Il mio intento non è di offrire il metodo che ognuno deve seguire per dirigere la sua ragione, ma solo di mostrare in che modo ho cercato di dirigere la mia». Non tutti siamo filosofi o scienziati, ma tutti siamo soggetti etici. L'etica verbalizzata da Cartesio può essere deludente nei suoi contenuti, ma la forza autonoma del modello finisce per disegnare analogicamente, forse al di là delle intenzioni dell'autore, l'idea di etica come la vive e la pratica l'uomo moderno. L'uomo moderno fonda le sue concezioni morali in primo luogo su una personale, irrinunciabile convinzione che si nutre dall'interno della sua esperienza complessiva. Se accetta i principi e gli scopi di una morale esterna, laica o confessionale, le impone di non urtare la sua esperienza diretta e quotidiana dell'agire etico. Le sue convinzioni sono formate o confermate da una proiezione analogica nel campo della «grande etica» dei principi direttivi di un comportamento sperimentato come corretto nella vita vissuta di tutti i giorni: nel lavoro, nei rapporti umani, nelle imprevedibili vicissitudini della vita. Questo carattere proiettivo e analogico delle convinzioni etiche spiega perché l'uomo moderno non accetta lezioni di grande etica, di etica dei principi, da chi tradisce la piccola etica dei comportamenti: da un insegnante che disprezza l'insegnamento, da un medico che non rispetta i clienti, da un padre che trascura i figli o da un giocatore che bara. In tutti questi casi, si spezza il condotto che alimenta i principi, e i principi si svuotano. Tra le sfere in cui si esercita la nostra microetica spontanea, un posto speciale è occupato dal lavoro. E tra le varie figure professionali interessate da questo viavai tra microetica e grande etica, il giornalista occupa certamente, per la sua rilevanza e esemplarità sociale, una posizione strategica. Michele Prandi Il primo dovere di un giornalista, naturalmente, è informare. Questo punto di visto lapalissiano, tuttavia, è sempre più in_adeguato a capire il ruolo in senso lato culturale del giornalista. La dinamica della circolazione delle notizie priva sempre più il giornalista della funzione di informatore diretto, per affidargli un ruolo crescente di inquadramento e di elaborazione culturale e sociale di notizie già note. A questa deriva strutturale si associa la tendenza crescente di un'opinione pubblica indaffarata co, il giornalista di intervento ha in primo luogo il compito di rendere comprensibili, con la sua cultura e le sua sensibilità, i fatti che racconta o, più spesso, scava. In secondo luogo, è impegnato a tradurre in tensione conoscitiva le spinte emotive che aceompagnano gli avvenimenti rilevanti, dai rivolgimenti politici ai traumi economici, alle catastrofi naturali. È sulle catastrofi naturali che vogliamo fermarci più particolarmente. La nostra società assimila facilmente le - n1e Scienza politica e cultura dei popoli minoritari n 13 Galli: CesareBattistei la suaguerra:tramontodi un mito - Fiocchi: "Lumbardp, arlemmlumbard!" - Porro: "VivaTorino Capitale!" - Ceschia/Cozzi: Morzine:deliriosociale e pedagogiamorale - Sartori: Eire:per1500anniunanazione - Nicoli: GliSherpa - Stocchi:Il lungotrekkingdei coloniboeri - Hull: La lingua"padanese" - CatanzaritiI:l Soledi Campanella sorgeancora - Verdegiglio: Unaminoranzian pericolo:Guardia Piemontese - lacovissi: "Friuli, regionemai nata" - Michelucci: Notiziario Larivista è distribuitainabbonamento5:numeriL. 30.000- Europa L.35.000-Paesei xtraeurope(pi .aerea)L. 70.000-Arretrati 1980/8/182/83/84/85/8L6.89.000-VersamenstiulCCP1416220i0ntestato aMiroMerelli,VialeBligny22,20136Milano- Tel.02/8375525 Questonumero L. 6.000-IncontrassegnLo. 12.000-ETNIE èin venditanelleseguentlibrerie:Milano:FeltrinelliV, iaManzon1i 2e Via s·. Tecla5- Roma:FeltrinelliV, iaV.E.Orlando84/86-Bologna: FeltrinelliP, iazzaRavegnan1a- BolzanoA: thesiaL, auben41 ma al contempo esigente a delegare, con un comportamento poco cartesiano, la formazione di un punto di vista accreditato e accreditante nei campi più disparati, dall'economia all'ecologia, al diritto. L'influenza esercitata sul pubblico come opinion maker incoraggia naturalmente il giornalista a proporsi come soggetto privilegiato dell'agire etico nel sociale, una sorta di vigile sentinella che esprime, esalta, o nei casi peggiori supplisce, la coscienza pubblica. Nel vissuto e nel teorizzato di una parte del mondo giornalistico questo stato di cose si configura come una vera e propria missione etica. Sul piano microeticatastrofi artificiali - lo stillicidio di vittime della strada, per esempio, ma in fondo anche gli episodi cronici e acuti di inquinamento - in cui riconosce i figli legittimi anche se sgraditi della sua specifica forma di civilizzazione. Viceversa, è culturalmente refrattaria alle catastrofi naturali, incerta se leggervi l'emblema perverso di uno sviluppo distorto o, forse meno consapevolmente, scenari d'altri tempi, scandalosi nell'era del computer. Per queste ragioni culturali, lo studio della messa in forma giornalistica di una catastrofe naturale, al crocevia tra spinte emotive, tensione conoscitiva e riti di esorcizzazione, rappresenta un'occasione per verificare l'impatto della stampa coi temi della grande etica e della microetica. Possiamo, a questo punto, schizzare il profilo di un tipo ideale di comportamento giornalistico alle prese con una catastrofe naturale. Sul piano della grande etica, si può pensare a un impegno in prima persona per la denuncia delle responsabilità umane e politiche di ordine generale per quel che riguarda le carenze nelle opere e negli interventi di difesa e soccorso, ma anche in senso lato culturali, relative all'impostazione del rapporto tra sviluppo economico e ·caratteristiche ambientali. Sullo specifico terreno professionale, è lecito aspettarsi affermazioni scrupolosamente documentate su fatti, cause, probabili conseguenze, responsabilità: una messa a fuoco disincantata dei fatti che riporti le piene emotive dalla deriva disordinata all'ordine del sapere. L e due sfere in cui si situa il comportamento etico ammettono di dissociarsi: in altri termini, possiamo raffigurarci un tipo di giornalista scrupoloso nei doveri strettamente professionali ma agnostico per quanto riguarda più generali missioni sociali della professione, così come è facile immaginare una mobilitazione generosa su grandi temi di risonanza sociale accompagnata da una certa disinvoltura verso i doveri professionali. Le due eventualità, tuttavia, non si equivalgono. Un professionista serio farà comunque un buon lavoro, che il fruitore responsabile saprà proiettare, se lo ritiene, su uno schermo più largo. Un'informazione che, in nome di una missione sociale nobile o presunta tale, è disposta a forzare o addirittura a ignorare gli specifici doveri di documentazione e di rispetto dei dati è del tutto priva di dignità etica. Scendendo dall'ideale al luttuoso reale, l'estate del 1987 non è stata avara di catastrofi, né la stampa di interventi. In questo contesto, l'alluvione in Valtellina vanta purtroppo un duplice primato: per la scala degli avvenimenti e per la qualità del loro racconto e commento. Di fronte alla messa in forma giornalistica delle vicende della Valtellina, vorrei a questo punto, cartesianamente, invitare i lettori a riflettere sui loro ricordi estivi, offrendo le mie dirette esperienze e personali conclusioni come puro e semplice esempio. L'alluvione della Valtellina ha travolto un intero bacino idrografico, senza distinzione di morfologia, di cultura, di frontiere

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