Alfabeta - anno X - n. 104 - gennaio 1988

pagina 32 E essendo il tema di queste pagine un tentativo di accennare appena alla questione della cosa, non ci si inoltrerà in una critica estetica delle opere o degli autori considerati, né a una critica filosofica dei concetti che potrebbero esporsi. La questione vuole limitarsi semplicemente a un accenno, alla rilevazione di una consonanza senza attardarsi sull'evidenza delle differenze. La cosa pensata sconfina nella cosa esposta e si lega alla cosa detta. Essei:e, storia e linguaggio sono i tre caratteri essenziali all'interrogazione filosofica che Vattimo aveva tentato di esporre in un vecchio libro su Heidegger. O~a, sono propriamente questi tre caratteri a vincolare spesso ogni indagine heideggeriana riguardo alle cose: l'essere della cosa, il fatto che essa sia ed il linguaggio nel quale essa già sempre si trova sono ciò che si dà come il da pensare. Si tratta di un pensare incamminato verso un sottrarsi, dove nel gioco dei rimandi che il pensiero interrogante trova ad ogni passo si spinge audacemente verso un illimitato sconcertante: la difficoltà (impossibilità?) di esaurire definitivamente una «cosa» (un discorso, un'indagine, una scoperta ... ). La distanza che separa le indagini husserliane da quelle heideggeriane trova nel pensiero della «cosa» una conferma; ma anche, al tempo stesso, una nascosta complicità: la cosa apre un problema fondamentale per la filosofia, che si tratti del modo in cui si riflette nella ricchezza di una soggettività fenomenologica, oppure che si tratti di un pensiero dell'essere che abbia bandito da sé ogni filosofia del soggetto. Ciò che permane è il tema problematico, come un terreno di fondo rispetto al quale i concetti principali delle diverse filosofie vengono ad articolarsi (non costituendo quindi il tema principale delle varie filosofie, ma la problematizzazione ricorrente rispetto alla quale esse prendono corpo). Ora, la profondità con la quale Heidegger affronta la questione della «cosa» si riferisce sempre, tacitamente o no, al modo in cui questa era stata affrontata dalla fenomenologia: per questo le cose andranno indagate a partire dall'esperienza quotidiana, come l'analitica trascendentale dell'Esserci in Essere e Tempo, per giungere a poterne considerare la «cosità», ovvero ciò che appartiene ad ogni cosa in quanto tale e che per questo sempre si sottrae. Che lo si voglia o meno, «Zu den Sachen selbest» è un motto che regge la filosofia husserliana e la problematica heideggeriana. Ma è un motto che regge anche una serie di operazioni artistiche svoltesi nel corso di tutto il Novecento. È evidente che il motto non sia mai stato esplicitato da questo f_are artistico in quanto tale (ed è banale osservare come l'arte non abbia mai «fatto» filosofia), ma la sorpresa di ritrovare una consonanza che oltrepassi l'evidenza di un Weltgeist Jir"" potrebbe permettere un'estensione al lavoro stesso della filosofia. Marce! Duchamp, negli anni in cui preparava un'opera che avrebbe infranto l'esclusività plastica e rappresentativa delle arti, il Grande Vetro, elaborava al tempo stesso una concezione dell'opera d'arte correlata direttamente a un'interrogazione sull'oggetto e sulla'cosa. È qui che una consonanza con Heidegger potrebbe cominciare a farsi sentire. 4 L'oggetto non è più rappresentato, né riprodotto su di una superficie o in un materiale propri all'arte: esso si espone in quanto tale. Nel 1913 - data delle prime note sul Grande Saggi Vetro - Duchamp compose il suo primo Ready made: una ruota di bicicletta montata sopra uno sgabello. Più che una composizione, Ruota di bicicletta (tale fu il nome dato all'opera) consisteva in una vera e propria esposizione. Nessun intervento operativo era stato fatto: l'oggetto era tale e quale a quando era uscito dalla fabbrica che gli aveva dato origine. L'operazione di Duchamp consisteva semplicemente nell'esporlo così com'era, già pronto, ready made. Nel 1915 comprò una pala da neve e vi scrisse sopra: «Anticipo per il braccio rotto»: nuovo ready made in cui compariva la coscienza di una relazione essenziale fra la cosa esposta e il linguaggio. Ora, tutta l'evoluzione artistica di Duchamp è sempre rimasta strettamente legata al linguaggio, quasi il lavoro sulle cose non potesse svolgersi separatamente da un coestensivo lavoro sul linguaggio. La frase scritta sulla pala, «invece che descrivere un oggetto come l'avrebbe fatto un titolo, era destinata a trascinare (emporter) lo spirito dello spettatore verso altre regioni più verbali». 5 Il lavoro sulle cose-oggetti apriva alle opere l'orizzonte di regioni «più verbali» dalle quali l'arte non poteva più tirarsi indietro. La tematica surrealista di un ritorno alle sorgenti stesse del linguaggio, ai fenomeni elementari e al balbettìo era intesa da Duchamp in un modo assai particolare: la verbalità del linguaggio doveva mettere in luce l'inesauribile gioco delle sue possibilità proprio come il mondo delle cose esponeva nei ready mades l'inesauribilità dei loro rimandi. La tautologicità ossessiva in cui è spesso caduta la pop art degli anni sessanta, dove il titolo di un'opera non faceva altro che designare circolarmente l'oggetto esposto, era assente dal lavoro di Duchamp. Ciò che lo interessava era invece lo scarto che si manifestava inevitabilmente ogni volta che si guardava con attenzione essenziale (non retinicamente) alla presenza delle cose e delle parole. In questo senso, persino alcune definizioni terminologiche di Duchamp si rivelano importanti per la nostra analisi. Nelle note degli anni 1911-1915 contenute nella Bofte verte Duchamp proponeva come sottotitolo al suo Grande Vetro (il cui titolo era La mariée mise à nu par ses célibataires, méme): Retard en verre. Per spiegarlo, Duchamp scriveva ancora: «Impiegare 'ritardo' al posto di quadro o pittura; dipinto su vetro diventa ritardo in vetro - ma ritardo in vetro non vuol dire dipinto su vetro. Si tratta semplicemente di un mezzo per arrivare a non considerare più come un dipinto la cosa in questione [... ].6 La chose en question deve essere considerata come un ritardo, ma un ritardo nel senso di un attardarsi. Quasi che l'opera - rimasta significativamente incompiuta - si caratterizzasse nel suo attardarsi piuttosto che nel suo compiersi. Ora, l'attardarsi come ritardo concerne una temporalità particolare che, per quanto si voglia, non può ridursi al semplice scorrere continuo del nostro tempo abituale. Qualcosa di disabituale e di sconcertante sembra emergere in ogni ritardo: l'esperienza quotidiana ce lo dimostra in ogni occasione. I ready mades potrebbero essere descritti come oggetti in ritardo, nel senso di un attardarsi delle cose in essi, come un attardarsi in essi delle cose. Duchamp lo specificava nel seguito della nota appena citata, spiegando come «ritardo» andasse inteso per «ritardo in vetro, come si direbbe poema in prosa o sputacchiera in argento». La ruota di bicicletta si attarda nel suo essere esposta, ritardando la sua utilizzabiliAlf abeta 104 tà. Il museo rivela qui tutto il suo lavoro mondificante ed entificante: il ready made duchampiano che vi si espone perde il ritardo che gli era essenziale per aggiornarsi come opera d'arte, nuovo oggetto interamente utilizzabile ai fini di un mercato calcolante. È quanto si manifesta attualmente con le opere di A. Warhol, ad esempio. Per Duchamp il problema era invece quello di evitare l'irretimento in opere d'arte delle opere («Si possono fare delle opere che non siano 'd'arte'?» si chiedeva nel 1913). L'opera d'arte in quanto tale non sfuggiva, agli occhi di Duchamp, alla sua oggettivazione intramondana: l'operazione artistica non aveva in nessun caso una funzione di redenzionè. L'arte non avrebbe potuto più nulla senza legarsi alla concettualità, senza intrecciarsi a riflessioni provenienti da regioni di sapere molto diverse da essa. In questo senso la maggior parte delle opere di Duchamp sono opere «pensate». (Forse per questo nel 1923, si era sparsa la voce che l'artista avesse abbandonato definitivamente l'arte: in un certo senso era stato proprio così.) . Il carattere concettuale delle operazionì' di Duchamp non deve tuttavia trarre in inganno: esse rimangono un fare artistico impossibile a confondere con una interrogazione filosofica quale, ad esempio, quella heideggeriana. In questo risiede tutta la loro forza: in quanto opere d'arte le cose esposte da Duchamp esprimono un indicibile oltrepassarsi. L'oggetto si sofferma nel suo attardarsi: solo il gesto artistico può permetterlo, in quanto dispone di un fare (poiein) che ha il potere di portare ad essere le sue opere e dispone al tempo stesso di uno spazio (il museo, la galleria) in cui può esporle, ma dove l'atto espositivo immediatamente le sottrae (le mercifica in quanto oggetti d'arte). Guardare a un ready made come a un'opera d'arte significa allora negarsi la possibilità di coglierne l'essenziale attardarsi: l'operazione artistica (taumaturgica, quasi) che ritarda l'oggetto nel flusso produzione-consumo esponendolo come già-fatto, ready made, si prolunga in esso aprendone la cosalità. Il ready made non sarebbe più, dunque, un'opera-oggetto d'arte, ma il prolungamento di un operare che, mantenendo in sé tutta la sua fatticità, mostra l'orizzonte inesauribile nel quale l'oggetto è una cosa. Mostra quindi il limite oltre il quale una cosa qualunque si apre al suo essere cosa, al fatto che sia una cosa (e non soltanto un utilizzabile intramondano, secondo la definizione data da Heidegger in Essere e tempo). Mostra, infine, la necessità di «cambiare l'angolo visuale dal quale l'oggetto viene percepito» in modo tale che avvehga una «modifica dell'indirizzo primario dell'oggetto»7 che nulla toglie all'oggetto reale quotidiano. Quello che si differenzia è insomma il punto di vista sull'oggetto. Di qui la conseguente necessità per i ready mades di essere privi di «senso», affinché «l'esposizione di una cosa che esiste già [... ] serva da punto di partenza per elucubrazioni». Le elucubrazioni vengono intese da Duchamp come ciò che si sviluppa a partire dalla trasformazione dell'indirizzo primario dell'oggetto, come la sorpresa suscitata dal disabituale gioco di rimandi cui f'adattarsi della cosa rinvia. Per questo il rifiuto dell'ottica abituale con la quale si presta attenzione (o meglio non si presta attenzione) alle cose più semplici sta all'origine del suo uso di oggetti semplici (comuni) come opere d'arte. La sua operazione di «prelievo» sposta l'oggetto dal suo ambito normale, «lo libera dalle éonsuete relazioni e lo spinge, avventurosamente, in una terra di nessuno, dove l'oggetto deve reinventare tutte le relazioni, a cominciare da quella fondamentale tra il nuovo che esso rappresenta e il contenuto già noto da cui proviene. Il gesto che sceglie l'oggetto e lo inserisce nel contesto dell'arte compie quindi una sorta di epoché fenomenologica, restituendoci la cosa così com'è». 8 La sospensione che il ritardo dell'oggetto apre nelle cose permette allora di farne sentire, forse, il kandinskiano «suono interiore». Duchamp si porrebbe allora come in un punto di cerniera fra Husserl e Heidegger (solo nel senso che una riflessione filosofica riguardo a le operazioni di Duchamp si porrebbe in tale cerniera), mettendo in questione l'abituale delle cose nel loro attardarsi come opere già-pronte. Heidegger, nel saggio su L'origine dell'opera d'arte, aveva scritto: «Ciò che si presenta come naturale non è che l'abituale di una lunga abitudine che ha dimenticato il disabituale da cui deriva. Quel disabituale ha tuttavia, un giorno, colto l'uomo di sorpresa come qualcosa di str;wrdinario, ed ha riempito il pensiero di meraviglia». 9 È questo Erstaunen che Duchamp si propone di riportare alla cosa. Ma questo è possibile solo come un operare discreto, modesto e violento al tempo stesso: un operare che non si lasci assorbire nuovamente nell'ipertrofia della produzione, nella dispersione del calcolo statistico, nella medietà e nella moda. L' Erstaunen è possibile solo per ciò che si rivela disabituale, raro. Duchamp ne aveva una sorpr~ndente coscienza: «Mi resi conto molto presto del pericolo che poteva esserci nel servire senza discriminazione questa forma espressiva e decisi di limitare la produzione dei ready mades a un piccolo numero ogni anno. A quest'epoca mi accorsi come per lo spettatore, ancor più che per l'artista, l'arte fosse una droga ad assuefazione, e volli proteggere i miei ready mades da una contaminazione di questo genere». '0 Il pericolo maggiore consisteva infatti per Duchamp nel giungere a una forma di gusto: il gusto rappresentava per lui la ripetizione di ogni cosa già accettata, dunque «un'abitudine. Ricominciate la stessa cosa per qualche tempo e questa diventerà un gusto.

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