Alfabeta - anno X - n. 104 - gennaio 1988

Alf abeta 104 Saggi pagina 31 La cosa nascosta ,, N ella primavera del 1960, all'interno dello Sculpture Garden del Museum of Modem Art di New York, una strana scultura macchinica si autodistrusse esplodendo e affondando nello stagno del museo. Si trattava dell'Omaggio a New York di J. Tingueley, la prima macchina costruita col fine specifico di autodistruggersi, di suicidarsi. Lo sferragliante e fumante congegno era stato ideato per una mostra: aveva quindi l'intento (per quanto lontano e traverso) di essere un'opera d'arte. Un'opera d'arte che mostrasse, attraverso sé, la sconvolgente realtà nella quale era costretta a rapportarsi: un dominio morente delle macchine «al servizio dell'uomo» sostituito da quello sempre più prepotente delle macchine (a questo punto il corsivo si rende necessario) «sostitutive dell'uomo». Un luogo comune, quindi, dietro al quale si celano persino le estremità di un pensare. Le macchine, il mondo, il mostrare come un fare artistico che si ritira (il macchinico autodistruttivo) dalla tracotanza del circostante, ma che ritirandosi mostra indiscretamente il suo gesto. Quale migliore idea allora che quella di antropomorfizzare i congegni sino al momento più sconcertante dell'essere umano: il suicidio? La macchina è sempre stata ritenuta uno degli oltraggi maggiori nei confronti dell'umanità dell'uomo ... L'impotenza dell'uomo doveva ricorrere a strumenti esterni a lui. La loro antropomorfizzazione (si pensi anche soltanto alla funzione determinante svolta in questo senso del design pubblicitario e industriale) non è stata mai altro che il tentativo di ammorbidire l'inquietante distanza che la separava dal cosiddetto umano. Eppure il centro dei riferimenti (rimandi) di ogni relazione macchinica rimaneva pur sempre il vecchio «uomo». L'operazione di Tingueley si rivela però di carattere particolare perché, pur attribuendo a un congegno meccanico una funzione specificamente umana (cosa non nuova), porta il discorso all'estremo. Lo strumento suicida non è infatti soltanto una macchina, ma un'opera d'arte destinata ad un'esposizione in un museo. La sua metafora fatale rimane imprigionata in questo ruolo: non è l'autentica macchina quotidiana, prodotto di una tecnica presente nel mondo organizzato, che si autodistrugge; non è lo scaldabagno nell'appartamento, la catena di montaggio automatizzata o il computer che si guastano o si suicidano. La fatalità (organizzata dai tempi della produzione e dagli interessi consumistici del mercato) non entra a far parte di questi strumenti del quotidiano come una spinta all'estremo della decisione più tragica, che invece Tingueley pone in corrispondenza del suo congegno macchinico. L'estremo non abita nel quotidiano. L'estremo sembra avere i suoi spazi altrove (altri schemi in altri stati di cose): nei musei, nei luoghi eminenti della cultura o nella ricerca sperimentale. Il suicidio «messo in scena» da Tingueley avviene nello stagno del museo (in parte); l'experimentum crucis che permetterà la fusione nucleare avviene fra le mura di un laboratorio; la profondità di un pensiero filosofico si espone nello spazio di un'aula. Questi luoghi sembrano chiudere l'estremo nel loro ambito e celarne così l'essenziale coappartenenza al dominio del quotidiano. La folla accorsa per assistere a quell'inconsueto spettacolo si precipitò sui resti per conservarli come preziosi trofei, reliquie di un gesto che nel frammento ancora parlava. Non è rilevante se chi raccoglieva quei pezzi lo faceva con l'evidente speranza in una loro valorizzazione: l'elemento «sopravvissuto» del congegno manifestava ugualmente qualcosa (come ogni reliquia testimonia del corpo santo e al tempo stesso dell'inesauribilità dei suoi poteri). I pezzi raccolti (ruote dentate, bulloni, tubi ... ), nel loro stesso esser raccolti, si rivelavano macchine rimandanti alla macchina intera suici~a: macchine insomma componenti di macchine il cui aspetto macchinico rinviava al disegno meccanico del gesto tragico da cui (ma anche a cui) avevano tratto origine. Tingueley sapeva bene ciò cui andava incontro la sua opera: nella banale reazione «una macchina non può suicidarsi!» si inseriva l'intensità ironica del suo fare. Il «non ·può» della reazione immediata rivela che il suo congegno nascondeva qualcosa. L'azione compiuta da quell'insieme di ruote, pulegge e motori non si esauriva nella denuncia di un imperialismo tecnocratico. L' «invenzione» mostra qualcosa di più. Mostra forse che l'arte, se lega la sua sopravvivenza alla collaborazione con la tecnologia, non ha .altra alternativa che la morte? L'inaridimento nella «mortale serietà» della tecnica?1 • Il gioco suicida di Tingueley mostra la forzatura della sua oggettualità, lo sfondamento della sua intelaiatura. Nella costruzione è nascosto il rifiuto (come «atto» artistico, ancora) di rimanere un mero congegno: la sua autodemolizioEnrico Castelli Gattinara ne illumina la povertà dello sguardo che...Iavede come un semplice oggetto. Gli oggetti considerati in quanto semplici presenze, diceva Heidegger, determinati dall'usabilità e dalla fabbricazione, perdono la possibilità di rivelarsi nell'essenza del loro esser cose. Nello stesso modo, l'essenza della tecnica, tematizzata filosoficamente, si rivelerà altrimenti che un puro mezzo strumentale. Qualcosa di più, qualcosa d'altro (e forse anche qualcosa di meno, qualcosa di più discreto) si mostra ritraendosi dietro l'oggetto, l'opera d'arte, la cosa. Qualcosa che è la cosa stessa, la sua essenza, e che pure essenzialmente si sottrae. Il gesto suicida manifesta un tragico sottrarsi. La macchina che compie un simile gesto chiama - perché opera d'arte - alla sua essenza rompendo l'abitudine dei problemi presunti già risolti. Ciò che ci sta di fronte come oggetto, pur nella ricca complessità delle sue strutture interne messa in luce dalla scienza, si mostra intimamente legato alla sua impensata essenza. Il gesto suicida non può più starci di fronte come un Gegenstand, come la notizia letta nella cronaca di un giornale, ma come un fatto essenziale, un gioco di rimandi che a volerlo seguire porta sempre più lontano (vicino) senza giungere mai a un termine (quel termine, limite, pietra miliare o parola che noi stessi siamo). Pensare alla macchina di Tingueley sarebbe, in questo senso, uno spingerla dentro se stessa: l'evanescenza della sua struttura, i pezzi raccolti, l'esplosione stessa, da semplici conseguenze di un gioco programmato si rivelano anche (perché mantengono, in tutto, il loro aspetto «gegenstiindlich») come relazioni essenziali e, oseremmo dire, linee di forza virtuali. L'intelaiatura fenomenologica dell'oggetto e del gesto - ed è per questo che diventa importante la sua tragica teatralità - si scopre insufficiente a _seguirne l'aperto gioco di rimandi: questo è il limite contro cui si scontra ogni critica d'arte che aspiri a risolvere l'opera sulla quale si applica. Ciò non comporta, beninteso, la scomparsa dell'aspetto oggettuale dell'opera (di qualsiasi cosa), la forza del suo essere Gegenstand o l'illegittimità di un discorso scientifico del quale ogni giorno è possibile constatare la potenza: si propone semplicemente un punto di vista leibnizianamente differente. L'opera di Tingueley ci sembra sollevare la questione. Si tratta allora di riflettervi a partire da punti di vista differenti, senza perciò cadere nell'erezione di una gerarchia di valori in base alla quale questi andrebbero scelti. cui si mantengono) di essere riserva di significati, come «ciò che non è mai pienamente manifesto» e che permette la generazione di sempre nuove (o altre) opere, rimanga nell'oblio. Non si tratta più quindi di «redimere» il mondo delle cose grazie a un fare artistico o a un pensare filosofico che denunci un dominio (Foucault ha mostrato esaurientemente che ogni sapere si esercita come potere) scientifico-tecnologico. Non si tratta, insomma, di trovare o esercitare particolari terapie culturali per un supposto mondo in declino. Si tratta invece di saper guardare oltre quello che immediatamente si presenta, e di presentare il presente in modo tale da lasciar trapelare questo oltrepassamento. «Sarebbe folle slanciarsi ciecamente contro il mondo della tecnica, sarebbe miope condannarlo in blocco come opera del diavolo», scrive Heidegger; poiché «siamo ormai schiavi» dei prodotti della tecnica. «Tuttavia - continua subito dopo - possiamo anche comportarci altrimenti. Possiamo infatti far uso dei prodotti della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo che ne facciamo, possiamo mantenercene liberi [... ]. Possiamo dir di sì all'uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su di noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere[ ... ]. Vorrei"chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no al mondo della tecnica con un'antica parola: l'abbandono di fronte alle cose ( die Gelassenheit zu den Dingen). In questo modo riusciamo a non vedere più le cose soltanto dal punto di vista della tecnica, vediamo finalmente chiaro e riconosciamo che la produzione e l'uso delle macchine esige da noi un altro rapporto alle cose.»2 «Noi» possiamo dunque comportarci anche altrimenti nei confronti di un mondo tecnico-utilizzabile e trovare così un altro rapporto alle cose. I due termini sottolineati vogliono portare l'attenzione sulla non esclusività di un simile procedere. Ma vogliono porre in chiaro il rapporto alla scienza. Heidegger l'aveva fatto già durante le lezioni del semestre invernale 1935-1936,in un corso che portava per titolo Questioni fondamentali della metafisica e che fu pubblicato nel 1962come Die Frage nach dem Ding. L'interrogazione propria alla filosofia portava infatti, secondo Heidegger, sull'incondizionato (Unbedingt), sulla cosità delle cose, su ciò che le condiziona senza essere a sua volta condizionato; \;. ,C.: ci •. mt1t11e1 r~ ~ , - L'aperto gioco di rimandi, come l'aspetto heideggerianamente_ ancipite della verità (svelamento/nascondimento }, mostra il rischio cui incorre un'analisi risolutiva delle cose. Una parte dell'arte del Novecento ha affrontato questo rischio in una «consonanza» sorprendente col pensiero di Heidegger. E questa «consonanza» si è espressa soprattutto in relazione alle «cose», a una riflessione su di queste. Le cose infatti sono condannate ad esaurirsi quando vengono considerate solamente in base alla loro semplice-presenza oggettiva, appartenenti a un mondo tecnico e pianificante che lasci inindagata la sua essenza. Egualmente si esauriscono quando il potere della «Terra» (ciò da cui sorgono ed in ossia su quanto la scienza non indagava. In questo senso a Hçidegger non interessava «né rimpiazzare né migliorare la scienza» (il «meglio» non significando che una differenza di grado all'interno di uno stesso dominio): la sua interrogazione voleva collocarsi in un sapere del tutto altro (ganz anders) «dalla scienza o da ciò che viene chiamata una concezione del mondo (Anders als die Wissenschaft, aber auch anders als das, was man 'Weltanschauung' nennt».3 Tingueley provocò teatralmente/tecnicameqte la possibilità di suscitare un simile pensare. Ma un altro grande «artista» si spinse profondamente in questa direzione, mettendo in subbuglio l'abituale mondo delle cose: Marcel Duchamp.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==