Alfabeta 104 loro dogmatismo, consiste nel voler fondare i diritti dell'uomo su un concetto determinato, cioè su un'idea dell'Uomo definito come personalità autonoma e ragionevole, ecc. Come se questa entità, l'Uomo, potesse essere posta a riferimento ultimo del diritto, e permettesse così di assegnare, una volta per tutte, le norme del giusto e dell'ingiusto, dell'umano e dell'inumano. Noi pensiamo invece che la dinamica della modernità tende a far vacillare questi riferimenti e queste norme, a esporle al gioco di una indeterminazione radicale, al rischio del conflitto, della controversia. Ciò impedisce a ogni soggetto determinato - individuo, classe, nazione, o persino «umanità» empirica - di porsi come autore sovrano o riferimento supremo del diritto. 8 L'«Uomo» senza nome e senza qualità al quale sono rivolti i diritti dell'Uomo non farebbe altro che designare, miseramente, questo posto vuoto della Legge, il suo eccesso irrappresentabile, che toglie sin dall'inizio ogni legittimità all'arroganza del grande Prescrittore. La comunione promessa Determinare a priori il contenuto dei diritti dell'uomo significa fissarli arbitrariamente, impedire ogni ridiscussione delle regole stabilite, ogni ricerca di regole nuove. Sopprimere ogni dibattito sul giusto e l'ingiusto. Ossia, vietare la controversia. I nostri censori, d'altra parte, non ne fanno mistero. Fare regnare l'ordine, l'uniformità, il «consenso», sottomettere ogni individualità a una norma comune - questa è la missione che la polizia del pensiero si è assegnata. E non ci si stupirà di vedere come questa molle ideologia del consenso, guidata dalla penna poliziesca di Bouveresse, si risolva in un'apologia senza mezzi termini del conformismo di massa. Cosa vorrebbe imporci, come regola massima e come fine ultimo? «Il consenso e la solidarietà che si manifestano nel rispetto delle istituzioni, delle regole e delle norme accettate senza proteste (sic), la razionalità volgare, il linguaggio comune, il senso comune linguistico, la comprensione abituale, l'uso quotidiano», ecc. La «polizia del linguaggio [... ] il mantenimento dell'ordine negli scambi linguistici, la salvaguardia del consenso, dell'uniformità e della regolarità indispensabili all'esistenza stessa di una co- • munità» (p. 132). È venuto il momento di rimettere in riga i recalcitranti, i «marginali» e gli «zombi» che Ferry e Renaut condannano, tutti coloro che ancora si rifiutano di piegarsi alla legge degli «scambi conciliati e pacifici» (Bouveresse, p. 148) e di «identificarsi» con gli interessi superiori della loro «comunità storica» (p. 159). Oseremo noi far valere i diritti della singolarità, dell'invenzione del dissenso? Evocare le «crisi dei fondamenti», i paradossi logici, le aporie cui fa ricorso, periodicamente, il pensiero? Tanto varrebbe confessare, rispondono i pacificatori, che voi incitate alla «guerra civile generalizzata» (Bouveresse, p. 145), alla «scomparsa della comunicazione» (Ferry-Renaut, p. 45), cioè alla «barbarie» e al terrore. Tuttavia ciò che vi è di terroristico, nel senso «comune» delle nostre società moderne, non è forse proprio la loro paura del disordine e il loro odio dell'evento, il loro bisogno di normalizzarlo e identificarlo? Ciò che ci minaccia, non è forse questa certezza arrogante secondo la quale tutto è presentabile, determinabile, comunicabile? Ma i buoni apostoli non amano le sottigliezze: se si mette in dubbio la possibilità di una comunicazione trasparente, di un accordo unanime fondato sulla ragione, si desidera il caos e la violenza. Eppure un certo Kant ci aveva insegnato a diffidare delle alternative sommarie. Esponendo, nella Critica del giudizio, l'antinomia del giudizio estetico, constatava che in materia di gusto non si poteva affatto disputare, ossia dimostrare «per mezzo di concetti determinati» e che non si potrebbe giungere a un consenso stabile. Ma che resta nondimeno possibile discutere, cercare l'assenso altrui, senza mai essere certi di convincerlo. Infatti, in questo genere di giudizio, la nostra facoltà di giudicare non è determinante ma solo riflettente. Non si fonda su una categoria o un principio universale già dati, che devono solo essere applicati; ma deve invece, stimolata da un dato singolare, da un caso inatteso, giudicare senza regola per stabilire la regola. Da questo uso riflettente del giudizio deriva l'attività dell'artista, del filosofo critico, del politico «repubblicano» e ogni processo inventivo che, sulle tracce dell'ignoto, dell'inaccettabile, rompe con le norme costituite, fa saltare il consenso, ravviva il senso della discussione. Ed è evidentemente proprio ciò che il neo-kantiano dogmatico non sopporta, sempre preoccupato di restaurare l'unità e l'identità. Così si premura di snaturare la teoria kantiana del giudizio riflettente, interpretandola come una «conciliazione del particolare (della sensibilità) e dell'universale (del concetto)», nella quale «il reale particolare [... ] si riconcilia liberamente» con l'universale. Ferry crede di poter concludere che «la comunicazione estetica [... ] appare come comunicazione diretta, come fonte di una intersoggettività immediata: gli individui vi si trovano riconciliati senza la mediazione di un concetto» (Philosophie politique, I, pp. 178-179). Gli basta allora trasferire questo modello dal piano estetico a quello politico per determinare la politica coSaggi me spazio d'interazione e di comunicazione e giustificare le ideologie del consenso. Siamo di fronte al più grave dei fraintendimenti commessi dai neo-kantiani. Certo, nella sua richiesta di universale, ogni giudizio estetico porta secondo Kant la promessa di una comunità ideale, nella quale il mio sentimento singolare sia anche quello di tutti. Ma, proprio perché è immediato, perché opera «senza la mediazione di alcun concetto», il giudizio estetico può rivendicare solo una universalità soggettiva, la «norma indeterminata di un senso comune». Perciò, aggiunge Kant, si trova «così spesso respinto nella sua pretesa all'universalità». Questo è il dramma del giudizio estetico, incapace di argomentare la su~ regola o la sua norma, e destinato a invocare un accordo ideale nel momento stesso in cui l'opinione degli altri, di fatto, lo smentisce. Lungi dal permettere una «comunicazione diretta», l'esercizio del giudizio riflettente desta piuttosto il sentimento di una comunione promessa e sempre differita. E questo turbamento del senso comune si aggrava con il sentimento del sublime, testimonianza dell'impresentabilità, dell'eccesso incommensurabile dell'Idea sul reale. La comunione si ritrova allora attaccata solo per un filo all'Idea della nostra destinazione. Poiché promessa, la comunione rimane fuori portata, come un orizzonte. Che una tale comunione possa poi giungere a tracciarsi, che i nostri sentimenti possano essere talvolta condivisi, è per Kant, un fatto «strano e singolare», nel quale sta tutto «l'enigma» della nostra facoltà di giudicare. Intese precarie, accordi minori nati dal caso e che non potrebbero suggellare nessuna riconciliazione. Ma chiamarci a condividere la discussione. Di queste occasioni impreviste presentate dagli eventi, l'entusiasmo suscitato dalla Rivoluzione francese ha rappresentato per Kant il massimo esempio. Vi scorgeva infatti il «segno storico» di una disposizione morale dell'umanità e l'indizio di un progresso verso il fine ultimo della nostra specie. Se i nostri sentimenti sull'argomento non sono più gli stessi di quelli di Kant, è senza dubbio perché ci siamo confrontati con una pluralità di segni della storia - evocati nella loro eterogeneità dai nomi di Auschwitz e Kolyma, Budapest 1956 e anche, lo si voglia o no, Maggio 68 -, ognuno dei quali accusa a modo proprio la dispersione dei fini, la fuga o il declino delle Idee stabilite dall'Illuminismo, e richiede di prestare ascolto ad altre idee. Il sublime è accomunato al mostruoso dall'identica tensione verso l'irrapresentabile, come è testimoniato dall'esperienza dell'arte e della scrittura di questo secolo, come è testimoniato anche da quelle forme di pensiero «irrazionaliste» pagina 27 e «anti umaniste». Nella misura in cui, mettendo l'accento sulla differenza dell'essere e dell'ente (Heidegger), sulla differenza della traccia di scrittura (Derrida), sull'alienazione simbolica del desiderio (Lacan), o sulla parte di insensatezza che grava sull'ordine del discorso (Foucault) - esse si sono poste di volta in volta l'obiettivo di far sentire ciò che non si sente. Note Traduzione dal francese di Enrico Lotti Tratto da «L'Autre Journal» n. 10, dicembre 1985 (1) Si tratta soprattutto di J. Bouveresse, Le philosophe chez [es autophages, Minuit, 1984, e Rationalité et cynisme, Minuit, 1985; di T. Todorov, Critique de la critique, Seui!, 1985; e di L. Ferry e A. Renaut, La Pensée 68, Gallimard, 1985 (trad. it. Il 68 pensiero, Rizzoli, Milano, 1987). Il pamphlet di J.P. Aron, / moderni, Feltrinelli, 1985, e l'ultimo libro di C. Rosset partecipano anch'essi, in misura minore, di questa tendenza. (2) J. Lacan, Réponses à des étudiants en philosophie sur l'objet de la psychanalise, in «Cahiers pour l'analyse» 3, 1966. (3) Salvo forse nel lungo capitolo dedicato a Foucault, che è in linea di massima un commento argomentato. (4) Questo «argomento» che essi stessi definiscono «rustico», è la principale e quasi unica critica che Ferry e Renaut rivolgono a Heidegger. Lo si ritroverà ripetuto ad nauseam, ad esempio in Ferry, Philosophie Politique, Puf, 1984, t. I, pp. 35-36 et. Il, pp. 91-98, nella Question de l'étique_après Heidegger, Les Fins del'- homme, Galilée, 1981, ecc. (5) Penser !es droits de l'homme, in «Esprit» marzo 1983, e Système et critique, Ousia, 1985, ecc. (6) Cfr. Fondamenti della metafisica dei costumi, dove l'argomento ritorna a diverse riprese. Sulla distinzione kantiana del soggetto ragionevole come «noumeno» e dell'uomo empirico come «fenomeno», cfr. sempre i Fondamenti, p. 200 e la Critica del giudizio, p. 41 (nota). Sullo statuto dell'uomo in Kant, cfr. le osservazioni di J. Derrida in una nota dei Fins de l'homme in 'Margesde laphilosophie, Minuit, 1972, pp. 144-146. Questa breve nota basterebbe a dimostrare che Derrida ha compreso Kant meglio di intere generazioni di umanisti neo-kantiani. (7) Ci è impossibile sviluppare qui questa «deduzione» operata da Kant nella sua Dottrina del Diritto. (8) Ci si è basati sull'importante saggio di C. Lefort, Droits de l'homme et politique, in L'lnvention démocratique, Fayard, 1981.
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