pagina 22 mente, a questa nuova formula giornalistica. Io credo che anche il libro potrebbe avere una propria vetrina di successo; fatta salva la qualità delle immagini e di una scrittura divulgativa, ma di grande qualità stilistica, perché non pensare alla letteratura come a una storia di personaggi, di luoghi di lavoro, di paesaggi artificiali e naturali, ma anche di errori e di orrori? Solo così il libro potrebbe uscire dalla sua riserva di caccia. Aldo Colonetti L~ parole di J ung «Si può immaginare che il lettore medio, il quale vuole dedicarsi alla saggistica junghiana -per fissare e apprendere più che per leggerla come un racconto in cui la psiche narra se stessa, sia viceversa desideroso di testi contenenti sbocchi concettuali e definitori», scrive Luigi Zoja prefando il Dizionario di psicologia analitica redatto da Andrew Samuels, Bani Shorter e Fred Plaut nel 1986 e tempestivamente tradotto in italiano (Raffaello -Cortina. Editore, Milano, pp. 190, lire 32.000). Si tratta di uno strumento agile e assai utile che tiene conto dei «termini» di Jung (come archetipo, individuazione, ombra, ecc.) ma anche dello sviluppo della psicologia analitica dopo Jung e del più generale orizzonte psicanalitico, con rimandi interni e puntuali riferimenti bibliografici. Il problema di tentare un'organizzazione concettuale di un pensiero che è essenzialmente «empirico» e narrativo e che quindi rifugge dagli schemi astratti, si pose già allo stesso Jung (cfr. le sue Definizioni nel volume VI delle Opere edite in Italia da Boringhieri) e si è ripresentato continuamente nelle edizioni critiche di suoi saggi o raccolte di saggi. Infatti quello di Jung è anche un pensiero che fa uso di un dizionario peculiare e volutamente differenziato rispetto alla koiné freudiana. Quèsto Dizionario ( che è il primo nel suo genere) è dunque prezioso sia per chi studia Jung sia per il lettore medio, ma suggerisco a quest'ultimo di adoperarlo con una cautela critica. Che consiste nel prendere le «voci» non come un sostituto ma come un accampagnamento del testo junghiano. E poiché le opere di Jung sono un grande mare, in cui non è poi così facile nuotare, suggerisco inoltre al lettore medio e interessato di procurarsi, di Jung, L'uomo e i suoi simboli ( che è una sintesi divulgativa, disponibile in edizione pocket presso Mondadori) e il meno rapido ma.più affascinante Ricordi, sogni, riflessioni (nella Biblioteca Universale Rizzoli). -Se poi questo lettore se la sente e ha interessi filosofici può saltare al saggio di Umberto Galimberti, La terra senza il male (Feltrinelli), e di qui fare un percorso più ambizioso attraverso le opere di Jung ricostruendo la mappa di riferimenti utilizzata dall'autore. Pier Aldo Rovatti Berlino e Wenders Diversamente da ogni altra città della vecchia Europa, Berlino non si lascia ammirare, né può ridursi a vetrina per il consumismo visivo dei turisti americani e giapponesi. Ciò che resta dei monumenti di Berlino - grandiosi mozziconi come la Gediichtniskirche, residui solitari come la porta di Brandeburgo, o più spesso terrains vagues o semplici luoghi di identificazione topografica - vi ricorda che non siete capitati in uno spazio idolatrico, ma in uno spazio simbolico. Vi ricorda soprattutto che ogni simbolo urbano rimanda agli strati del tempo storico, che qui non sono messi in cornice e dimenticati, ma accatastati alla rinfusa, presenti e vissuti. Berlino è un deposito di tracce incancellabili di storia, di una storia che non può essere rimossa. Così, se prendete un autobus dalla zona commerciale del Kudamm verso la Potsdamerstrasse, che un tempo era una delle arterie principali, incrociate delle vie cit,ate da Benjamin in Infanzia berlinese, ma ridotte a mera topografia, strisce di asfalto tra prati e giardinetti. Costeggiate il Landwehrkanal, in cui fu gettato il corpo di Rosa Luxemburg: un nastro d'acqua su cui si affacciano pochi edifici dell'età guglielmina. Quando arrivate all'incrocio con la Potsdamerstrasse, che oggi è una via di bordelli e di bar a luci rosse, potete vedere a sinistra, in o Cfr/evidenziatore un immenso vuoto urbano, il nuovo edificio della Biblioteca di stato, e più lontano la Philarmonie. Ancora più in là, in questo grande cimitero del vecchio centro di Berlino, sopravvivono poche ambasciate in stile neoclassico. E alla' fine di tutto, al bordo di questa isola vuota, indovinate la presenza del Muro, discreto ma incombente, una divisione dello spirito e della storia, prima ancora della città, che non vi abbandonerà anche se siete visitatori occasionali. Berlino non può quindi essere imbalsamata, come Roma o Parigi, o lasciata silenziosamente defungere, come Venezia, perché è un cimitero in cui si deve vivere, uno spazio per la sopravvivenza. E benché la sua popolazione diminuisca costantemente, non si ha mai l'impressione che sia una città morta. Ci si abitua, semplicemente, a convivere con il vuoto, con le rovine e con le tracce del passato. Perfino gli edifici ipermoderni, che altrove sarebbero insopportabili, qui sembrano necessari, come se esprimessero l'esigenza che anche il presente, in tutta la sua bruttezza architettonica, abbia diritto di cittadinanza accanto ai diversi strati del passato. Mentre tante città monumentali vi danno l'impressione di sterminati musei in cui si aggirano degli spettri, qui vi sembra di passeggiare tra gente sopravvissuta, disfatta, convalescente, ma comunque viva, sullo sfondo di racconti storici che non possono essere chiusi o dimenticati. È per questa singolare riottosità della memoria a farsi annullare che forse, nonostante tutto, c'è a Berlino una piccola comunità ebraica tenacemente attaccata alla città .. Ed è forse per questo che, per Wim Wenders, questa è la sola autentica città tedesca, la fine del mondo in cui il mondo sembra ricominciare ogni giorno. Per questo suo film, Il cielo sopra Berlino, Wenders ha sceltò dei personaggi al tempo stesso incorporei ma assetati di vita, degli angeli, che al pari della loro città vengono direttamente dal tempo passato, ma sono attratti irresistibilmente dal debole cominciamento del presente. Angeli del limbo e degli spazi inframondani, capaci di ascoltare i discorsi, e di leggere nel pensiero, degli abitanti di questa città, ma troppo deboli e impotenti per deviare il loro destino. Angeli malinconici, né messaggeri di un Dio terribile, né inviati dal mondo degli inferi. Infatti, abitano nel cielo immediatamente sopra Berlino, appollaiati sulle cime dei grattacieli, o dissimulati fra quelle nuvole basse, che sono il primo saluto della città quando 1{oJinello con tre fpcdi, che ft uolta da re, per for~~ dr mot?, rot rcmr-0,a foggia cli Orologgio, come nella prcfcntrFJgur.1 {i tfonofh-.1. state per scendere sull'aeroporto di Tegel. In questa epoca di angeli corruschi e vagamente iettatori, di angeli vendicatori e monoteisti, gli spiriti di Wenders vi comunicano il dubbio terrestre e la malinconia dell'angelus dubiosus di Klee. Con un vero colpo di genio, Wenders vi insinua il dubbio che la differenza tra gli abitanti del limbo celeste e quelli del limbo terrestre non sia questa gran cosa. Se infatti Bruno Ganz si innamora della bella trapezista, quest'ultima è forse un angelo che ha dimenticato la sua alta origine (se non nei sogni). E angelo felicemente insediato tra noi umani è Peter Falk (proprio il tenente Colombo), che evidentemente si sente più a suo agio sul Kudamm o davanti a un chiosco di hot-dog che tra i consessi celesti. E se ci fate caso, lo sguardo di Otto Sander, l'angelo che non se la sente di rinascere tra i mortali come il suo felice collega, altro non esprime che una umana invidia per il mondo di quaggiù. Diremo anche noi che in Il cielo sopra Berlino c'è qualche citazione di troppo (il film nel film, il circo felliniano, tanto Handke ... ). Ma anche questi non sono che amabili ghirigori di fantasia terrestre in un racconto che, prima di essere un'elegia berlinese o una dichiarazione d'amore, è un picc;olo saggio di teologia aliena, aliena soprattutto dal senso di colpa. Non una teologia della speranza, ma una teologia della vita quotidiana. Alessandro Dal Lago Roberto Di Marco Di Marco, che parla di rado, con un impasto suo fra comunicazione· contraddittoria e voce pura, come oracolo sudista greco ai margini del tutto, avversario cupo, e fonte fra le originali dell'avanguardia sessantottesca narrativa e poetica insieme, non ci spiega se non questo. Che è incomprensibile l'età che attraversiamo. Lui che fa? Sonda la situazione, anzi il territorio intorno, e l'esistenza quale oggi si dà, gettando quasi un fazzoletto con un piccolo peso, poco oltre il suo piede di uomo diritto come cactus sulla terra; e secondo l'effetto del sondaggio, decide di ritentarlo simile o diverso. La sua lingua dice e ritira ciò che ha detto. La sua capsula di personaggio si combina nell'«azione» con altre capsule di vario tempo e luogo, e assolutizza il vuoto in cui si aggira con gli altri. Si sale a un monte ma non è una salita. Si proietta la pulsione di morte ma c'è in qoesto la gioia. Vale intanto nel testo L'orto di Ulisse, (Lecce, Piero Manni, 1987, pp. 142, liAlf abeta 104 re15.000) (a serie di «pseudo-racconti») uno stato emotivo fondamentale che è la non-certezza sul proprio stato medesimo, e perciò è un vacuum, in atteggiamento di sfida al troppo pieno e banale; c'è un linguismo atonale basso e talora paratattico, talora ultrametaforico. Questo impossibile della valutazione, che per l'oggi Di Marco segnala, si installa su una sua ricerca anteriore che portava in primo piano la estraniazione dei nessi di .abitudine, e una certa messa in evidenza di fattori minimi rivelativi e sempre allo stesso livello del macro, da dirsi lautremontiana. Ma di altra ricerca, pur così installata, si tratta: è la parola del non riferibile. Con fiori da portare al cimitero, all'inizio. Poi con «le grazie di Grazia», una fuga di donna per stare da sé. Segue un amore strano, tra Poe e il politico-femminista. Epaminonda a Mantinea presenta una prosecuzione «dopo la disfatta», dove scalando una rupe «Epaminonda grida forte per darsi coraggio», con incerti amici. Il successivo testo, che dà il titolo al libro, a me pare il racconto più bello degli anni ottanta; «confidando soltanto su ciò che l'olfatto gli suggerisce» Ulisse che è giunto in un orto che è forse «dell'oblio» sente voci ma non ha una mappa dell'orto «e dei diversi luoghi della vita» e semplicemente è errante, tra le metamorfosi. Ancora è importante il racconto Ajace, Beniamino e la vergine nera col fiore in bocca. C'è un apppendice seconda iri versi, pur molto interessanti. Romano Luperini pone un'introduzione al libro e dice: «racconti politici», «allegorie di un percorso interrotto, di una speranza che deve rifondarsi». E ancora dice: «un repertorio fantastico di possibilità impedite»; «il raccolto è incerto, ma il seme è stato spar- •so». Di ,Marco interviene con varie postille, a cui però preferisco non riferirmi qui. Il testo c'è, checché lui dica; la morte della letteratura non c'è. E il testo ispira profonda incertezza sia epistemologica che politica, dicendola. C'è un uso antropologico dei miti come antichi fondali. C'è un intervallo secco, con un destino di cercatore che non può toccare il piacere ma solo il difficile, e con una cura nasale dei suoni (e un ricordo visivo dello Stalker di Tarkowski). C'è la sfiducia e l'alea; e c'è la penetrazione critica degli stati elaborativi mentali in una fase di impasse, con tenute eccezionali e sorde. Francesco Leonetti
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