Alfabeta 104 I pacchetti di Alfabeta Collassarea s Jean Baudrillard Amérique (1986) trad. it. L'America Milano, Feltrinelli, 1987 pp. 103, lire 10.000 Andrea Zanzotto Fosfeni Milano, Mondadori, 1983 pp. 83, lire 16.000 Peter Handke Langsame Heimkebr (1979) trad. it. Lento ritorno a casa Milano, Garzanti, 1986 pp. 175, lire 16.000 e , è differenza a parlare da un orizzonte segnico o da un orizzonte simbolico, anche se entrambi dicono di un'assenza e inseguono una qualche assenza. L'orizzonte segnico spinto al suo limite lascia apparire il simbolico, e il simbolico spinto al suo limite può divenire perfino una irrelazione e una distruzione di segni. J. Baudrillard nel suo libro Amérique parla di «modernità» dall'orizzonte segnico dell'America. In questo orizzonte la «modernità» appare «utopia realizzata», materializzazione immediata di tutti i valori - o sua simulazione assoluta - guadagnata al prezzo di uno sradicamento totale dalle origini, di una rimozione della provenienza storica, con l'audacia infine di abbracciare un grado zero della cultura. In ciò «modernità» è dall'anima americana presa alla lettera come l'ultimo, la più nuova delle cose nuove: la fine insomma. E giustamente Baudrillard osserva come l'attivismo, il concretismo, l'iperrealismo americani mandino una «segreta tonalità da fine del mondo». Non si può andare avanti nel «nuovo» illimitatamente: si trova l'uguale, la cancellazione, la morte, il deserto. Il deserto che Baudrillard vede implacabile incombere su ogni attività e insediamento e sforzo per quanto smisurato da parte degli americani di addomesticare uno spazio immane, e sullo spettacolare delle folle umane, del traffico, della pubblicità. Il deserto come America senz'altro! La «modernità» come liberazione di tutti gli effetti (effetti «speciali») diviene orgia del- !' in-differenza, deserto appunto, indifferenza tra utopia e antiutopia, tra senso e nonsenso, mobilismo e immobilità, tra vivo e già morto, tra mirabolante e banale. Quando compare il deserto, i segni sono al limite della loro saturazione e sconnessione. Quando compare il deserto l'orizzonte segnico trapassa in quello simbolico: nel salto di distanza, nella confluenza dei tempi. Quando i segni inviano suono di «fine», ci si imbatte in «inizi». Il viaggio di Baudrillard talora alterna o sovrappone il registro del simbolico a quello del segnico: quando il deserto l'afferra, passa il limite tra il segnico e il simbolico, e qui nel simbolico - luogo mosso di qualche pienezza che da sempre all'uomo manca - Amérique si lascerebbe leggere perfino come un poema. Poema cosmologico della fine dell'umano le cui parole affondano in vestigia primordiali, là dove ripassano le «metamorfosi non-umane che ci hanno preceduto, i nostri successivi divenire: minerale, vegetale, deserto di sale, duna di sabbia, roccia, luce, calore ... » e il «silenzio del tempo» e «la terra nel nero della sua gestazione alcalina, nella beata depressione del suo generarsi» e il vuoto sterminato, di cui opere e insediamenti umani in America sono diretta metafora. Vano in America seRubina Giorgi gnare una demarcazione tra civiltà e natura; cercare un pensiero che non si confonda nel deserto. Veniamo dall'immane depressione primordiale marina: forse per questo l'uomo aspira alla separazione e alla culminazione, non quella che porta con sé tutto il profondo come la cima del monte, ma quella di una pura superficie. Per l'umanità stanca di profondo gli americani hanno attuato l'estroversione assoluta, la pietrificazione dell'ideale e del possibile. È questo il «moderno», anzi l'«ipermoderno». Sulla soglia tra il segnico e il simbolico sta l'affermazione di Baudrillard che gli Stati Uniti in fondo «sono la sola società primitiva attuale». Baudrillard parla anche di «selvaggio»: selvaggia è la cultura americana che rinunciando all'intelletto e all'estetica si trascrive «letteralmente nella realtà»; selvaggia è l'architettura di New York, disumana, antiarchitettura. Quasi cosmologia? Forse le scienze antropologiche rimetteranno a punto termini così basilari per loro come primitivo, selvaggio; ma intanto è assolutamente esatta - non è ancora un'affermazione cosmologica ma tende ad esserlo - la connessione che Baudrillard vede tra moderno e primitivo. L'America, a nostro avviso, -lodimostra amplificato per l'intera umanità. È vero che, sotto l'orizzonte socio-segnico, «primitivo» indica una società priva di provenienza, di passato, e che al contrario per es. l'Europa è determinata da un eccesso di storia; così che non potrebbe applicarsi all'Europa il rapporto di moderno e primitivo. Ma la cosa più importante è che il «primitivo» degli Stati Uniti mostra l'assoluta non-centricità dell'umano, la «capacità d'assenza» (Baudrillard) dell'uomo, la sua capacità di sparizione: e questo è cosmologia. Un perpetuo essere in questione nei confronti del cosmo e del tempo, una sorta di irrealizzazione, un· ritrovarsi sempre agli inizi. Però a questo punto è necessaria un'accentuazione simbolica del termine, e in questo senso preferisco dire «primordiale». Cos'è «primordiale»: una relazione o un elemento incombinabile? I «primordiali» non sanno d'esserlo, l'uomo antropologicamente primordiale avrà avuto un intorno e un se stesso «primordiali» ma non li avrà ' esperiti come «primordi», come nascita in .atto: si sarà trovato «già nato», avrà subìto la nascita, ignaro di ogni incanto di creazione, già nell'orrore smussato d'esser vivo. Roteato nel movimento troppo forte della vita sarà incorso fatalmente nella perdita di virtuali forze native ed anche nell'ignoranza di tale perdita. Una perdita o forse un'obliterazione d'organi, a beneficio di fattori atti a promuovere la durata della sua vita. E come la comparsa di una manchevole memoria. Così l'umanità è separata dalla propria origine; oppure, secondo talune vedute gnostiche (cfr. Modernità, America in «Alfabeta», n. 92), vi è una crepa nell'origine - nei «vasi» della creazione - da cui discendono per l'uomo perdita e assenza come suoi «primordi», e quel fare per disfare che è contrassegno di ogni opera umana. Un fare per disfare che spiega sia la spinta ad innovare perpetuamente (la modernità) e ad allontanarsi da quell'origine sia la spinta contraria e_simmetrica, certo involontaria, a riportarsi sempre verso l'enigma dell'origine. Forse l'estasi da sparizione dell'umano che l'America induce si salda pure a qualche voce o preesistenza divina rimasta nell'uomo come fossile dell'origine e che fa in qualche guisa avvertire la sua asperità fatale e ingrata. In questo ... senso rotto, siamo selvaggi. Alcuni lo dicono ad altri o di altri: e sono le scienze antropologiche ecc. Altri lo dicono di se stessi e a se stessi: e sono gli uomini simbolici, che contemplano nella mente la propria evanescenza e l'evanescenza delle scienze e dell'impero dei segni alla deriva delle cavità attiranti dei primordi. Il «primordiale» così, elemento incombinabile, ma mescolato a tutti i fatti e figure umani, torna sempre alla luce, franamento possente, per quanti strati di storia lo ricoprano: lo scandaglio simbolico oscuramente lo avvista, perché colma senza posa la distanza, incolmabile, tra esso e noi. E il primordiale rivendica i suoi diritti, le sue voci: la distruzione dell'umano. E la modernità non è la fase storica dell'uomo che· tenta di più il suo addomesticamento e perciò gli fa luce di più, mostrando il proprio scacco? Noi quando tentiamo di domare i nostri primordi - America insegna - tanto di più li assecondiamo. Perché facciamo il vuoto, il vuoto che già c'era. Perché lo strappo lega più forte. Siamo noi dunque, moderni, tardi coscienti, i veri primordiali. Anche perché la parola «primordiale» non deve avere una valenza umana bensì cosmica. Essere «uomini primordiali» sarà essere uomini capaci d'iniziarsi. A cosa? Al dissolvimento dell'umano. Sarà essere uomini che non hanno intorno a loro che un anello energetico di nulla, la pienezza che manca. In altri termini: il tempo. Trascrizione letterale della cultura in tempo: o in simbolo, che è il caos primigenio del tempo nella mente, e che permette in linguaggio bagliori di contatto con la distanza smisurata e desertica che è «cosmo». La poesia, movimento del tempo, è in grado di offrirci frantumi di primordi: avventuramento nel mai sperimentato, nel mai stato e sempre stato. Le due téndenze del tempo che abbiamo osservato - avanzare e indietreggiare - si corrono incontro e si fanno gorgo. La poesia, appunto, riattiva e svela i gorghi del tempo. La poesia, che non manca né agli inizi del tempo, al mito, né al tempo tardo, al moderno: e che quest'ultimo riporta al primo. Per questo una parola socio-filosofico-segnica che attesta l'attrazione del «primitivo» come quella di Baudrillard in Amérique doveva trasformarsi in parola di poema. Simbolicamente dunque, il «primordiale» è raffigurabile in guisa di un asse cosmico, o di un flusso energetico di espulsione e di attrazione, che può attivarsi in qualsiasi momento, che rende l'uomo effimero, gli svelta il suo non esser destinato a durare come umano. Tutto ciò che è espulso è finito: ciò che è finito rivà alla propria origine. Non è la finitezza infatti che pone anche al pensiero interminabilmente la domanda di ciò da cui è emersa? Spoglio di miraggi, d'illusione umano-centrica, il «primordiale» sveste noi di ciò che abbiamo, ci espone in ciò che non abbiamo, sorta di forma sacrificale fatta di nulla e di figura, o meglio di un insieme che è sparizione e gestazione senza volto e nome. Noi possiamo anche, come fa la poesia, da storditi apostrofare una presenza sterminata: «Dimmi che cosa ho perduto/dimmi in che cosa mi sono perdutole perché così tanto, quasi tutto/ho lasciato a pié del muro»; una presenza siderale: «Dimmi quale lingua ho perduto e lasciato collassarmi/dimmi in che lingua ho perduto ho collassato/eperché in questa cinta amata per_la sua tanta/perdita/mi sono aggirato senza mai perdermi/ma pur sono stato perduto da alcuno da alcuno» (A. Zanzotto, Collassare e pomerio). Perdere pagina 19 perdersi aggirarsi non perdersi mai, venir perduti: la sconnessione selvaggia che una volta, d'improvviso (o senza alcun improvviso?), abolirà lo scenario moderno? Quale lingua - il poeta domanda. L'impossibilità di convivere ormai con una lingua, con un'opera, con una città meramente umane ci viene incontro da un libro, diversissimo da Amérique, che tuttavia anch'esso - da un orizzonte simbolico come caotica confluenza di elementi - solca un'America fisico-mentale: Lento ritorno a casa di Peter Handke. La New York di Handke è già senz'altro cosmo, incalzata dall'oceano alle spalle e ai piedi delle masse metropolitane. Il protagonista Sorger - un geologo che ha sempre bisogno di «sentire» dove si trova, di liberare le forme primeve degli spazi e di se stesso che le stratificazioni umano-storiche hanno coperto o bloccato - in tali masse s'immerge «come un uomo dei primordi», così che la visione degli spostamenti in tutti i sensi della folla momentaneamente ignara d'esser portata da passi d'oceano si amplia «in tutta naturalezza [... ] estendendosi ai tràpassati [... ] che li resuscitavano nei passanti», scoprendo l'appartenenza della città dell'uomo ai morti come ai viventi, e perciò al tempo, un «dio» che forse è «buono», che forse ispira la parola come una luce e un'aria, un gioco di rapida luce che possa venir trasfuso ad ogni punto della città. Di qui si penetrano gli spazi con occhi di tempo: con occhi di poesia, divenuto illimitato il «pomerio», lo spazio dietro il muro dell'uomo ... Se suscita pur sempre un'euforia di colpa, come per una perpetrata scaltrezza, che «la storia dei movimenti e delle formazioni del globo terrestre, così incomparabilmente altri, la si debba pensare in una lingua formata dalla storia umana», viceversa la natura selvaggia, su cui Sorger compie le sue rilevazioni, là nel villaggio indiano nel Grande Nord, è massa di tempo quasi pura, dove non siamo noi a toccare la forma delle cose, ma è la forma delle cose a toccare noi, rendendoci insieme al sentimento intenso di una forma il sentimento di un esistere: «questo sono io!» Gli spazi del mondo, evocati, possono a chi sappia perfino venire in aiuto con «immagini sempre pacifiche, appartenenti a tutti e a nessuno, finalizzate a eventi ancora da ideare». Perché il sangue è trasfuso tutto nel mondo, che si muove in circolo col mio sangue: basta copensare con la terra, pensandola come mondo pesante senza fine. Ossia: «Niente più sangue, niente più era umana: soltanto l'onnitrasparenza che pulsa potente e trema del proprio polso». Ciò fa pensare in parte ai romantici e molto a Novalis, che il «ritorno a casa» del titolo anche evoca. Lento ritorno a casa è un frammento di lingua viva senza violenza, che ottiene ciò che vuole e se stessa con un lavoro fitto e fine di «mondizzazione» (o cosmizzazione) dei «sensi» (sensi come organi) linguistici, il cui risultato è una pacificante emersione dalle acque e dagli altri elementi, compreso l'umano e le sue potenzialità d'amore universale. Emersione, venire a luce, tanto quanto Amérique è franamento in mare dei luoghi dell'uomo: ma c'è complementarità, appunto. Quella di Handke in questo libro è una lingua di poema sui generis che differisce il più possibile, con la sua sintassi ipotattica, l'apparizione del verbo come attendendo l'appressarsi alla prima parola da parte di tutto ciò che vive. E la scienza diventerebbe la pratica quasi di una cosmogonia, per un incanto dì nascita sempre da rinnovare.
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