Alfabeta - anno IX - n. 98/99 - lug./ago. 1987

Gianfranco Dioguardi Viaggio nella mente barocca Baltasar Gracian ovvero le astuzie dell'astuzia Palermo, Sellerio, 1986 pp. XXVI-464, lire 25.000 Q uando Machiavelli dichiarò la differenza fra quel che si fa e quel che si dovrebbe fare, il suo pensiero forse rifletteva per metafora i termini di una scienza nuova e cara agli artisti suoi progenitori recenti e testimoni coevi: la prospettiva. L'intervallo enorme, anche se talora microscopico, espresso in quel tantum che discosta il come si vive dal come si dovrebbe vivere è un confine non meno ambiguo e non meno fatale di quello che separa la realtà e la sua imitazione. L'illusione, il Quattrocento italiano l'ha disegnata, l'ha resa ottica, l'ha fatta dolce per Paolo Uccello, l'ha compresa quale la producono le multiformi proiezioni prospettiche, fino addirittura ai passatempi del /rompe-I'oeil. In specie il «principe», per Niccolò, ma in generale l'uomo - anche per natura perfetto - che si presenta alla società in sinopsi piatta è perduto. La massa tende a non constatare, gli uomini «giudicano più agli occhi che alle mani». Quello che appare in un paesaggio figurativo può presentare un simulato realismo di prospetto che dà una certezza, comunque interamente falsa. Non si parla di volgari menzogne, di imbrattar tele; per Niccolò, il principe come autore deve saper creare una realtà astante. Per arte di prospettiva, un'utopia può trasformarsi dunque in edificio, e addirittura ispirare il suo effettivo sorgere - e non si sa più quanto in esso sia invenzione o espressione: «Si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la se- ' E un grande merito, quello del Centro di studi di este(ica di Palermo diretto da Luigi Russo, l'aver creato una collana che nel corso degli anni ha pubblicato alcuni dei maggiori «classici» della disciplina, altriménti di difficile collocazione presso Le case editrici normali. Ricordiamo fra gli altri i volumi sul sublime di Burke e dello pseudo-Longino (recentissimo), i testi di Baumgarten e di Batteaux, l'estetica del brutto di Rosenkranz. Perché, in questa serie, l'opera di Baltasar Gracùin, massimo retore gesuita del barocco spagnolo? Che cosa può riguardare l'estetica un tomo, giustamente famoso nella storia della cultura certo, ma che tutto sommato contiene in modo talora anche pedante nient'altro che precetti sulla perfetta vita di corte? ILfatto è che l' Acutezza non è per nulla un semplice manuale di retorica applicato alla vita quotidiana e al sapere cortigiano. L'Acutezza, come benissimo sottolinea Mario Pernio/a in uno dei due saggi che accompagnano il volume, l'altro essendo di Remo Lamentebarocca curtà e il benessere suo» [cioè di chi segue quel disegno anamorfico] (p. XV). La soggiacente concezione edificale di questo modo di meditare sociologicamente sul costume non meraviglia nello scrittore cui la metafora del costruire e sbassare e disfare, dell'addentellato e dei fondamenti, degli argini, dei ripari e della ruina non è meno cara di quella del nervo e del membro e del corpo, della medicina e dell'etico, del partorire e nascere e nutrire e pascere. E se Machiavelli incanalava spesso il suo pensare in termini tettonici, certo non gli erano lontane le espressioni legate al disegnare e al colorare; «colorare un disegno» per lui voleva dire eseguire un programma, ed anche· il colore fu figura che gli servì ad ' esprimere l'idea dell'artificio illusorio: «Mandarono [... ) dugento fanti a Nabide sotto colore di mandargli aiuto» (D., 1, 6). Credo che entrambe le idee (la prospettiva come emblema dell'ambiguità del reale, e la aedificatio come immagine dell'agire) abbiano impressionato nel più profondo del suo spirito il maggior moralista della Spagna barocca. Sebbene Baltasar Gracian prorompa in ingiurie contro Machiavelli, e per bocca di un suo personaggio lo accusi di gettare fuoco infernale mentre «sembra aver candore sulle labbra, purezza sulla lingua - è proprio con frasario stupendamente machiavelliano che lui stesso addita come la virtù capitale, la ragione, «nasce da altre due: fondamenta di saggezza, e mura d'ingegno». Il gesuita tende di fatto a definirsi in espressioni visuali: «Per impresa lodevole intendo quella che si compie davanti agli occhi di tutti [... )»; l'elusiva accettabilità di ciò che convince lo orienta fra illusione e realtà, anche quando metaforizza su un altro dei sensi: «Nelle attività delFredi Chiappe/li l'ingegno sempre ha trionfato la plausibilità. La dolcezza di un discorso plausibile ricrea lo spirito e alletta l'orecchio; il rigore di un concetto metafisico li tormenta e respinge». Il soave !icore del Tasso per lui diventa una doratura da applicare visibilmente alla luce insopportabile della verità: «lii luce che ferisce direttamente tormenta gli occhi di un'aquila, di una lince, tanto più quelli più deboli. Per questo inventarono, i sagaci medici dell'animo, l'arte di indorare la verità». Leggo e trascrivo da un'appendice del libro di Gianfranco Dioguardi, Viaggio nella mente barocca: Baltasar Gracian ovvero Le astuzie dell'astuzia, appendice nella quale l'autore ha collezionato una serie di Letture scelte. In quest'opera, si direbbe che Dioguardi prediliga una virtù e ne cerchi la presenza in ogni testo: la nobiltà dello spirito in quanto capacità organizzativa. Questo scrittore siede su una cattedra di Economia industriale e Organizzazione aziendale e presiede a gestioni modernissime, che considera addirittura quali microcosmi tutt'altro che impervi alla dinamica della cultura. Esperto nel programmare i servizi allo scopo, come direbbe lui stesso, di trasformare il prodotto in un prodotto-processo (mi riferisco a un suo scritto scientifico, L'impresa come laboratorio socio-economico, in «L'Impresa», 6, 1986, p. 11 e sgg.) ha escogitato un disegno letterario sopraffino. Come l'intera e incontaminabile virtù di Justine sbattendo nei suoi lnfortunes crea il romanzo che ispeziona l'essere primario del vizio, il costruttore del libro qui ha voluto oggettivare un modello d'ingenuità e d'accidentalità totali per cimentarlo con nientemeno che ·«le astuzie dell'astuzia». Accade nella vita, e accade nello studiare, di trovarsi implicati in coesistenze che l'uomo può perquisire solo da sé. In questa inventata per Gracian, il ricognitore deve farsi autodidatta, pur ben sapendo che è stato preceduto da un fiume di altri pionieri; e pur se. avrebbe potuto imparare da Giovanni Pozzi che ogni continente su cui si sbarca è già abitato. Si confessa dunque, o si simula, non ha importanza, che l'incontro sia avvenuto per aria, in direzione di un'America triangolata in un compasso considerevolmente totale fra New York, la Nuova Inghilterra e la California. Compagno di viaggio aereo, un conoscente di Gracian, travestito da vecchiotto articolo francese in grigia fotocopia. Nel simbolico continente del management e del moralismo, l'autore ha un appuntamento con un mago della storia economica; ma rubando preziosi minuti ad impegni e distanze, cerca, e non senza affanno, lo spagnolo sconosciuto. Si fa tutte le librerie, finché in una presso Harvard, in una che vedi caso si chiama «Mandrake», incontra sotto guisa di pocketbooks, e quindi intasca, l'insieme pressoché completo del lascito di Gracian. L'interpretazione di Dioguardi è metodica, progressiva. L'autore si spiana una base mediante un vasto saggio in cui es'plora La latitudine della sapienza in dieci capitoli. Sale poi ad un soprelevato in otto capitoli dove ricostruisce Il labirinto delle astuzie. E infine tronca la sua piramide su un piano alto, capitolato in sette, dove tutto è aperto ai quattro venti: Instabilità della sorte e della fama, ovvero intrighi, dubbi, maldicenze. In attico si aprono logge dove fanno figura lacerti da Gracian, da Lastanosa, e da altri precettori astuti. Manca il capostipite: Botero, il gesuita della ragion di Stato. Ma ci sono Matteo Pellegrini, Virgilio Malvezzi, Ludovico Zuccolo. Il discorso«acuto» Bodei, è piuttosto un «progetto» di società estetica. Gracian è autore di molti altri «manuali» di vita civile. Gli appartengono uno scritto sull'uomo politico, uno sulla prudenza, uno sull'eroe. Ma si tratta in generale di opere che riprendono e mutano - secondo il gusto barocco, s'intende - una trattatistica cortigiana che pervade l'Europa dalla seconda metà del Cinquecento, e che conta sterminati esempi in materia. L'Acutezza, invece, è una vera e propria «arte del discorso», che, scritta nel 1647, contiene -un indirizzo della retorica tutt'affatto diverso da quello dei concomitanti trattatelli del concettismo europeo. Ad una retorica della parola, come quella per Lopiù vigente di ripresa ciceroniana, si sostituisce una retorica discorsiva. Non i tropi e le figure ne sono la materia, ma gli «effetti» (di piacere, di seduzione, di verosimiglianza) prodotti nella manifestazione testuale. Per questo Gracian rappresenta molto più che un autore curioso. E per questo può costituire mateOmar Calabrese ria di rilettura proprio per noi contemporanei. Nelle scienze del linguaggio, ad esempio, vi ritroviamo un insospettato compagno di strada, se è vero che, ad esempio, la prospettiva attuale non è più quella di studiare una semiotica della parola o dei termini, ma piuttosto una linguistica del discorso (molare vs molecolare) e dei suoi effetti (una pragmatica). Il concetto stesso di «acutezza», del resto, implica tutto questo. Come può essere «acuto» un discorso e il suo produttore? Solo se ci si immagina in primo luogo uno scambio comunicativo costituito da una performance, che abbia come bersaglio un riconoscimento o una sanzione da parte di un interlocutore dotato del potere per effettuarla. Per realizzare la migliore performance, pertanto, occorre una competenza nella costruzione del discorso medesimo. E prima ancora della competenza, è necessaria una fase di manipolazione sulle credenze degli attori del discorso che si produrrà. Sarà «acuto» quel discorso e quell'autore che otterrà la sanzione, cioè che sarà giudicato «acuto». E in precedenza discorso e autore saranno trattati strutturalmente per aderire allo scopo. E in precedenza dovranno essere raggiunte le competenze necessarie, e si manipolerà la situazione fino a consentire l'esercitarsi perfetto dell'«arte» dell'ingegno. Dunque: il comportamento culturale cortigiano si rivela frutto di un complesso di strategie, in cui la tecnica della parola, alla fin fine, è l'ultima delle doti necessarie, e quasi non esistepiù come tale. Ecco il progetto. All'estetica del prodotto culturale si sostituisce probabilmente un'estetica della produzione e del consumo culturali. Esattamente ciò che accade nella società di oggi. Direi, che questo sia il principale valore della «rilettura» di Gracian. Che rilettura in un certo senso non è, perché Gracian è stato in fondo conosciuto ed amato (anche nella tradizione estetologica italiana) fin dagli anni cinquanta. E però che strano: un'edizione del retore spagnolo mancava in italiano, mentre fin dal 1927 esiste quelQuest'ultimo ribadisce il distacco dagli «scrittori iniqui ed empi, come il Machiavello e i seguaci suoi». La bandiera del Machiavelli, sia pur lacerata e sfigurata, è ancora alta sull'edificio. N ell'impegno di erigere così elegante mole convergono istinto e professione. Il saggista rimane sempre col cuore alla struttura biologica dell'azienda, e con la mente alle possibilità che un capo può sviluppare nell'interferire culturalmente sulle leggi meramente industriali che la governano. Ma dalla forma diaristica sorgono deliziose informazioni soggettive. Per esempio, per Dioguardi il passato e il futuro si allacciano in una sensazione estetica: eccolo che ha ascoltato una composizione per organo di Bach nella Grace Cathedral di San Francisco. Nel ricordo continua a guardarsi intorno e riascolta l'eco della musica («La chiesa [... ] ha uno stile neogotico che determina uno spazio musicale splendido [... ]») e nella sua sensibilità si allaccia un'esperienza che ancora non ha avuta, che appartiene ad un tutto di cui fa parte anche il futuro: «[... ] uno spazio musicale splendido, delimitato da un grande portale esterno che, scoprirò poi, ripropone quello del Battjstero di Firenze». Il lungo diario, tanto caloroso quanto preciso, che ci porta ad una interpretazione complessa e articolata, non è tuttavia un Journal come quello di cui Gide volle provvedere il suo proprio romanzo dei falsari. È una progressiva raffigurazione di virtù del comportamento che non sono individuali come quelle del Cortegiano, né politiche come quelle del Principe, ma vigilanze che l'uomo sviluppa contro uno sfondo associativo più che sociale, e perciò continuamente mutevole. - .... la del trattatello di prudenza, Oraculo manual, approntata da Laterza. Donde l'ultimo elogio per la collana di Aesthetica edizioni. Aver non solo pubblicato l' Acutezza, ma averne fatto un'edizione critica (filologicamente ottima, fra l'altro) e completa. Pensate: con gesto che Baltasar non esiterebbe a definire «acuto» le altre traduzioni europee, a cominciare da quelle francesi, sono tagliate «ad arte», ad esempio eliminando la congerie di esempi e citazioni del nostro autore. Quel che consiglia di fare lui stesso, quando invita gli oratori a citare modificando di poco il citato, fino a fargli assumere una forma più convincente dello stesso originale. Un consiglio perfetto per la nostra «editoria.» (E per la nostra cultura?) Baltasar Gracian Acutezza o arte deU'ingegno Palermo, Aesthetica Edizioni, 1986 pp. 493, lire 45.000

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==