Alfabeta - anno IX - n. 98/99 - lug./ago. 1987

Origine del gemito d'amore Secondo i greci, fu il dio Ermes l'inventore della musica: uccisa una tartaruga, fissò nel guscio svuotato sette corde di budello e creò così la prima lira. Per gli ebrei invece, ad inventare la musica fu un discendente di quel Caino maestro di tutti gli assassini: il suo nome era Jubal, egli fu «padre di tutti coloro che suonano la cetra e il flauto». I fenici di Phaselis - un piccolo porto sulle coste della Licia - vennero a conoscere entrambe queste storie e ne tramandarono una terza. Narravano che un giorno Ermes e Jubal si erano incontrati per caso sui monti del Tauro, a nord di Phaselis. Uno con la cetra, l'altro con la lira, andavano nel mondo per diffondere la musica, inventata da poco. Jubal veniva da oriente, Ermes da occidente, procedevano in fretta sul fondo di una gola, zoppicavano entrambi per un sandalo spaiato, inaspettatamente si trovarono faccia a faccia. Fermatisi di botto, gli occhi videro per un istante gli altri occhi. Poi, senza dire nulla, subito si separarono: ognuno riprese il proprio cammino claudicante e un po' affannato lungo l'abisso della gola. Ma quella breve occhiata fu abbastanza: subito avevano intuito l'uno dell'altro la faccenda della tartaruga fatta a pezzi e quella del1'antenato massacratore: passarono via come due sicari - che non han bisogno di confidarsi per riconoscere, celata in una piega obliqua del loro sguardo, l'ombra della reciproca vergogna. Ma da quell'occhiata così fugace, penetrante e lesta - dicono i fenici - ebbe origine un figlio. Fu l'unico figlio al mondo nato dall'accoppiamento di due uomini, che avevano scambiato i loro sguardi. Poiché non nacque da una donna, questo figlio fu privo di nome. Ma, creatura di due cantori, egli divenne il progenitore di coloro i quali sono muti, o, secondo un'altra versione, di tutte le donne che balbettano. Esiste anche una terza versione, la quale asserisce che nella gola del Tauro c'era un'eco e che il figlio di Ermes e Jubal si accoppiò con l'eco e divenne il padre del silenzio. O del silenzio che circonda la morte, oppure del silenzio in cui sprofonda un uomo quando si trova davanti al vuoto di una donna che vuole da lui essere colmata. Storditi da tale silenzio assoluto, alcuni uomini preferiscono rifuggire da ogni donna, altri coprono il silenzio con la profusione dei gesti e delle parole, altri invece vi si abbandonano del tutto: il silenzio infinito dell'uomo s'immerge nel vuoto abissale della donna e ne nasce allora - musica che discende da quei due primi musici sperduti nella gola - il gemito d'amore. Il tempo dello «iehins» ( origine del singhiozzo) Al principio del VI secolo a.C., per volere del faraone d'Egitto Neco II, alcuni fenici tentarono la prima circrmnavigazione dell' Africa. Partiti dal Mar Rosso, discesero verso l'ignoto, tenendosi vicini alla costa per non smarrirsi; ma questo semplice criterio si rivelò quasi subito arduo da seguire: infatti, poco oltre l'attuale città di Porto Sudan, all'incirca fra Ras Asis e il monte Aroa, la costa svanì in una foschia rossastra e soffoL'uccelltoorcicollo cante. Nel silenzio sfatto della bonaccia, avanzavano su un mare smorto, limaccioso, poco profondo; ovunque scogli puntuti, rossi e neri, e banchi lutulenti, coperti dalle lunghe chiome di alghe vischiose; per di più, particolare sinistro, non un pesce nelle reti. Cominciando già a scarseggiare i viveri, fu con un senso di sollievo che su uno scoglio, l'unico piatto e con un po' d'erba, scorsero alcune ciotole contenenti del cibo: brodo di fave, dal colore verde marrone, denso, cotto da poco tempo; attorno alle ciotole invece - evidentemente per motivi religiosi - stavaGiampiero Comolli allora si nascosero nel buio della stiva e lì, di notte, furono visitati dai morti: erano in cinque, vestiti di verde scuro: pretesero il cibo, dissero loro che in caso contrario gli avrebbero aperto il cranio; i tre tacquero, come infanti ammutoliti. I morti quindi si strinser l'un l'altro e, mostrando il bianco dei denti, emisero in coro un sibilo acutissimo, lancinante, simile alfischio affilato di mille vespe sotto il sole. Sul ponte gli altri intraudirono quello stridore tagliente e si strinsero le tempie fra le mani, perché temevano gli si crepasse il cranio. Poco dopo, dalla stiva volta: dai fenici mangiatori di fave. Ma il primo suono: 'ì' lo emettono tutti coloro che sono afflitti dal singhiozzo e respirano quindi all'indietro. Per questo si crede che il singhiozzo sia il respiro di un morto che alberga dentro di noi». Dimenticare un film: «Megastene in India» Del film su Megastene non ricordo quasi nulla. Megastene era un greco che sotto i Seleucidi - verso il 300 a.C. - era stato inviato ambasciatore in India, presso il re Chandragupta. Il film narrava la storia dei suoi anni passati a PataA RISINNGEWCAUSOEF SEVERE BRAIN DAMAGE: . -~. ~: .. -- • . . . . . • ... ,, NARCOTICS OFFICE.R..S «Una nuova dilagante causa di serio danno al cervello: squadra narcotici» © R. Cobb no alcune piantine di fave, ma con le radici riverse all'aria e gli steli confitti nella poca terra dello scoglio. Quel luogo era certo un punto d'appoggio e di rifornimento per gli invisibili abitanti di quella costa fosca e inafferrabile, ma senza farsi troppi scrupoli i fenici divorarono il brodo, portarono addirittura sulle navi alcune ciotole. Risero. Ripresero la rotta. All'imbrunire, su una piroga affilata e rudimentale, si fece loro incontro un aborigeno. Segaligno, con sbaffi verdastri dipinti sulla pelle, la bocca atteggiata a disgusto e indifferenza, costui notò le ciotole: senza scomporsi, fece loro capire che avevano mangiato il cibo dei morti: fave destinate al pasto dei defunti, i quali a notte, arrampicandosi lungo gli steli delle piantine, salivano dal fondo della baia per riassaporare il cibo dei vivi. Quella notte, aggiunse l'indigeno, i morti avrebbero preteso dai fenici le fave sottratte col sacrilegio. In preda allo sgomento, quelli lo cacciarono insieme alle ciotole maltolte, poi si sporsero dalle murate cercando di vomitare. Vi riuscirono tutti, tranne tre. Costoro emersero i tre: avevano il capo aperto dalla nuca agli occhi; camminando all'indietro, si sedettero senza dire nulla ai piedi dell'albero; dalla fenditura - rossa ai lati e nerissima sul fondo - usciva sibilando un odor di fave. Sempre muti e digiuni, per tre anni - quanti ne durò il periplo dell'Africa - rimasero acquattati come piante a ridosso dell'albero, il viso torto tutto indietro, mentre l'odore sibilante delle fave accompagnava i fenici sulla loro rotta. Tornati in Egitto, per volere dei sacerdoti i tre marinai col cranio aperto vennero sepolti vivi nella sabbia; gli altri reduci sino alla fine della loro vita furono perseguitati dal singhiozzo. Tre secoli più tardi, ad Alessandria, l'anonimo autore di un trattato di musica alludeva in questo modo all'impresa dei fenici: «Esiste inoltre un suono infero, che è poi l'anti-suono del mondo. Esso può trascriversi così: 'iieehiiins' o 'iehins'. Chi lo pronunciasse per intero, invertirebbe il corso del tempo e, ribaltandole, farebbe tornare indietro le cose: dalla morte fino al rovescio della vita. Lo 'iehins' fu udito una sola liputra, la città sul Gange oggi chiamata Patna. Ma è un solo episodio quello che ora mi torna in mente. Megastene un giorno veniva a sapere dal re che alla foce del fiume Mahanadi, nell'India centrale, c'era una spiaggia sacra al sole, lungo la quale nessun essere gettava più la propria ombra. Nell'udire ciò era stato preso dalla nostalgia, perché anche ,laggiù in Grecia esisteva un luogo simile: era in Arcadia, sul monte Liceo, dove si diceva fosse nato Zeus. Sulla cima vi era un recinto consacrato al dio e al cui interno non erano più visibili le ombre dei devoti. Ed ora Megastene, perso nei ricordi della patria lontana, vagheggiava di raggiungere quel santuario sul Mahanadi, sperava di ritrovare in questo modo il sapore della Grecia. Rammento che lo si vedeva passeggiare per le vie di Pataliputra, carezzando il progetto di quel viaggio. Vestito della sua tunica bianca, si soffermava ad ammirare le donne nei sari colorati, si affacciava al parapetto sul Gange, si faceva ombra col flabello, chiedeva qualcosa da bere sotto i portici - e intanto riandava con la memoria al bel sentiero, ombreggiato dalle querce, che saliva verso il monte Liceo. Aveva il fare assorto di un uomo moderno, gentile e malinconico. E ciò che risultava commovente, nel film, era appunto questo contrasto ingenuo e patetico fra le sue convinzioni di uomo antico - che ritiene ammissibile e ragguardevole si possa perdere la propria ombra - e quel suo modo di passeggiare sul lungofiume guardando e ricordando, così simile a quello di un uomo pensoso dei nostri giorni. Dimenticare un film: «Il ventriloquo di Punt» All'inizio ci si trovava in un ambiente buio, una specie di sotterraneo dove baluginavano delle figure bianche, protese in avanti, nella posa di chi sta ascoltando: dalla zona più oscura del luogo, infatti, giungeva un dialogo fra due voci, una maschile, l'altra femminile. Parlavano una lingua secca, smozzicata, lamentosa, del tutto incomprensibile; si coglievano tuttavia le intonazioni del discorso: c'erano delle domande, dei momenti di perplessità, e poi noia, mugugni, beffardo divertimento. Ma ciò che risultava intollerabile era il timbro aspro, ferino, rivoltante, di tali voci: come se un rospo e una gatta pronunciassero parole umane dal fondo delle loro fauci. Uno stridore gracchiante, umiliante e obbrobrioso, che faceva raggelare gli ascoltatori avvolti nei loro lenzuoli bianchi. Mentre il dialogo mostruoso si dipanava, l'ambiente si era andato illuminando a poco a poco: si capiva allora che quello era il sacrario di un tempio, coi sacerdoti in posa ieratica attorno a un sarcofago dotato di una finestrina quadrata e nera, da cui provenivano le voci. Questa dunque era la prima scena del film. Poi - ma ho dimenticato come - si veniva a sapere che la vicenda si svolgeva nel favoloso regno di Punt, sulle coste dell'Arabia meridionale. Laggiù, la moglie del re si era accoppiata un giorno con un pesce del deserto, che albergava sul fondo dei fossi nelle oasi, e aveva così generato un figlio prodigioso: un ventriloquo, capace di ripescare e riprodurre i suoni sprofondati per sempre nel pozzo del passato: sdraiato sul dorso in un sarcofago del tempio, faceva vibrare nelle viscere il dialogo fatale con cui la prima coppia divina - il dio Oceano e la dea Notte - aveva stabilito di dar vita agli uomini. Poter ascoltare quelle parole originarie - le prime che fossero mai risuonate al mondo - era cosa che riempieva di sgomento e di sacra meraviglia. Perciò la fama del ventriloquo di Punt era giunta fino in Egitto, alla corte del faraone Merenre. E da lì il faraone aveva inviato il nomarca di Elefantina, il nobile Harkhuf, affinché gli portasse da Punt quell'uomo che custodiva nel ventre l'inizio del mondo. Il film dunque narrava prima la storia del ventriloquo a Punt, poi quella della spedizione di Harkhuf; ma di tutte queste vicende ricordo solo due scene. Nella prima il ventriloquo lasciava Punt, per imbarcarsi sulla nave degli egizi. Lo spettacolo era stupefacente. Attorniato dai dignitari e dai sacerdoti, fra la folla, i templi, gli emblemi degli dei, campeggiava il ventriloquo: era un

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