Alfabeta - anno IX - n. 98/99 - lug./ago. 1987

ripreso una posmone che si potrebbe definire neo-moderna, neo-critica, rispetto alla società così come oggi ci è data. Questi artisti attraversano quella che viene definita con un termine forse un po' oscuro ma significativo, l'«utopia negativa», si mettono in opposizione a quella che è la situazione della società contemporanea ormai su scala planetaria. Ci troviamo di fronte a problemi enormi che gli artisti finalmente hanno ripreso ad affrontare: la bomba, il nucleare, l'inquinamento, l'apocalisse chimica, ecc. Quindi un neo-moderno critico. Per avventurarsi lungo questa via, è chiaro che gli artisti debbono assolutamente rinunciare - e lo hanno fatto- a quell'idea di avanguardia catastrofica, catastrofale, auto-distruttiva, emarginata, che è stata appunto di Adorno e che Leonetti ha evocato quando ha detto: «Il nostro catastrofismo non è certo più quello di Adorno». Bisogna assolutamente cercare un ponte - che chiamo comunicazione - tra l'artista e la società, proprio perché senza questo ponte non è neppure possibile un neomoderno critico. In quest'ambito risulta molto evidente il ritorno al progetto, che riguarda direttamente il campo della poesia italiana - e poi darò alcuni esempi; ma il ritorno al progetto è epocale, non nasce con la poesia, non nasce con la narrativa, non nasce con le arti figurative, nasce nella situazione storica che stiamo attraversando, e tentando di vivere, e di agire, rifiutando di essere agiti. È necessario progettare un altro modo di sviluppo - chiamiamolo così; come è realmente necessario riprogettare le città. Ci si riallaccia subito, direttamente, all'architettura - che pure è stata la madre del post-moderno - perché da circa sei, sette mesi in tutta Europa si stanno presentando nuovi, grandi progetti urbanistici. L'architettura sembrava aver dimenticato l'idea di progetto globale e lo sta recuperando. Riprogettare anche solo parti di nuove città significa già pensare a una nuova cultura. Il decentramento dell'industria manifatturiera e la sua parziale crisi hanno reso disponibili nelle grandi città aree enormi, alle quali si può pensare per un nuovo modo di vivere. Ecco il ritorno del progetto. Faccio un solo esempio, quello di Milano. Milano nel dopoguerra aveva disponibili 500 ettari distrutti, oggi gli ettari disponibili sono 400: una rivoluzione possibile. C'è il Progetto Bicocca, ha già avuto un esito - almeno dal punto di vista del concorso internazionale - positivo, e adesso si aspetta il via della politica. E torniamo alla poesia, direttamente; perché in questi anni ottanta il ritorno del progetto nella poesia è molto evidente, anche nei poeti più giovani, che non si limitano a raccogliere, a mettere insieme pacchetti di versi, ma costruiscono libri che hanno una loro precisa architettura, un'architettura in opposizione alle ideologie dominanti. Farò poi alcuni esempi, ma desidero anche premettere che in questo momento, nella seconda metà degli anni ottanta, mi sembra difficile, se non impossibile, comunque improduttivo, praticare un discorso generazionale. Se è vero - come credo sia vero - che è in atto un ritorno al progetto, questo deve essere per forza sostenuto dalla memoria del nuovo, dalla tradizione del nuovo. Ecco allora che assistiamo - con una certa sorpresa, ma con molto piacere - alla recentissima e auspicata rivalutazione di un poeta come Edoardo Cacciatore che ha fatto del progetto, con un forte sostegno metrico, lo scopo di tutta la sua poesia. Cacciatore è un poeta che ha cercato durante tutta la sua vita (e lo dimostra in questo suo ultimo libro La puntura dell'assillo e la ristampa di Graduali) questo ponte, questa forma di comunicazione con una società possibile. Lo stesso si può dire per un poeta come Caproni. Giorgio Caproni era un poeta, se mi permettete, un po' disperso e vagante, almeno ai miei occhi. Poi ha cominciato a costruire libri di un certo tipo. L'ultimo - mi limito a parlare dell'ultimo, Il conte di Kevenmii.ller - è tutto legato assieme da una cornice-forma, la forma «operetta». È un progetto molto preciso, molto coerente, portato avanti con estremo rigore. Direi che quello di Caproni è un progetto in senso stretto, perché - direi - è difficile individuare il vero tema de Il conte di Kevenmii.ller. Il suo messaggio, secondo me, è proprio la forma «operetta», che sposta i grandi problemi della metafisica contemporanea in un'area giocosa e cantabile. Restiamo al concetto di «forma». Sono due, mi pare, le tendenze dominanti in questo momento. Riscoperta pratica della forma chiusa - e diciamo che Cacciatore è in questa linea - e dall'altra pratica, ancora, della forma aperta, della forma ritmica. Fra i protagonisti della forma chiusa farei due nomi, senza la pretesa di delineare un 'antologia della poesia degli anni ottanta. Propongo solo alcuni esempi, non delle esclusioni. Fra i più giovani vale il nome di Patrizia Valduga, che con Le tentazioni ha recuperato la terzina dantesca in un poemetto in dieci cantiche, fondendo due progetti contemporaneamente, uno - diciamo - di microstruttura, uno di macrostruttura; l'altro esempio è quello di Giovanni Giudici: il suo ultimo libro, Salutz, è addirittura geometrico, le simmetrie che disegnano questo libro sono il suo «contenuto» più interessante; la sua chiusura diventa allegorica. Il recupero da parte di Giudici di una poesia pre-stilnovistica è altrettanto interessante, perché comunica il rifiuto della categoria «tempo», così come ci viene proposta in pazzesca accelerazione dalla società contemporanea. L'opposizione di Giudici, come di altri - posso rimandare a un mio scritto abbastanza recente (Opposizioni, «Alfabeta», n. 93, 1987) - consiste nel fingere che la società contemporanea non esista. È una forma di opposizione radicale. Altra forma praticata - diciamo chiusa-aperta, ma diciamo più aperta che chiusa, più narrativa, molto interessante di questi anni, e che ripropone la memoria anche di un certo filone del moderno - è senza dubbio la forma «poemetto». La forma «poemetto» ha di nuovo esiti sorprendenti e ci riporta alla memoria - insisto su questo termine di memoria del moderno - lo sperimentalismo degli anni cinquanta. Per esempio, Paolo Volponi con Testo a fronte, per esempio Francesco Leonetti con Palla di filo, segnatamente Balcone con vista sul mistero: sono tutti poemetti che tentano di raccontare l'avventura della mente che osserva l'universo con occhio assolutamente nuovo. Sottolineo: con occhio assolutamente nuovo, cioè non più condizionato. La critica di Volponi e di Leonetti è preventiva, analoga a quella degli artisti che quest'anno andremo a vedere a Kassel. Come esempio di poeti affermatisi negli anni ottanta che si sono radicalmente convertiti a forma diversa vorrei citare: Nanni Cagnone. Nanni Cagnone ha scritto un poemetto di estremo interesse, Vaticinio, caratterizzato da una forte volontà di progetto sul versante della comunicazione. Un'altra forma che, ancora su questo versante, mi ha interessato recentemente è quella del «diario». La forma «diario» - ho parlato soprattutto di Canzonette mortali di Giovanni Raboni - non ha nulla a che vedere con l'ipertrofismo della soggettività, non fa gridare l'Io, ma lo tiene molto abbassato e obbedisce a un tipo di progetto che si delinea nel tentativo di trovare nel linguaggio del quotidiano un'interpretazione adeguata, non comune e neppure supersoggettiva; nel caso di Giovanni Raboni l'unità della forma «diario» è conseguita con un'idea antica e nuova: quella di parlarci da un punto di vista che sta al di là della morte, di scrivere come se la morte degli amanti protagonisti fosse già accaduta. • Altri esempi di opere: Cesare Viviani, con Merisi, ha raggiunto uno scopo che a me è sembrato molto preciso: toccare con il linguaggio un'idea di bellezza. Viviani non si è arreso al catastrofismo, ma pensa di ritrovare, con il lin- © R. Cobb guaggio della poesia un suo linguaggio molto tagliato, molto stratificato - una possibile unitaria bellezza dell'esistere. Il progetto, realizzato, a me pare chiaro. Donna del gioco, di Maurizio Cucchi, mi è parso una sorta di sottolineatura - ma senza grida, senza ipertrofismi - dell'eroismo del privato, dell'eroismo di sentirsi e di essere soli, dell'eroismo della prova quotidiana, con una pronuncia, però, forte. Sarebbe un errore considerare la scrittura di Cucchi fragile o crepuscolare: se si legge bene questo libro, Donna del gioco, si vede che questa pronuncia privata è così forte da poter delineare una figura complessiva rispetto al progetto di cui dicevo: fare uscire l'eroismo quotidiano allo scoperto. Ancora una citazione, Valerio Magrelli, anche perché mi è parso che in tutti questi anni abbia seguito un suo preciso progetto di geometrie, con Nature e venature, che raccoglie le poesie dopo Ora, serrata, retina che è stata la sua opera prima. Ma vorrei ribadire per concludere rapidamente che se il neomoderno è legato al recupero e alla memoria del moderno e mi pare che questo sia indubitabile - hanno molta importanza, proprio in questi ultimissimi anni, alcune riletture; e ne cito due che mi paiono fondamentali: quella di Delio Tessa - vi inviterei a rileggere Di là dal mur, un poemetto che anticipa tranquillamente Céline, e quello di Clemente Rebora. Infine un omaggio a Elio Pagliarani, che è qui presente, perché il suo ultimo libro, il pur esile Esercizi platonici, risponde a un autentico progetto di attività mentale, di poesia mentale che si mostra nel suo farsi, molto preciso, molto mirato, che ha qualche cosa di curiosamente - e forse non curiosamente - affine con gli esercizi di geometria non-euclidea di Valerio Magrelli.

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