L, aneddoto che vorrei ricordare viene ripreso da Martin Heidegger nella Lettera sull'umanismo (1946). Esso riguarda Eraclito e ci è stato raccontato e tramandato da Aristotele. Dato il momento dell'anno in cui ci troviamo, dovremmo forse alterare il racconto e immaginare il filosofo Eraclito nella sua casa intento a farsi vento per alleviare il caldo anziché assorto - come ce lo saremmo aspettati - in una profonda meditazione sul divenire di tutte le cose. I visitatori stranieri sorprendono invece il grande pensatore mentre sta scaldandosi accanto a un forno di quelli che servono per cuocere il pane: una scenetta banale e quotidiana. Più che sorprendere Eraclito, questi visitatori rimangono sorpresi loro. stessi, insomma delusi. La cultura spettacolo è una faccenda molto antica, e possiamo anche tranquillamente immaginare che questi turisti, che volevano vedere un filosofo vero almeno una volta nella vita, avessero programmato la visita con grande anticipo, insistito perché Eraclito si facesse vedere da loro, affrontato spese e sacrifici, magari un lungo viaggio; e che nel tempo non breve di tutti questi preparativi la loro attesa fosse cresciuta e l'idea già un po' mitica del filosofo che avevano in mente all'inizio fosse diventata via via sempre più mitica e irreale. Eccoli finalmente che varcano la soglia austera della casa del pensiero: ma come? Il grande Eraclito non può essere quel comunissimo personaggio che sta scaldandosi accanto al fuoco! Una lezione di umiltà. Questo aneddoto sembra il rovescio di un altro che ha come prot;igonisti Talete e una servetta tracia e sul quale Hans Blumenberg ha costruito una delle sue affascinanti ricerche di storia delle metafore. Talete, tutto preso dal cielo che sta scrutando, non guarda dove mette i piedi, cade in una buca e di fronte al capitombolo la servetta tracia non ce la fa a trattenere il riso. Forse i visitatori di Eraclito se lo aspettano proprio mentre interroga le profondità del cielo e non si cura delle banali faccende terrestri; e probabilmente, in un caso analogo, avrebbero fatto finta di non vedere la caduta del filosofo o lanciata un'occhiata severa alla servetta intemperante e un po' blasfema. Ma non si tratta soltanto di una lezione di umiltà: e infatti Eraclito, accortosi dello sbigottiL'etica un quasi nulla Elogiocltlmnpudore mento dei suoi ospiti, li ripaga del viaggio e delle fatiche con questa frase: «Anche qui gli dei sono presenti». Noi non conosciamo lo stato d'animo con cui i visitatori se ne tornarono indietro: se semplicemente gratificati dal fatto che il filosofo aveva loro riservato alcune parole alquanto enigmatiche (da raccontare agli amici a conferma del luogo comune che i filosofi sono bizzarri e imprevedibili), oppure illuminati e quindi un po' sgonfiati dal senso della frase che intendeva colpire proprio la loro sorpresa. Heidegger ci fa riconsiderare questo stato d'animo e ci avverte che a suo parere qui è precisamente in gioco quel qualche cosa che noi seguitiamo a chiamare etica. Etica ha a che fare con il termine greco ethos e Heidegger traduce ethos non tanto con «carattere proprio dell'uomo» ma con «soggiorno», «luogo dove si abita», la. «regione aperta in cui l'uomo abita». E interpreta il frammento di Eraclito in cui si legge «ethos anthropo daimon» con «l'uomo abita in prossimità del dio». Questa interpretazione equivale alle parole dell'aneddoto: «anche qui gli dei sono presenti». L'etica è un abitare, un «abitare poetico», come insiste a dire Heidegger richiamando spesso un verso di Holderlin. Il che mette in causa tutto quanto il suo pensiero dopo Essere e tempo: è raro trovare in lui dei riferimenti diretti all'etica, e in generale la cnttca accentua poco questo aspetto, ma quando ci sono, come in questo caso, essi si rivelano decisivi. Ciò ci permette di costruire legittimamente e utilmente un ponte tra Heidegger e Lévinas, che, pure, dando preminenza all'etica sembra lontanissimo e anche avverso a quello che è stato uno dei suoi maestri filosofici; e ci permette inoltre di collegare Heidegger con Jankélévitch, il quale ultimo è sempre stato nettamente anti-heideggeriano. Questo ponte è utile perché accomuna, almeno in alcuni tratti fondamentali, un . orizzonte di discorso che diventa sempre più attuale per noi: la crescente importanza del punto di vista etico, la necessità di una ridefinizione di questo punto di vista al di fuori di ogni formalismo e anche al di là di ogni ritrovato canone razionalistico, la constatazione che non solo l'etica non ha alcun determinato contenuto positivo ma che addirittura è assimilabile a un «quasi nulla», secondo l'espressione usata da Jankélévitch. Q uella che Heidegger, riprendendo il motto di Eraclito, considera una condizione di «prossimità» ai «divini», è separata da un sottilissimo velo dalla condizione abituale, inautentica, dell'uomo: effettivamente un quasi nulla distingue l'atteggiamento di Eraclito nell'aneddoto da una pratica anonima e qualunque. La vicinanza nel senso spaziale, ovvio, del termine e la prossimità alle cose esemplificata da Eraclito sembra si differenzino solo per una tonalità etica: ma questa piccola, quasi impercettibile, differenza porta con sé un grande rivolgimento, una modificazione radicale dello sguardo e dell'atteggiamento. Possiamo chiamare questa tonalità etica con il nome di «pudore». Lévinas parla di «pazienza» o di «passività» di fronte all'«altro». Per Jankélévitch, che ritorna continuamente sul pudore, esso è innanzi tutto «il rispetto di un mistero». Per Heidegger l'abitare in quanto pudore è aver cura, salvaguardare, proteggere, attendere, affidarsi. La prossimità di Eraclito al forno presso cui si scalda è allora un rapporto non misurabile con il metro dei nostri saperi scientifici e neppure con quello della professionalità filosofica. È qualcosa come un affidarsi e al tempo stesso un tenersi in disparte: un riconoscere una priorità alle cose e all'evento, un rispettare nelle cose la dimensione di ciò che non è conoscibile (i «divini» nel linguaggio di Heidegger), un avvicinarsi che paradossalmente equivale a un tenere la distanza. Il rivolgimento che questo quasi nulla comporta è la capacità di «sospendere» (e qui è proprio il caso di ricorrere al termine fenomenologico) il nostro modo abituale di stare dentro l'esperienza quotidiana, un modo che è caratterizzato dal contrario del pudore: dalla padronanza che crediamo di avere sulle cose o anche dall'inconsapevole prevalere di un rapporto di «conoscenza» e di «utilizzabilità». Se il sapere e il padroneggiare attraverso i saperi orientano già, senza bisogno che progettiamo questo orientamento, la nostra comune esperienza, il rivolgimento etico non sarà l'invenzione di un altro sapere da allineare a quelli operanti, bensì la possibilità di sospendere o di scalfire una tale padronanza. È la messa in atto di un indebolimento o di un allentamento della rete di saperi entro cui siamo già sempre catturati: che non significa negare l'efficacia o l'importanza del sapere, ma rivendicare al nostro «abitare» una precedenza e una diversità. Da questa prospettiva Heidegger, Lévinas e Jankélévitch procedono lungo un medesimo cammino; e non solo questi tre pensatori, ma un intero fronte del pensiero contemporaneo che magari non parla neppure in modo esplicito di etica ma egualmente punta a un analogo scarto o modificazione del nostro atteggiarci rispetto alle cose. Nella stessa Lettera sull'umanismo troviamo molte indicazioni preziose in proposito, e una soprattutto vale la pena - a mio parere - di evidenziare: quando Heidegger dice che occorre, non salire, ma discendere verso la prossi- .ea,·1 r«talogur't• e R. c.obb mità. La discesa ha a che fare con un «meno» ed è assai più pericolosa della salita. Eraclito che si scalda, anziché cogitare come farebbe Cartesio, realizza una rischiosa «diminuzione». Cosa può significare? Forse lo comprendiamo se pensiamo che il salii;e, il superare, l'andare al di sopra, si dà a noi solitamente in termini di accrescimento, arricchimento, maggiore quantità di sapere. Questo «progresso» per accrescimento è sotto gli occhi: ma quanto è legato alla «povertà» della nostra epoca? Il pudore, il passo indietro, l'introduzione di un «meno», si assumono il rischio di togliere legittimità alla catena e di guadagnare una distanza critica in cui riconoscere un'altra idea di uomo (ed è questo - al di là di ogni equivoco - lo scopo di Heidegger) che non sia l'effetto della medesima catena. Bergson aveva intuito questa arte del «meno» di fronte alla quantificazione della psiche: e i bergsoniani Lévinas e Jankélévitch hanno alimentato un'etica della diminuzione. Il pudore di Heidegger si spinge fino a sospettare dell'etica stessa che può subito diventare una forma privilegiata di sapere. Si limita a dire «abitare» e a indicare una sorta di spazio metaforico in cui la stessa nozione di «essere» non sarà più propriamente di ca&a. · Credo che l'indicazione di Heidegger debba essere ripresa e riconsiderata. Anche al di là della «seriosità» alquanto unilaterale con cui egli continua a vedere l'atteggiamento che sta additandoci. Il pudore confina con l'ironia, come ha ricordato Jankélévitch: il ritrarsi che intacca la padronanza del sapere, o che comunque ci permette per un momento di guardare le cose sotto tutt'altra luce, è al tempo stesso l'affidarsi a una zona mobile, appunto rischiosa. È come se, attraverso il pudore, vedessimo bene il quasi nulla che distingue una scena opaca da una scena abitata dagli dei e introducessimo allora una cautela ulteriore: non far conto, non essere rassicurati, non far diventare «seria» e stabile una condizione che assomiglia piuttosto a un momento (mai fissabile) di squilibrio. L'etica potrebbe allora essere l'esercizio senza rete di protezione grazie al quale possiamo tentare ogni momento di rinnovare questa condizion~ di squilibrio.
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