Alfabeta - anno IX - n. 98/99 - lug./ago. 1987

Senegala,gi.r@tenrri itoriale Angelo Turco Geografie della complessità in Africa - Interpretando il Senegal Milano, Ed. Unicopli, 1986 pp. 406, lire 38.000 Vincenzo Vagaggini Le nuove geografie Genova-Ivrea, Herodote, 1982 pp. 386, lire 26.000 Giuseppe Dematteis Le metafore della terra Milano, Feltrinelli, 1985 pp. 184, lire 22.000 La sfida della complessità A cura di G. Bocchi e M. Ceruti Milano, Feltrinelli, 1986 pp. 435, lire 42.000 L a mappa della ricerca e degli indirizzi della geografia si è progressivamente infittita e complicata: così, dopo la «rivoluzione quantitativa» si parla ora di geografie: qui, come altrove, il pluralismo teorico si è affermato dopo la crisi di una visione immobile e neutra della geografia-scienza della terra, sempre uguale a se stessa. Vincenzo Vagaggini dà appunto il titolo di Le nuove geografie al suo esame-trattato dei molteplici apparati discorsivi che mirano a imporre il proprio paradigma, in competizione, ciascuno con le proprie ragioni e le proprie strategie di legittimazione. Ne risulta la ricchezza nuova dell'approccio geografico che con consapevolezza apre su insospettate dimensioni e moltiplica gli sguardi sul mondo. E insieme risulta, per così dire, un «eccesso», una sovrabbondanza teorica, concettuale, metodologica: l'eclettismo metodologico, così lo indica lo stesso Vagaggini, caratterizza la maggior parte dei geografi. Il rischio - mi sembra, qui come altrove - è quello di universi chiusi e contrapposti invece che in relazione, è quello di una pluralità che di sé non sappia dare ragione e rischi la frammentarietà e il metodologismo fine a se stesso. E non possiamo dimenticare che Dematteis ci avverte del carattere strategico della geografia nel sapere e nel potere, proprio analizzando l'apparente neutralità della carta, della rappresentazione con le sue «metafore della terra». E tuttavia da questa pluralità è possibile che si diano interpretazioni nuove e sorprendenti che portano le nuove acquisizioni metodologiche sul piano operativo di una rilettura problematica della realtà. Mi interessa allora che le geografie della complessità proposte da Angelo Turco si pongano come strumento di un ripensamento delle strategie territoriali in Africa: anzi come nuova geografia africana, nello studio esemplare del Senegal. Si dia cioè un nuovo modo di guardare i problemi del Terzo Mondo e quindi la «complessità» da categoria metodologica acquisisca il senso di strategia utile a definire la territorializzazione in una epistemologia costruttivistica che scarta la colpa occidentale, non perché essa non ci sia e pesante anche, ma perché la realtà nuova del Terzo Mondo e dell'impero è più articolata e complessa appunto e impone una progettualità nuova. La categoria della complessità acquisisce allora fortunatamente un proprio statuto epistemologico specifico nel momento in cui ridefinisce, in relazione alla territorialità, i problemi della progettazione sociale e politica. E non è solo, come osserva Isabelle Stengers, (Perché non può esserci un paradigma della complessità, nel volume collettivo La sfida della complessità) con rigore e ragione, nell'economia di un accertamento pluridisciplinare come quello condotto nel volume collettivo, perché qui la categoria della complessità definisce piuttosto una visione della realtà e quindi è un discorso a proposito della scienza, il risveglio di un problema, una presa di coscienza. Forse è proprio perciò che accanto alla discutibilità epistemologica di una categoria tanto vasta, c'è un suo innegabile fascino perché rimanda a un approfondimento del dialogo con l'universo, utilizzando le scienze biologiche e sistemiche in un'ottica di transdisciplinarità. Nell'analisi invece condotta da Angelo Turco la complessità diviene categoria portante di un ripensamento dell'azione internazionale in Africa in un nodo..cruciale - e per certi versi mitico nella sua esperienza di «socialismo» terzomondista, nei suoi nessi con la «negritude» - nella figura stessa di Senghor - o oggi drammaticamente presente invece con gli spettri della fame, della siccità, della desertificazione e quindi della violenza. Ora, siccità e desertificazione appaiono come aggravanti - ci dice Angelo Turco - sintomatici di un uso territoriale. Stanno lì a dirci che una gestione economica delle risorse separata da quella sociale dei geosistemi produce crisi ecologica, così mi sembra, si debba dire. È utile allora un «pensiero multidimensionale» (Dorio) che mostra l'inerenza a un'unica realtà di più discipline per cogliere il senso di questo nodo cruciale. Ma soprattutto, mi pare, interessa a Angelo Turco una nozione di complessità che non sia della natura, ma una proprietà del sistema (Jean Louis Le Moigne), del modello progettato e costruito. E tuttavia, dal mio punto di vista, ciò che mi appare veramente importante è piuttosto il nesso complessità-territorializzazione, costruito e proposto da Angelo Turco con conseguenze non solo inerenti all'analisi concreta del caso senegalese, ma con risonanze epistemologiche generali a partire dal ritrovamento del territorio come ambiente materiale modellato in verticale nella sua struttura dalle forze politiche e in orizzontale dalle forze sociali; e spesso l'intreccio non è tra i più felici. Così Angelo Turco assume la geografia della complessità come occhio esterno che descrive ed evidenzia discontinuità e nessi stratificati sul territorio africano. Ora la territorializzazione è la forma geografica della complessificazione, è il prodotto dell'uomo che si muove e abita, che usa le risorse, dissemina le sue tracce e quindi crea civiltà e cultura. L'agire territoriale è una forma specifica, particolare dell'agire sociale che attiva e governa i meccanismi che creano e selezionano la complessità del territorio. È l'agire che produce «complessificazione»: l'accertamento della complessità originaria delinea dunque il campo delle possibilità, dei possibili contenuti, permette di scegliere e quindi di realizzare l'autonomia dell'agire (p. 10). La concezione è quella di una natura che non è data, ma che si fa (p. 45): e il percorso è quello di una natura che da generatrice di relazioni deterministiche si fa generatrice di relazioni aleatorie (p. 45). Lo spazio è «ambiente» per il suo carattere di «processo», che genera complessità, autonomia. L'agire territoriale si configura allora nei termini della crescita di complessità di un ambiente; apre su nuove possibilità di scelta, moltiplica le relazioni, aumenta l'aleatorietà. È questo agire territoriale nella sua qualità di complessificatore che interessa a Angelo Turco: perché non basta attuare una complessità, bisogna consolidarla: l'immissione di complessità è anche selezione e soprattutto un eccesso di complessità crea indeterminatezza e impossibilità di controllo; è fattore di crisi con conseguenze che possono allora diventare pericolosamente catastrofiche. Mi interessa in questa proposta analitica che il territorio venga letto come realtà ambientale umana in cui non è possibile separare i rapporti ecologici da quelli sociali e culturali. Quindi le civiltà vengono lette sul suolo, perché in esso si materializzano, creando una propria sfera spazio-temporale destinata a durare. E mi interessa quindi che la stessa geografia - come anche ha mostrato con strumenti diversi Dematteis svolgendo una delle tesi centrali della nuova geografia - venga intesa come produttrice del territorio perché non rappresenta la terra, ma le strutture della socializzazione. Rappresenta, mi sembra sia giusto dire, il modo in cui le società abitano la terra, la manipolano e la rappresentano. Per questo le immagini del territorio sono indizi straordinari dei diversi modi dell'abitare e in queste immagini o rappresentazioni, nella nominazione territoriale, le comunità si dicono e gli individui si identificano come membri di una comunità. È in ciò anche l'importanza strategica della geografia nelle dinamiche della colonizzazione del territorio. Accanto alla geografia scientifica appare la pratica geografica che differenzia le varie civiltà. E la diversità delle civiltà si manifesta come pratiche diverse appunto dell'uso e della nominazione del territorio, quindi della sua stessa rappresentazione. Ne emerge un uso della geografia come storia di civiltà e il rilievo importante che una nuova società è una nuova geografia. E a me pare che, strutturando e pensando una storia per la geografia, si continui quel percorso che ha scritto e voluto una geografia per la storia all'inizio della riformulazione metodologica della geografia. Qui infatti la storia vi appare come organizzatrice territoriale, viene riportata e, materializzata nel territorio. Tre categorie dunque definiscono l'agire territoriale e costituiscono i segmenti della produzione del territorio: la denominazione, la reificazione, la strutturazione. La denominazione, che dà il nome alle cose e descrive il territorio, dice le strutture cognitive ed è l'atto con cui ci si appropria degli attributi spazio-territoriali. La reificazione è la trasformazione di una materialità naturale in un'altra costruita. La strutturazione a sua volta ritaglia nel territorio i campi operativi e costituisce i caratteri peculiari di una società, è un «artefatto», composto di artefatti. Così l'accertamento parte dallo specifico spazio senegalese, dalla sua forma, dalla sua posizione, dalla geologia, dalla morfologia, dal clima: qui in questa.materialità si instaura il processo della complessità e lo spazio diviene territorio. Si passa quindi da una complessità materiale originaria che fornisce i livelli minimi di autonomia degli attori, gli uomini, appunto, le loro civiltà: è un agente attivo esso stesso perché in questa materialità originaria sono presenti suggestioni, suggerimenti di itinerari. I tre segmenti dell'agire territoriale vengono usati per leggere i modi in cui si materializzano sul suolo le tre civiltà che hanno segnato la storia del Senegal, quella africana, nomadica, dell'allevamento, quella del villaggio e della famiglia estesa e del miglio; quella islamica con la sua peculiarità maraboutica dei capi carismatici, dei contadini wolof, con i percorsi di purificazione e l'etica del lavoro nella via murid; quella infine della colonizzazione francese che ha saputo ben utilizzare l'islamismo nero. Le pagine che mi sono parse più intense teoreticamente e più suggestive sono quelle che descrivono la specificità della denominazione africana originaria con la sua diversità e i suoi «vuoti» e il suo EDUCATJON. - - .. ••• • • «Educazione»© R. Cobb •

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