Alfabeta - anno IX - n. 98/99 - lug./ago. 1987

Cfr. Schede Fantasmidi carta Paolo Bertetto In un'epoca di saturazione del narrativo come la nostra, raccontare una storia, inventare dell'immaginario, significa avventurarsi in un territorio in cui l'immaginazione (letteraria) non incontra soltanto i propri fantasmi, ma anche, e soprattutto, i residui dell'immaginazione stratificata del tempo e le concrezioni della letteratura già realizzata. In genere lo scrittore cancella (o stempera) i riferimenti letterari, nasconde i personaggi romanzeschi che lo ossessionano, cerca di attestare l'autonomia della propria creazione. In Fantasmi di carta Massimo Romano fa esattamente il contrario: palesa la centralità della letteratura nel suo mondo fantastico, il carattere metaletterario della sua invenzione, costruisce una dimensione in cui personaggi di romanzi famosi e situazioni di racconti si mescolano con le figure e i luoghi elaborati dall'autore stesso. Così la dama di picche, il diavolo zoppo, i topoi del romanzo popolare ottocentesco, da Dickens a Sue, o la trama stessa de Il trafugatore di salme di Stevenson si intrecciano con lo sviluppo di una storia che parte dalla Torino magica, evoca una setta misteriosa che vuole salvare il mondo dai veleni della letteratura, per inseguire un romanzo da scrivere e un amore non consumato. Poi, naturalmente, nel mondo iperfittizio creato da Romano l'esperimento metaletterario si trasforma lentamente in conte philosophique e l'azione narrata smarrisce i contorni del reale per diventare un apologo sulla persistenza della letteratura. E così, nel romanzo, più che il gioco non nuovo del fantastico e dell'improbabile, più che la trama del misterioso, contano proprio l'ossessione incontrollabile del letterario, la coazione a pensare l'esistente come una dimensione attraversata e forse dominata dalla letteratura, l'idea di una realtà non solo abitata ma strutturata, agita da fantasmi di carta. In questa luce diventa logico anche il ricorso a uno stile molto elaborato, ma forse, a volte, troppo «rotondo» e «smaltato»: la letterarietà domina ogni articolazione del mondo romanzesco di Romano, è la sua essenza medesima. Massimo Romano Fantasmidi carta Pordenone, Ed. Studio Tesi, 1986 pp. 128, lire 12.500 Bibliografia per Montale Maria Antonietta Grignani Tra i poeti italiani del Novecento M~ntale è sicuramente il più frequentato dalla critica: per convincersene basta scorrere la bibliografia allestita da Marco Forti nell'edizione aggiornata, rispetto alla prima del 1976, del suo Per conoscere 'Montale oppure, meglio ancora, quella ripulita dagli articoli di giornale, spesso celebrativi e pletorici, che lo stesso Forti premette all'antologia delle Poesie scelte. Molti e robusti gli studi di impianto tematico, stilistico, metrico o semiotico, molti i volumi, alcuni dei quali dovuti a valentissimi studiosi stranieri. A quanto pare «per conoscere Montale» occorre un bel po' di tempo libero e un'alternanza giudiziosa tra lettura diretta dei testi - di mole complessiva notevole grazie alle raccolte dell'ultimo decennio di vita dell'autore - e ricorso alla bibliografia, concresciuta in modo esponenziale sulla notorietà dell'ultimo Montale. Ma, a chi non abbia tempo o voglia di accingersi all'ingente impresa, Forti offre una selezione ottima e calibrata dei pezzi giustamente più noti, corredata da un'introduzione viva, aggiornata e precisa. Tra tanto fervore interpretativo resta ancora abbastanza in ombra il traduttore Montale: lo studio di Bigongiari, premesso da Forti alla sua scelta dal Quaderno di traduzioni montaliano, sarà stato pionieristico a suo tempo (1949!), ma oggi, dopo gli studi di Meoli Toulmin, Bulgheroni, Lonardi, Musatti ecc. e le riflessioni teoriche sul tema della traduzione letteraria, risulta metodologicamente sorpassato. Tenuto conto che circa la metà degli articoli raccolti in Sulla poesia si riferiscono a letterature straniere e spesso a traduzioni italiane da altre lingue e che Montale per più di dieci anni si dedicò personalmente a quell'opera di trasfusione culturale che ha dato nuovo ossigeno alla letteratura italiana, si deve salutare con sollievo il volume della Busquets sui rapporti tra la cultura ispanica e il poeta nostro, le cui versioni dal castigliano e dal catalano sono parecchie e di notevole impegno: Guillén, Cervantes, Bécquer, Maragall, Gomez de la Serna ecc., oltre alle «versioni ritmiche» del libretto dell'opera Proserpina y el extranjero dell'argentino Juan-José Castro e della cantata scenica Atlantida sul poema di Jacint Verdaguèr adattato da Manuel de Falla. Interessante il tentativo di Busquets di ricavare una teoria montaliana della traduzione dalle note al proprio lavoro, da articoli e recensioni di traduzioni altrui. Dalla somma di queste note e giudizi emerge bene l'idea che il traduttore di poesia conviene sia a sua volta un poeta e che tra la rassegnazione alla resa letterale e l'azzardo verso l'atto Ti-creativo sia di gran lunga più proficuo il secondo. Montale, insomma, preferisce il rifacitore genialmente infedele per il suo coraggio nell'inserire l'oggetto di parole in un ambiente e in una cultura linguistica diversi. Chiaro che, nell'esigenza di non forzare il proprio idioma per servilismo verso quello di partenza, le frustrazioni non mancano, se Montale stesso nella propria traduzione del Cant espiritual di Joan Maragall avverte la irrime- . diabile perdita di «quel suono scoppiettante di pigna verde but- _tatanel fuoco che è proprio di tutta la poesia catalana». Dopo questo viatico d'autore, il capitolo più impegnativo del libro analizza in dettaglio le singole operazioni di resa in italiano. Ed è qui che, tra molti raffronti circostanziati, affiora una certa delusione dell'ispanista: modificazione dei ritmi, resa meno sincopata della sintassi, perdita di molte sfumature connotative, eliminazione di ripetizioni e parallelismi, attenuazioni del fasto formale o del concettismo, che appaiono particolarmente dolorose per esempio con Cervantes. Il fatto è che quelle rintracciate sul versante spagnolo da Busquets sono caratteristiche costanti dello stile traduttorio di Montale sia in poesia, che, fatte le debite differenze, in prosa. Un giorno ci si dovrà pur decidere a studiare sistematicamente, al di là della singola resa e al di là della solita attenzione esclusiva alle traduzioni in versi, le costanti della lingua del traduttore inserendola nella media stilistica sua e in quella del suo tempo, come invitava a fare già anni fa Pier Vincenzo Mengaldo e come ancora, nonostante singoli lavori di pregio, non si è fatto a tappeto. Allora il proprio del linguaggio montaliano, risvolto formale del proprio ideologico-culturale e del proprio della tradizione stilistica cui Montale aderisce, potrà essere colto senza pregiudizi, fuori dai vecchi tormenti sulla brutta traduzione fedele e la bella infedele. Si vedrà allora in concreto un'altra cosa e cioè quanto la lotta ingaggiata con il «pesante linguaggio polisillabico» del Bel Paese sia stata anche una lotta per, alvarne la specificità, castigandone le ridondanze tradizionali. In fondo questo ha fatto Montale già nella sua poesia. Dunque il libro di Busquets è un ottimo trampolino di lancio, in attesa che sulla rampa salgano altri esperti per tuffarsi nell'officina dello scrittore-traduttore. Per conoscere Montale A cura di Marco Forti Milano, Mondadori, 1986 pp. 475, lire 12.000 Eugenio Montale Poesie scelte A cura di Marco Forti Milano, Mondadori, 1987 pp. 194, lire 7.000 Loreto Busquets Eugenio Montale y la cultura hispanica Roma, Bulzoni, 1986 pp. 198, lire 18.000 gio poetico. A Shelley premeva, come sottolinea Tomaso Kemeny nella prefazione alla accurata versione italiana di questa formidabile apologia del poetico, «differenziare lo straordinario contributo dell'immaginazione al possibile sviluppo dell'Inghilterra e del mondo, dall'ordinaria evoluzione delle pratiche sociali soggette al senso comune dell'utilitarismo meccanicistico». Di qui, appunto, l'opposizione tra quanto potremmo definire ragione strumentale e «l'immaginazione - scrive ancora Kemeny - come percezione trascendentale delle qualità e delle somiglianze». La ragione che Shelley sottopone a critica, e a cui non lesina l'attribuzione di pesanti responsabilità nel processo di decadenza storico-epocale, non è quella della filosofia classica, né il logos né le sue varianti moderne di stampo cartesiano; si tratta, invece, della ratio analitico-strumentale, calcolante e orientata a quantificare, a fondare e codificare misure o valori sulla base del predominante criterio dell'utile. Anticipando Nietzsche, che nella Genealogia della morale metterà in luce come il pensiero umano si sia ridotto a «stabilire prezzi, misurare valori, barattare», Shelley coglie con appassionata lucidità il carattere distruttivo della razionalità tecnologica, il nichilismo dei valori a cui si contrappone, come scrive Kemeny_,«la facoltà di attualizzare nella storia una serie di valenze, di intensità relativa, delle eterne sostanze». A Defense of Poetry, composta nel 1821 e pubblicata postuma nel 1840, è un'apologia della poesia, o E ~ Q) - Ognuno sa che alla base della moderna teoria dell'architettura c'è il fondamentale Saggio dell'abate Laugier ro a. e o N ·- "O Q) ro (.) :p Q) ..e ....., (/) Q) ro Questa è la prima edizione italiana Marc-Antoine Laugier Saggio sull'Architettura a cura di Vittorio Ugo sono anche m libreria Pseudo Longino, Il Sublime Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime Gracian. L'Acutezza e l'Arte dell'Ingegno schen, dall'ipertrofia antiestetica di quelli che Rousseau definiva «hommes de métier» (e indubbiamente rousseauiano è il motivo della degenerazione contenuta nella civiltà, soprattutto nell'esplicito riferimento alla «capacità corruttrice del teatro» e al rapporto tra «declino del dramma» e «corruzione dei costumi», aspetti che richiamano la critica di Rousseau all'arte come mera rappresentazione). La Defense of Poetry è, in ultima analisi, la difesa di una forma altra di conoscenza e di sapere, capace di considerare il reale sub specie aeternitatis rispetto alla reificazione e alla frammentazione prodotte dalla ragione analitica. Poiché «arresta le fuggevoli apparizioni che frequentemente visitano i mutamenti della vita» la poesia è voce e linguaggio dell'unità primordiale, delle sostanze che noumenicamente trascendono il mondo rappresentato e deperibile, chiuso nell'orizzonte spazio-temporale. I poeti, per i quali «tempo e spazio e numero non esistono», sono per Shelley «i non riconosciuti legislatori del mondo»; essi danno forma e linguaggio a quel «reale veramente assoluto» che già Novalis, nei suoi Frammenti, faceva coincidere con la poesia stessa. Percy B. Shelley Difesa della poesia A cura di Tomaso Kemeny Tr. di Lia Guerra Milano, Coliseum, 1986 pp. 87, lire 12.000 Fare per vedere Giovanni Anceschi Il libro di Renate Eco, anche dentro al genere «guide e manuali», rappresenta un unicum. O, speriamo, l'apertura di un filone. Tutte le guide vogliono insegnare a fare, questa invece promuove un sapere che parte dalla prospettiva del fare. Si sente che l'autrice possiede l'occhio e la mente e la mano di chi fa, di chi conosce i problemi del fare comunicazione, del raffigurare, del dipingere, del disegnare, dell'assemblare. È infatti grafico di professione. Nel suo iter formativo si trova sicuramente, l'incontro con Munari. Ma mentre per Munari nell'avvicinare l'arte ai bambini, c'è un atteggiamento che fa del gioco l'arma che potrebbe andare addirittura alla distruzione dell'arte (in Munari c'è sempre un briciolo del bruciare i musei dei futuristi), dentro il metodo del Laboratorio della Loggetta di Brera c'è invece i---------------------------------1 una profonda devozione per l'arLa «Difesa» di Sbelley Roberto Carifi Secondo un'annotazione di Luciano Anceschi in Autonomia ed eteronomia dell'arte la poesia, per Shelley, «ricrea di nuovo dalle fondamenta l'universo e il mondo che noi vediamo non è che il caos del mondo poetico». Si tratta della poesia come pratica di trasfigurazione e metamorfosi, connessa a un'idea della natura come luogo anteriore e pre-storico dell'energia creatrice, di una primordialità che custodisce i simboli a cui sempre riconduce la forza trasfigurante della lingua poetica. La poesia come pensiero metamorfico, non soggetto alla fissità e alla casistica di categorie psicologiche o ideologiche, capace di restituire alla parola e al concetto la sua naturale e originaria caratteristica di «pura invenzione di rapporti» (Anceschi), è la base della contrapposizione che Shelley mette in opera, in A Defense of Poetry, tra le funzioni rappresentative tipiche della ragione e il contegno antirappresentativo, evocativo e analogico, del linguagconcepita come espressione «del1'eterno, dell'infinito e dell'uno», che non ha tuttavia nulla di ingenuo, nemmeno quando Shelley le attribuisce un ruolo determinante per «il miglioramento o il peggioramento dei costumi umani», fino ad affermare «che la presenza o l'assenza della poesia nella sua , forma più perfetta e universale è connessa al bene e al male della condotta dell'uomo». La spinta etica contenuta in queste parole rappresenta un progetto di conoscenza che attraverso le figure del mito e degli archetipi primordiali, la bellezza e le forme, sia in grado di redimere il tempo della sua miseria: «La Poesia comunica sempre tutto il piacere che gli uomini riescono a recepire; continua ad essere la luce della vita, la fonte di tutto ciò che di bello, di vero, o di generoso può trovare spazio in un tempo corrotto». Ritorna il moti-. vo holderliniano della poesia come sola ricchezza nel durftige Zeit, oppure la schilleriana protesta morale nei confronti della «frammentazione dell'essenza» (Zers(iickelung Wesens) tipica di un mondo abitato da Teilmente. Il metodo si confronta seriamente e onestamente con il problema del proselitismo per l'arte, pensata come parte costitutiva e fondamentale del mondo. Il fastidio per l'arte difficile, il desiderio di un'accesso induttivo, «dal basso» all'arte, pervadono il libro e le attività che descrive. Da qualche parte, sullo sfondo, c'è il movimento e la solida tradizione di Kunsterzieher tedeschi. L'understatement dell'autrice di chiamare questo libro un ricettario, contiene qualcosa di molto vero. Si tratta infatti di una posologia, di un atteggiamento che non dice mai «questo è», ma dice sempre «fai questo e questo ... e vedrai». In altri termini la formula didattica è operazionalista, processualista, procedurista. Il metodo antepone sempre una tappa di lavoro in laboratorio al visitare il museo e al vedere le sue opere. Anche se conferisce alla percezione e ai suoi piaceri il giusto peso, il metodo è lontanissimo dal purovisibilismo di superficie. Osservare le apparenze sensuose del «fondo oro» va sempre legato al saperne qualcosa di più. Ad esem-

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