Mensile di informazione culturale Luglio/Agosto 1987 Numero 98/99 / Anno 9 Lire 5.000 98/99 Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137 Milano f'///H////////H/H/////HAVM"H...w/HIW'.WU//H////1 Spedizione in abbonamento postale ~ 11 i gruppo III/70 • Printed in ltaly I A ,Ma~aan i ~ s1arriva i l'etica: unquasinulla(RovaHi) AP-iùvoci:Spinella (Agosti,Corti,LeoneHi,Porta) IdeologiedellaPolis(VegeHi) Laquestionedellamodernità (AnceschDi,eFusco) ~Calabrese Fiorani Garavelli Vergine ~ Vicinelli I d. I ~ pergra 1. ~ I i I ~ I i 'lì.a' A. ~ A. 'iiP 'iiP- ~ - i I ~~ I ~ g.~~ ~ i ~or~ i I ~ ~///HH////////////HH///////HH/.WUHIW'/////H/////~ alfa e beta Supplementoletterario.8 Annino,(ascella,Comolli,Dorfles,Draghi,Held, LeoneHiM, ainardi,Mariani,MeneHi,OldanJ, OHpnieri,Parise,Porta,Squatriti,Viviani
Le immagindiiquestonumero 11 filo rosso.della storia a~compagna ogni nostra esperienza, ma spesse volte la memoria collettiva dimentica il travaglio attraverso il quale l'impegno politico e sociale cerca di migliorare, se non trasformare, il mondo. La sedimentazione di alcuni avvenimenti è lenta, di altri addirittura si cancellano ogni segno, ogni indizio; rimane generalmente, anche per quanto riguarda la tradizione iconografica di un paese o di un periodo storico particolare, solo quel patrimonio culturale in sintonia con i modelli dominanti, che non sono necessariamente quelli istituzionali, ma che, comunque, fanno parte della mappa dei valori «consentiti». Il «non consentito» viene veicolato attraverso canali marginali, supporti che sembrano casuali rispetto ai grandi mezzi di comunicazione; dico sembrano, perché in effetti poi la circolazione delle idee e, soprattutto, delle immagini iconiche è più complessa e per niente innocente nei riguardi della formazione e della diffusione dei valori e della consapevolezza dominanti. Analizziamo queste immagini che «Alfabeta» presenta e, al di là del loro significato per la storia recente delle comunicazioni visive, proviamo a leggerle, sia tenendo conto dell'ideologia contemporanea alla loro realizzazione sia facendole interagire con le nostre capacità d'interpretazione, dentro il nostro orizzonte, in particolare il rapporto Sommario Pier Aldo Rovatti Elogio del pudore pagina 3 A più voci: Spinella in Russia Stefano Agosti Maria Corti Francesco Leonetti Antonio Porta pagine 4-5 Patrizia Calefato Moda: Benjamin Simmel Heidegger (Parigi capitale della moda, di W. Benjamin) pagina 6 Michele Cangiani Tradizione manageriale (Ingegneri e politici, di A. Sa/sano) pagina 7 Alberta Rebaglia li lavoro dello scienziato (Il lavoro dello scienziato, di J. Ziman; Tra la storia e il metodo, di S. Amsterdamski) pagina 8 Omar Calabrese Il discorso «acuto» (Acutezza o arte dell'ingegno, di B. Gracian) pagina 9 Fredi Chiappelli La mente barocca (Viaggio nella mente barocca, di G. Dioguardi) pagine 9-10 Comunicazione ai collaboratori di «Alfabeta» Le collaborazioni devono presentare i seguenti requisiti: a) ogni articolo non dovrà superare le 4-5 cartelle di 2000 battute; ogni eccezione dovrà essere concordata con la direzione def giornale; in caso contrario saremo costretti a procedere a tagli; b) tutti gli articoli devono essere corredati da precisi e dettagliati riferimenti ai libri e/o agli eventi recensiti; nel caso dei libri occorre in4iça~e:;·autore_,_.,. Il fllo r~ di Cobb istituzione-cittadino, natura e sviluppo industriale, dominio politico e propaganda. Il grande disegnatore americano R. Cobb e la sua matita, a distanza di circa vent'anni, ci riportano da un lato, l'atmosfera particolare di quegli anni di tensione politica e di stimolanti confronti ideologici, dal- /' altro ci permettono di riflettere sul presente e sulla costante presenza, in ogni società occidentale, di alcuni paradigmi che appaiono, proprio per la loro insistenza e continuità, quasi metastorici, naturali. Ovviamente questo è soltanto ciò che l'apparenza ci mostra; e infatti, oltre il muro del segno, sempre un grande artista, Cobb in questo caso, ci parla di altro, della storia concreta degli uomini, del «non consentito» secondo i modelli dominanti, delle miserie degli individui quando questi non pensano ma sono pensati. Da qui, immagine per immagine, parlando di quegli anni, Cobb ci parla e ci descrive il nostro presente, le nostre miserie politiche perché, al di là della cronaca e delle storie provinciali, il mondo storico presenta sempre una sua omogeneità e una sua razionalità. La voce di Dio e le crociate anticomuniste; lo straordinario disegno dei due americani, indifferenti alla nube che incombe sulla loro automobile, che giustificano la tragedia ecologica come necessaria condizione per una vita un po' Adelino Zanini Weber: religione e razionalità (Max Weber. Ascesa, crisi e trasformazione del capitalismo, di A. Ponsetto) pagina 10 Da New York Paolo Valesio GiulianeHa Ruggiero pagine 11-12 Da Parigi Federico Vercellone pagina 12 Cfr. pagine 13-15 Testo: Mario Vegetti Ideologie della polis pagine 16-17 La questione della modernità (I) Renato De Fusco (Il futuro della modernità, di T. Maldonado) pagina 19 La questione della modernità (Il) Giovanni Anceschi (Il futuro della modernità, di T. Maldonado) pagina 20 Eleonora Fiorani Senegal, agire territoriale (Geografie della complessità in Africa. Interpretando il Senegal, di A. Turco; Le nuove geografie, di V. Vagaggini; Le metafore della terra, di G. Dematteis) pagine 21-22 Romano Madera Dolere (L'esperienza del dolore, di S. Natoli) pagina 22 Bice Mortara Garavelli L'azoto di Gadda (Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica, di C.E. Gadda) pagina 23 più confortevole: Miss Potter! ... annulli tutti i miei appuntamenti per domani, così, nella sua stupidità e ignoranza, il manager reagisce alla bomba; oppure, seduti sul tetto della propria auto che affonda in acque dove i topi hanno preso il posto dei pesci, due tipici americani - ma potremmo essere anche noi - si chiedono ancora, increduli, che cos'è l'ecologia? Ogni tavola di Cobb è storia di un passato e delle sue paure e stupidità che non cambiano, ma si ripresentano ai nostri occhi, con la loro semplicità quasi didascalica, come contemporanei; sembra non esserci speranza di cambiamento ne~'orizzonte iconografico di Cobb, il suo segno è forte e deciso, le facce stupide perché gli uomini sono stupidi, la natura tragica perché così la vuole l'insensibilità del potere verso l'altro. Domina, in ogni immagine di Cobb, una pesante verità: l'individualismo non è una scelta dell'individuo, è un atteggiamento funzionale a un sistema che, pur teorizzando la libertà individuale come valore centrale della società, nega concretamente agli uomini la possibilità di vivere secondo la propria coscienza. È la forza descrittiva della sua matita che gli consente di analizzare il «non consentito» e di parlare non per la cronaca, ma all'interno delle grandi tensioni della storia; questa è l'attualità di Cobb. Il problema ecologico per Cobb, costante in tutta la Mario Lunetta Altri giovani narratori (Sognando California, di C. Tani; Assassini di carta, di A. Antonaros; Il gioco dei tradimenti, di D. Martelli; Duale, di A. Di Cieco; Oltre il confine della notte, di D. d'Isa; Le spose del marinaio, di U. Lacatena; I belli di famiglia, di E. Pierallini; I fuochi del Basento, di R. Nigro) pagine 23-24 Conversazione con Malipiero A cura di Alessandro Arbo pagine 25-26 Roberto Carifi La vita astratta (La vita astratta, di G. Bonura) pagina 26 Rocco Carbone Retorica e silenzio (Ascoltare il silenzio, di P. Valesio) pagina 27 Patrizia Vicinelli Salso Film Festival pagine 27-28 Lea Vergine Foto di gruppo con scultori pagina 28 Marcello W. Bruno Architettura Krypton pagina 29 Giornale dei giornali Elezioni e recessione (II) pagine 30-31 Indice della comunicazione Stagione TV '86-'87: risultati pagina 31 Le immagini di questo numero Il filo rosso di Cobb di Aldo Colonetti Supplemento letterario. 8 alfa e beta In copertina: La voce di Dio,© R. Cobb titolo, editore (con città e data), nume- terio indispensabile del lavoro intelletsua produzione, non è un pretesto per costruire visivamente paradisi terrestri; rappresenta una delle massime contraddizioni dellq società contemporanea, e la tragedia sta proprio nell'insensibilità degli uomini verso la natura, intesa non solo come bella, ma anche come luogo di tragedie. Cobb smaschera le buone intenzioni dettate dai sentimenti, per mettere al centro della riflessione le potenzialità della ragione, della ragione critica e della critica della ragione; Adorno e Horkheimer così scrivevano nel loro, sempre attuale, saggio dedicato all'industria culturale in Dialettica dell'illuminismo: «L'individuale si riduce alla capacità dell'universale di segnare l'accidentale con un marchio così indelebile da renderlo senz'altro identificabile con quello. Proprio l'ostinato mutismo o i modi eletti dell'individuo ogni volta esposto sono prodotti in serie come i castelli di Yale, che si distinguono fra loro per frazioni di millimetro». Nelle immagini di Cobb gli atteggiamenti degli uomini sono prodotti in serie, sempre uguali, anche se il contesto cambia; la classicità di un segno consiste nella sua capacità di parlare immediatamente agli altri e, soprattutto, di non lasciarsiparlare esclusivamente dai codici dominanti. Questo è il significato .del termine non consentito a proposito delle tavole di Cobb. Aldo Colonetti alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeta Direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese Maria Corti, Gino Di Maggio Umberto Eco, Maurizio Ferraris Carlo Formenti, Francesco Leonetti Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella Paolo Volponi Redazione: Maurizio Ferraris, Carlo Formenti, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti Art director: Gianni Sassi Editing: Studio Asterisco - Luisa Cortese Grafico: Bruno Trombetti Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione: via Caposile 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Pubbliche relazioni: Monica Palla Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile: Leo Paolazzi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, 20139 Milano Telefono (02) 5392546 Stampa: Rotostampa, Brugherio Distribuzione: Messaggerie Periodici ro di pagine e prezzo; tuale per Alfabeta è l'esposizione degli c) gli articoli devono essere inviati in argomenti - e, negli scritti recensivi, Abbonamento annuo Lire 50.000 triplice copia ed è richiesta l'indicazio- dei temi dei libri - in termini utili e estero Lire 65.000 (posta ordinaria) ne del domicilio del collabqratore. evidenti per il lettore giovane o di li- Lire 80.000 (posta aerea) La maggiore _ampiezzadegli articoli o vello universitario iniziale, di prepara- Numeri arretrati Lire 8.000 il loro carattere non recensivo sono zione culturale media e non speciali- Inviare l'importo a: Intrapresa proposti dalla direzione per scelte di sta. _ Cooperativa di promozione culturale lavoro e non per motivi preferenziali o_ Manoscritti, dìsegni e fotografie. non sf "'via' Caposil~ 2, 20137 Milano • personali. Tutti gli articoli inviati alla restituiscono, Alfabeta respinge leftei:e Rl~fgnp-~(02) 592684 ·- . ,redazione vengono esaminati;·ma lari- e pacchi inviati per corriere, sal'(o ,che CcJlito'Cor-rentePostale, 154ll208 vista si comQOne prevalentem~nte di ... non ~iano espre~_(,ame.(!tr~ic. hiesti çon ·-~~:~f,' :: --~ -,/ , "t . collaborazioni-su.commis~ion~. f .'· tale urgenza dalla' direìi~e. ~b-:-'{utti·Nliriìli dipioprietq,Je(ièr.aria .. ':Occprre,in fine tenere conto che il cri- · ,,.,.. .11l·Co,mitato,,.du:ettivò. ,'èàrtfslièil'i:is.er-vdti , •.,_.• ·;·
L, aneddoto che vorrei ricordare viene ripreso da Martin Heidegger nella Lettera sull'umanismo (1946). Esso riguarda Eraclito e ci è stato raccontato e tramandato da Aristotele. Dato il momento dell'anno in cui ci troviamo, dovremmo forse alterare il racconto e immaginare il filosofo Eraclito nella sua casa intento a farsi vento per alleviare il caldo anziché assorto - come ce lo saremmo aspettati - in una profonda meditazione sul divenire di tutte le cose. I visitatori stranieri sorprendono invece il grande pensatore mentre sta scaldandosi accanto a un forno di quelli che servono per cuocere il pane: una scenetta banale e quotidiana. Più che sorprendere Eraclito, questi visitatori rimangono sorpresi loro. stessi, insomma delusi. La cultura spettacolo è una faccenda molto antica, e possiamo anche tranquillamente immaginare che questi turisti, che volevano vedere un filosofo vero almeno una volta nella vita, avessero programmato la visita con grande anticipo, insistito perché Eraclito si facesse vedere da loro, affrontato spese e sacrifici, magari un lungo viaggio; e che nel tempo non breve di tutti questi preparativi la loro attesa fosse cresciuta e l'idea già un po' mitica del filosofo che avevano in mente all'inizio fosse diventata via via sempre più mitica e irreale. Eccoli finalmente che varcano la soglia austera della casa del pensiero: ma come? Il grande Eraclito non può essere quel comunissimo personaggio che sta scaldandosi accanto al fuoco! Una lezione di umiltà. Questo aneddoto sembra il rovescio di un altro che ha come prot;igonisti Talete e una servetta tracia e sul quale Hans Blumenberg ha costruito una delle sue affascinanti ricerche di storia delle metafore. Talete, tutto preso dal cielo che sta scrutando, non guarda dove mette i piedi, cade in una buca e di fronte al capitombolo la servetta tracia non ce la fa a trattenere il riso. Forse i visitatori di Eraclito se lo aspettano proprio mentre interroga le profondità del cielo e non si cura delle banali faccende terrestri; e probabilmente, in un caso analogo, avrebbero fatto finta di non vedere la caduta del filosofo o lanciata un'occhiata severa alla servetta intemperante e un po' blasfema. Ma non si tratta soltanto di una lezione di umiltà: e infatti Eraclito, accortosi dello sbigottiL'etica un quasi nulla Elogiocltlmnpudore mento dei suoi ospiti, li ripaga del viaggio e delle fatiche con questa frase: «Anche qui gli dei sono presenti». Noi non conosciamo lo stato d'animo con cui i visitatori se ne tornarono indietro: se semplicemente gratificati dal fatto che il filosofo aveva loro riservato alcune parole alquanto enigmatiche (da raccontare agli amici a conferma del luogo comune che i filosofi sono bizzarri e imprevedibili), oppure illuminati e quindi un po' sgonfiati dal senso della frase che intendeva colpire proprio la loro sorpresa. Heidegger ci fa riconsiderare questo stato d'animo e ci avverte che a suo parere qui è precisamente in gioco quel qualche cosa che noi seguitiamo a chiamare etica. Etica ha a che fare con il termine greco ethos e Heidegger traduce ethos non tanto con «carattere proprio dell'uomo» ma con «soggiorno», «luogo dove si abita», la. «regione aperta in cui l'uomo abita». E interpreta il frammento di Eraclito in cui si legge «ethos anthropo daimon» con «l'uomo abita in prossimità del dio». Questa interpretazione equivale alle parole dell'aneddoto: «anche qui gli dei sono presenti». L'etica è un abitare, un «abitare poetico», come insiste a dire Heidegger richiamando spesso un verso di Holderlin. Il che mette in causa tutto quanto il suo pensiero dopo Essere e tempo: è raro trovare in lui dei riferimenti diretti all'etica, e in generale la cnttca accentua poco questo aspetto, ma quando ci sono, come in questo caso, essi si rivelano decisivi. Ciò ci permette di costruire legittimamente e utilmente un ponte tra Heidegger e Lévinas, che, pure, dando preminenza all'etica sembra lontanissimo e anche avverso a quello che è stato uno dei suoi maestri filosofici; e ci permette inoltre di collegare Heidegger con Jankélévitch, il quale ultimo è sempre stato nettamente anti-heideggeriano. Questo ponte è utile perché accomuna, almeno in alcuni tratti fondamentali, un . orizzonte di discorso che diventa sempre più attuale per noi: la crescente importanza del punto di vista etico, la necessità di una ridefinizione di questo punto di vista al di fuori di ogni formalismo e anche al di là di ogni ritrovato canone razionalistico, la constatazione che non solo l'etica non ha alcun determinato contenuto positivo ma che addirittura è assimilabile a un «quasi nulla», secondo l'espressione usata da Jankélévitch. Q uella che Heidegger, riprendendo il motto di Eraclito, considera una condizione di «prossimità» ai «divini», è separata da un sottilissimo velo dalla condizione abituale, inautentica, dell'uomo: effettivamente un quasi nulla distingue l'atteggiamento di Eraclito nell'aneddoto da una pratica anonima e qualunque. La vicinanza nel senso spaziale, ovvio, del termine e la prossimità alle cose esemplificata da Eraclito sembra si differenzino solo per una tonalità etica: ma questa piccola, quasi impercettibile, differenza porta con sé un grande rivolgimento, una modificazione radicale dello sguardo e dell'atteggiamento. Possiamo chiamare questa tonalità etica con il nome di «pudore». Lévinas parla di «pazienza» o di «passività» di fronte all'«altro». Per Jankélévitch, che ritorna continuamente sul pudore, esso è innanzi tutto «il rispetto di un mistero». Per Heidegger l'abitare in quanto pudore è aver cura, salvaguardare, proteggere, attendere, affidarsi. La prossimità di Eraclito al forno presso cui si scalda è allora un rapporto non misurabile con il metro dei nostri saperi scientifici e neppure con quello della professionalità filosofica. È qualcosa come un affidarsi e al tempo stesso un tenersi in disparte: un riconoscere una priorità alle cose e all'evento, un rispettare nelle cose la dimensione di ciò che non è conoscibile (i «divini» nel linguaggio di Heidegger), un avvicinarsi che paradossalmente equivale a un tenere la distanza. Il rivolgimento che questo quasi nulla comporta è la capacità di «sospendere» (e qui è proprio il caso di ricorrere al termine fenomenologico) il nostro modo abituale di stare dentro l'esperienza quotidiana, un modo che è caratterizzato dal contrario del pudore: dalla padronanza che crediamo di avere sulle cose o anche dall'inconsapevole prevalere di un rapporto di «conoscenza» e di «utilizzabilità». Se il sapere e il padroneggiare attraverso i saperi orientano già, senza bisogno che progettiamo questo orientamento, la nostra comune esperienza, il rivolgimento etico non sarà l'invenzione di un altro sapere da allineare a quelli operanti, bensì la possibilità di sospendere o di scalfire una tale padronanza. È la messa in atto di un indebolimento o di un allentamento della rete di saperi entro cui siamo già sempre catturati: che non significa negare l'efficacia o l'importanza del sapere, ma rivendicare al nostro «abitare» una precedenza e una diversità. Da questa prospettiva Heidegger, Lévinas e Jankélévitch procedono lungo un medesimo cammino; e non solo questi tre pensatori, ma un intero fronte del pensiero contemporaneo che magari non parla neppure in modo esplicito di etica ma egualmente punta a un analogo scarto o modificazione del nostro atteggiarci rispetto alle cose. Nella stessa Lettera sull'umanismo troviamo molte indicazioni preziose in proposito, e una soprattutto vale la pena - a mio parere - di evidenziare: quando Heidegger dice che occorre, non salire, ma discendere verso la prossi- .ea,·1 r«talogur't• e R. c.obb mità. La discesa ha a che fare con un «meno» ed è assai più pericolosa della salita. Eraclito che si scalda, anziché cogitare come farebbe Cartesio, realizza una rischiosa «diminuzione». Cosa può significare? Forse lo comprendiamo se pensiamo che il salii;e, il superare, l'andare al di sopra, si dà a noi solitamente in termini di accrescimento, arricchimento, maggiore quantità di sapere. Questo «progresso» per accrescimento è sotto gli occhi: ma quanto è legato alla «povertà» della nostra epoca? Il pudore, il passo indietro, l'introduzione di un «meno», si assumono il rischio di togliere legittimità alla catena e di guadagnare una distanza critica in cui riconoscere un'altra idea di uomo (ed è questo - al di là di ogni equivoco - lo scopo di Heidegger) che non sia l'effetto della medesima catena. Bergson aveva intuito questa arte del «meno» di fronte alla quantificazione della psiche: e i bergsoniani Lévinas e Jankélévitch hanno alimentato un'etica della diminuzione. Il pudore di Heidegger si spinge fino a sospettare dell'etica stessa che può subito diventare una forma privilegiata di sapere. Si limita a dire «abitare» e a indicare una sorta di spazio metaforico in cui la stessa nozione di «essere» non sarà più propriamente di ca&a. · Credo che l'indicazione di Heidegger debba essere ripresa e riconsiderata. Anche al di là della «seriosità» alquanto unilaterale con cui egli continua a vedere l'atteggiamento che sta additandoci. Il pudore confina con l'ironia, come ha ricordato Jankélévitch: il ritrarsi che intacca la padronanza del sapere, o che comunque ci permette per un momento di guardare le cose sotto tutt'altra luce, è al tempo stesso l'affidarsi a una zona mobile, appunto rischiosa. È come se, attraverso il pudore, vedessimo bene il quasi nulla che distingue una scena opaca da una scena abitata dagli dei e introducessimo allora una cautela ulteriore: non far conto, non essere rassicurati, non far diventare «seria» e stabile una condizione che assomiglia piuttosto a un momento (mai fissabile) di squilibrio. L'etica potrebbe allora essere l'esercizio senza rete di protezione grazie al quale possiamo tentare ogni momento di rinnovare questa condizion~ di squilibrio.
Mario Spinella Lettera da Kupjansk Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1987 pp. 408, lire 24.000 Stefano Agosti. La novità di fondo di questo libro di Spinella, che a me è piaciuto moltissimo, è una sorta di antinomia operativa, cioè l'assunzione di un materiale epico che viene sottoposto a un trattamento che è il contrario dell'epos: infatti, Maria Corti, nel risvolto di copertina, parla di «un epos che è solo sfiorato». Per riprendere le definizioni presenti in un bellissimo saggio di Bachtin, si può contraddistinguere l'epos come memoria collettiva, azioni e destini esemplari e rescissione del tempo in atto. Allora, se teniamo presente questa terna e proviamo a verificare il trattamento che Mario Spinella dà al materiale epico, vediamo che il trattamento è veramente opposto ai tre punti di cui parla Bachtin. C'è anche l'espressione idiomatica «qualcosa di epico», nel senso di qualcosa avvenuto una volta per tutte, che come tale resterà. Per quanto riguarda la memoria collettiva, si potrebbe allora vedere nel romanzo di Spinella una omologazione dall'alto alla memoria collettiva del Narratore, il quale interviene appunto dall'alto, quindi ha una visione - diciamo - apparentemente obiettiva, ubiqua. Infatti, si parla contemporaneamente sia di·cose che succedono in Russia sia di cose che succedono in Germania; tuttavia questa visione dall'alto è continuamente contaminata da una focalizzazione che, a distanza ravvicinata, è addirittura rasoterra, per esempio il detrito, il dettaglio alimentare, i rifiuti e via di seguito. Secondo punto: le azioni. Le azioni non sono per nulla esemplari. Le azioni non si compiono, il nemico addirittura non appare quasi mai - si vede sotto forma di carri armati. Ho notato inoltre che nel libro ci sono solo due colpi di fucile, che vengono sparati uno dal Narratore, anzi dal doppio del Narratore, il personaggio del Sergente Trimbali, contro i corvi che stanno divorando dei cadaveri di russi appesi a un albero dai tedeschi per rappresaglia. L'altro colpo di fucile è sparato nel corso di un episodio bellissimo, trattato in forma ellittica, che mi ha ricordato Stendhal; mi riferisco all'episodio nel quale il Tedesco, rifugiatosi nell'isba, il mattino, quando si alza, ammazza la russa e il bambino e viene abbattuto a sua volta da un compagno di Trimbali. Ecco, sono i due unici colpi che si sparano nel libro, ed è interessante notare che essi sono diretti uno al Tedesco, l'altro al corvo, quindi si può stabilire una omologazione tra il corvo, il branco di corvi, e il Tedesco. Anche i destini si perdono, si interrompono, ~on sono mai conclusi e addirittura lo stesso destino del protagonista si dà come destino illusorio, nei senso che, alla fine, viene-sospesa una ipoteca, una forte ipoteca diirrealtà sulla figura del protagonista, del Sergente Trimbali. - Terzo punto: il tempo assoluto, la cosa accaduta, di cm parla Bachtin, l'evento immodificabile, proprio perché è accaduto in un certo tempo, non si verifica, nonostante la gravità e l'epicità dei fatti che sono effettivamente accaduti: questo tempo memorabile non c'è, si rovescia addirittura nel tempo fittizio di una narrazione che sottolinea incessantemente se stessa come finzione. E qui l'autore dà una chiave di lettura molto bella: il protagonista, Trfmbali, se ne va, per tutta la campagna di Russia, con l'Orlando furioso in tasca. Ecco, nell'Orlando furioso vi è un incessante lavoro proprio di metadiscorso, alla clausola dei singoli canti e all'inizio dei canti successivi, dove appunto viene sottolineata la finzione come finzione, la favola: nel caso dell'Ariosto è il Narratore che è il depositario della storia. Il tempo della narrazione di Lettera da Kupjansk è messo in crisi quando il récit si interrompe in quanto atto di scrittura e il Narratore si chiede: in questi mesi che cosa ho fatto, l'anno scorso sono arrivato a questo punto della narrazione, adesso potrei continuare o meno. Quindi, ecco che abbiamo fatti accaduti realmente - la guerra c'è stata - fatti molto gravi, fatti epici - nel senso, appunto, che sono accaduti e stanno nella memoria collettiva - che sono sottoposti dal Narratore a uq trattamento che è anti-epico, per i motivi che ho enunciato. Francesco Leonetti. La seconda parola del titolo di Spinella mi fa dire: cupi anni, colpa, cupio dissolvi, pietà, piangendo, scaricandosi, scarica, annullamento, schifo e anni del passato, Kafka, casa. E la prima parola, «lettera», si associa con: lievemente tutto era, let- _teralmente, letto e amore, memoria e malinconia tra la gente, con gli altri. Dunque mi piace molto il titolo e mi suggestiona, mentre trovai sbagliato quello del romanzo precedente, Le donne non la danno, che avrei voluto mutare con questo: Le donne non danno la fine. Ritengo che Spinella sia scrittore per atteggiamento e per elaborazione. Gli è insieme caratteristico il fuoriuscire dalla scrittura letteraria: agisce, diviene teorico, o si contraddice, si disperde: è docente e dirigente politico. Il suo periodo teorico che amo di più è quello del nesso Marx-Freud. È successo anche a me di fuoriuscire: ora ciò mi pare un atto di qualità. Dubito dello scrittore abbondante, che non si smonta mai, e del letterato continuo. La tradizione che Spinella elabora è quella piuttosto novecentesca centrale della narrativa: Svevo, Gadda. Scrive antico, però stima chi innova anche sulla superficie linguistica. Mentre il suo timbro molto inventivo è per lo più ironico, grottesco, seguendo e sviluppando quella tradizione interpretata da lui, mi sembra che egli cambi radicalmente in questo libro. Maria Corti. Quest'ultimo romanzo di Spinella è un libro, a parer mio, molto ricco e - come dire - «Pornografia» © R. Cobb polivalente. Del resto il discorso di Stefano Agosti già lo ha mostrato. Lo si può leggere, cioè da vari punti di vista. Per esempio, c'è un punto di vista, il primo che si adotta, per cui sembra un romanzo storico. Però c'è un exergo che dice: «Del resto, come tutti sanno, non c'è mai stata né un'A.R.M.I.R, né una guerra, né una Russia». Questo mette subito in sospetto sulla semplice lettura di romanzo storico, e solo alla fine del libro capiremo cosa voleva dire questo exergo. Un altro punto di vista può essere quello narratologico, perché è un libro in cui c'è una riflessione acuta sulla figura, la funzione anzi, del Narratore. Vediamo che il Narratore a volte è il classico narratore, nel senso appunto della meta-narratività; ma a volte diventa Mario Spinella il quale dice: adesso scendo al bar a bere un caffè,. a Milano. Questa è già un'operazione originale e curiosa, ma ha qualcosa di più: c'è un Narratore che parla in terza persona e che noi sappiamo che ha dietro di sé l'autore, e c'è il personaggio Trfmbali che è autobiografico, poi alla fine il Narratore e il personaggio Trimbali si fondono nell'io e non c'è più lui, !'egli, ma c'è Io: il personaggio, nell'ultima parte, che parla in prima persona. Spinella ha detto di aver pensato il tutto proprio in chiave, come dire, di trilogia. Per esemp10, lui ha pensato a un'andata in guerra a una presenza e a un n6stos, a un ritorno: quindi c'è una struttura importante. Mi pare poi una cosa originale che di fianco ai personaggi individuali ci siano dei personaggi collettivi, tre popoli che emergono m un rapporto di collettività con la loro sensibilità, con la loro coesione. Nei personaggi individuali - altro elemento importantissimo di struttura - ha inserito la tecnica del flash-back, attraverso la quale può dirci di ognuno che cos'era e cosa faceva prima della guerra, ed è a questo punto che noi ci rendiamo conto che Trimbali è decisamente l'autore. Prima di chiudere questo primo intervento, vorrei ricollegarmi a quello che ho detto all'inizio: non c'è una guerra, non c'è un'A.R.M.I.R., non c'è una Russia. Allora, per capire l'exergo, dobbiamo guardare il finale del libro, dove il personaggio che dice io è ormai Mario Spinella, che compie la stessa operazione simbolica di fronte a Messina, quando in un primo momento ha l'impressione che Messina sia una città conservat~, non distrutta dalla guerra, poi si accorge che sono rimaste in piedi solo le facciate, che Messina non c'è più. È a questo punto che dall'exergo e dal finale emerge il messaggio etico del reduce. Ma sul messaggio etico parlerò in un secondo momento. Antonio Porta. Vorrei cominciare precisando che le vicende narrate in Lettera da Kupjansk vanno dal luglio 1942 al marzo 1943, quando, appunto, inizia e finisce la grande ritirata dell'A.R.M.I.R., cioè l'Armata Italiana in Russia (questo è il significato della sigla A.R.M.I.R.). Condivido tutte le analisi che sono state•fatte finora; vorrei aggiungere che il senso di irrealtà di cui tutti hanno avuta la percezione e che è annunciato dall'epigrafe (ji cui ha parlato Maria Corti, ha anche radici storiche, perché i soldati italiani non hanno combattuto in Russia; hanno combattuto ·solo nella prima ondata, prima della" ,costituzione dell'A.R.M.I.R.; solo quelli che sono entrati subito in Unione oviettca con i tedeschi, hanno combattuto e alcuni, per esempio gli alpini, si erano attestati sul Don. L'A.R.M.I.R. è un'armata successiva di circa 200.000 uomini, che non ha quasi sparato un colpo di fucile, perché, arrivata al fronte, si e dovuta ritirare istantaneamente quando, nell'inverno 19421943 è cominciata la grande controffensiva dell'esercito sovietico. Secondo elemento che dà radici storiche a questo senso di irrealtà è quello che anche Mario Spinella ha detto in alcune interviste e conversazioni private: che in nessun'altro posto di tutta la seconda guerra mondiale l'esercito italiano si è sentito così estraniato, così assolutamente estraneo al luogo in cui si trovava come se la Russia fosse stata un luogo onirico. Questo romanzo è molto singolare perché la sua irrealtà è anche, come dire, storica. Dal punto di vista politico, occorre riflettere sul fatto che un gesto, dal punto di vista militare, completamente irreale, è costato 200.000 vite umane. La divisione Vicenza di cui faceva parte Mario Spinella era composta· da 16.800 uomini e ne ono tornati 800. 16.000 uomini sono periti senza combattere. Alcuni sono scomparsi dopo il ntorno a casa, a causa del tifo petecchiale indotto. appunlo, dalla invasione dei pidocchi che si produce necessariamente vivendo all'aperto, come soldati. Francesco Leonetti. Vorrei riprendere subito l'analisi profonda che della struttura del libro, della sua composizione, è stata fatta prima da Agosti e poi da Maria Corti, e provarmi anch'io, in breve, a definirla. A me pare che qui si giochi una specie di scommessa in senso alto: dare un libro di grande leggibilità . e nello stesso tempo svolgere un'astuta, massima sperimentalità. Questa emerge soprattutto in un certo filone di capitoli che sono indicati con il n. 9, 17, 23, ecc., dove il lettore che legge comunemente può scorgere distrattamente come una piccola bizzarria: qui accade che l'aùtore della complessa narrazione segue passo per passo la genesi dell'opera analizzan-. dola con criteri psicoanalitici e semiologici. Vi è una distinzione tra un Narratore che è detto altra volta falco, macchina da presa, ecc., e l'io narrante, identificabile, che si salda con l'altro. Mi sembra una bella invenzione. Ripeto che questa differenziazione fra l'identità biografica e, diciamo così, l'inventore linguistico ~ profondo, è già presente - l'ho ri- (:I ,5 petuto altre volte - in Engels su ~ Balzac e in Lenin, che lo imita, su ~ t-.... Tolstoj. Però esso è stato messo a ~ punto come un criterio di fondo ...., dell'analisi del testo in sede semio- .9 logica. j Questa operaziO'Oenon appare .9 semplicemente come un'operazio- j ne aggiunta, ma Ìnveste tutta la ~ struttura del libro, perché se ne ~ d . OC) possono osservare 1verse conse-. °' guenze. Per esempio, ogni perso- ti naggio non solo è funzione, nel ~ senso moderno dell'esperienza ro- ~ manzesca, ma si sente che parte, 1s .....
anzi si vuole far sentire, come una piccola scheda relativa; è quindi presentato insieme come esemplificativo e però irriducibile nella sua propria esperienza, comportando continuamente un gioco calcolatissimo di tessere. A questo punto, non c'è solo un'invenzione di autoanalisi o, come si usa dire, di autoriflessione, mentre si scrive il libro, ma c'è una duplicità inventiva che, in qualche modo, penetra anche laddove la pagina comporta un'esposizione apparentemente semplice di eventi. Maria Corti. Io mi sono domandata - e l'ho anche domandato a Spinella - perché ha scritto questo libro quarant'anni dopo. E direi che è stata un'intuizione straordinaria, perché è proprio per il fatto che questa sua esperienza personale è entrata nella dimensione tempo che ha potuto produrre il libro. Se lo avesse scritto subito dopo, all'epoca del neorealismo o della memorialistica di guerra, non potrebbe esserci intanto questo exergo, non c'è un'A.R.M.I.R., non c'è niente, e neanche il finale. In sostanza viene fuori di qui la profonda eticità che ha prodotto il libro, e sono sicura che Spinella è d'accordo con questo. La profonda eticità: in questo libro c'è quasi la vendetta del reduce, che ha visto tutti quei morti e li ha covati dentro per quarant'anni ed è di fronte a una dimenticanza collettiva, perché effettivamente la gente si comporta quasi come se non ci fosse stata la campagna di Russia, proprio perché, per i motivi che ha spiegato Porta, non c'è stata guerra, mentre il dramma c'è ugualmente. L'elemento drammatico di questo libro è prodotto proprio {~ • © R. Cobb • - - ~ • I . .. . < , , . :t""~~~ I . ,/ ~ , ;~a/'•- perché ci sono quarant'anni di di- • j/1~ ~,. menticanza e questa della dimenti- 1 canza collettiva a me sembra una trare questi due personaggi e subinozione veramente importante. to dopo gli altri?» Per cui il NarraVorrei chiudere, dopo aver par- tore è a un tempo soggetto e oglato dell'eticità del libro, sottoli- getto di questa narrazione. Occorneando la lezione che ci dà Spine!- re pensare a un altro dietro il Narla: ricordatevi che quei morti ci ratore che mette in scena il Narrasono stati; vorrei chiudere, come tore stesso, gli sottrae lo statuto dire, in bellezza, con quella straor- semiotico e gli conferisce lo statudinaria descrizione, che occupa to semantico dei personaggi. Per una cinquantina di pagine, della questo via via viene fuori quella ritirata, dove c'è il senso epico. I dimensione che Porta ha definito soldati che muoiono assiderati e «onirica». Io leggerei tutto il libro che a causa della morte per asside- (e Porta sottolineava come questo ramento hanno in quel momento fosse nella realtà delle cose), come un sorriso estatico. C'è qualche una sorta di allucinazione della cosa di sublime in quella descrizio- realtà, e quindi ancora più dramne, e sono i momenti, a parer mio, matico. Siccome la funzione metapiù belli e potenti del libro. narrativa scolla canonicamente la Stefano Agosti. Vorrei riprendere alcune cose, e in primo luogo la figura del Narratore, che nel libro di Spinella è addirittura doppia, proprio come figura di Narratore. Di solito, il Narratore, anche se è meta-narratore, non è implicito, ma è esplicito, fuori dal racconto, è una figura abbastanza univoca, è una figura semiotica. Il Narratore di Spinella allo statuto semiotico aggiunge anche uno statuto semantico, cioè il Narratore è anche personaggio. Il modello, in questo caso, penso, tra i tanti romanzi può essere Jacques le fataliste di Diderot, dove il Narratore entra nell'azione. Infatti, c'è una figura alle spalle del Narratore, che possiamo denominare l'Autore, che è depositario sia della fabbricazione del testo, sia delle sue scelte stilistiche, ecc., il quale addirittura dialoga con il Narratore. Per esempio, «abbiamo detto, lo ha detto il Narratore che tutto sa che il Sergente Trimbali», ecc.; oppure addirittura vi sono dialoghi tra il Narratore e il lettore, per esempio: «Non le sembra di esagerare, Signor Narratore, facendo inconJ I~, ·-fJ. rappresentazione dalla realtà, in questo caso lo scollamento da una realtà, che invece c'è stata, finisce per portare questa realtà che c'è stata a un grado di allucinazione che la rende ancora più drammatica. Parlerei proprio di un grande libro in cui si opera, si attua, un'allucinazione del reale. Antonio Porta. Anche l'allucinazione del reale, sottolineata benissimo da Stefano Agosti, ha radici storiche. In sostanza, il regime fascista era ormai un regime fantasmatico che produceva morte: questo è uno dei grandi temi del romanzo. E due tra i momenti in cui mi pare sia raggiunta l'epica, sono il momento del suicidio di Inge, una devota nazista, che vede crollare all'improvviso il mondo intorno a sé perché capisce che il suo capo ha mentito, e si uccide. E l'altro momento, invece, tutto italiano, è il suicidio dei carabinieri. Durante il ritorno, un colonnello dei carabinieri chiama i suoi uomini e dice loro di non poter più garantire nulla, né armi, né cibi, né rifornimenti, nulla; e di fronte ' ~ ,. • . •• ___ , r '~ ~ ~~~== -- . _-, . ~ - __,_ e .,. ...._-; • .-~J~✓..._._'t-6ta~ ..,. -.....,,,.---· _ ........ -_ , - - - ,-4,- I' I a tutti si mette la canna della pistola in bocca e si spara - suicidio che tra parentesi mi ha ricordato quello di un uomo politico americano alla TV. Molti carabinieri lo imitano compiendo lo stesso gesto; e sono gesti conclusivi, anche dal punto di vista politico. Quando i reduci tornano in Italia, vengono soccorsi da alcuni volonterosi della milizia fascista che portano loro dei generi di conforto, e tutti rifiutano questi doni: tutti, ma senza che la cosa fosse preparata, assolutamente. C'è anche la cancellazione di un regime, in questo romanzo. Noi avremmo cancellato questo passaggio della storia, come diceva Maria Corti, se non fosse arrivato l'artista, il romanziere, che con i suoi strumenti 1~ha riportato alla luce. Maria Corti. Io vorrei fare una piccola postilla alle ultime affermazioni di Agosti commentate da Porta, quindi a entrambi. Quello che a me sembra ancora più bello di questo libro è che l'allucinazione del reale - che ha anche, appunto, ragioni storiche, ecc. - ha luogo in una lingua pianissima, che scorre via, quasi colloquiale, e riesce a essere epico, drammatico, allucinato, con un linguaggio che non ha nessuna carica formale eccessiva, cioè la carica formale è raggiunta senza eccessi formali. Quindi è una grossa lezione anche per certi narratori d'oggi, che pensano di aver bisogno per forza di un linguaggio molto carico. Ancora, per chiudere, questo libro ci mostra come fossero poco fondati tutti i discorsi di due anni fa, dell'anno scorso, di tanti giovani narratori, sull'eutanasia del romanzo. Dall'autunno a adesso, sono uscite almeno tre opere, tra le quali questa di Spinella è di massimo rilievo, che mostrano tutt'altro che un'eutanasia del romanzo ma perfino lo svilupparsi del grande romanzo, sia pure in forma modernissima. Francesco Leonetti. Sento parlare di allucinazione, e mi sembra che sia l'allucinazione delle illusioni che muovono i grandi processi storici, degli inganni, della guerra. Mentre invece nel libro, a mio avviso, ci sono i grandi luoghi della storia e del poema. A dire il vero, mi sembra che non ci siano le intense situazioni narrative degli altri libri di Spinella. Poi mi fermo un poco sopra a pensarci e mi rimangio questa osservazione critica, dicendo che c'è una grande situazione narrativa iniziale, che è stata presente prima solo in Vittorini: il treno e la gente in esso. E per Spinella è la tradotta, il vivo di questa tradotta che va e intanto si gioca a carte, si attende, si va su una sorte tragica: è veramente un'invenzione narrativa che in qualche modo va al di là degli eventi a cui si riferisce. Antonio Porta. Diciamo che questo treno ha solo l'andata, perché il ritorno è impossibile, e quindi il ritorno è la morte. La ferrovia è stata distrutta dall'esercito sovietico. Stefano Agosti. L'omologo del treno, nel ritorno, è una figura tremenda, che è la figura del bruco che passa verde nella neve e che è la grande ritirata degli Italiani dalla disfatta del Don. Da una parte il treno, la tradotta, tra-duco, vado chissà dove; il ritorno - il n6stos, c'è anche questa ironia, di solito l'ironia tranquillizza, invece qui diventa angosciosa - c'è la figura del bruco e il ritorno a cavallo del bruco, e dietro non c'è assolutamente nulla.
Moda: BeniaminSitQ,mHeleidegger Walter Benjamin Parigi capitale del XIX secolo A cura di Giorgio Agamben Torino, Einaudi, 1986 pp. 1110, lire 100.000 N ei suoi scritti raccolti nel volume curato da Rolf Tiedemann Das Passagen Werk, ed edito in italiano a cura di Giorgio Agamben con il titolo Parigi, capitale del XIX secolo, Walter Benjamin rintraccia l'immagine del passaggio come maschera dello spazio, in frammenti di costume, segni della scultura, tracce del pensiero, sulla scena di un mondo, quale quello della fine del moderno, il cui destino è proprio il transito perenne, il movimento come passaggio e mutazione. Passaggio letterale: Benjamin scruta i passages parigini, la figura delflaneur, e la moda, luogo quest'ultimo di «scambio dialettico fra donna e merce - fra piacere e cadavere» (p. 105). Benjamin coglie l'essenza della moda, così come si manifesta nello stesso cosmo e territorio di cui scriveva Proust, nel suo «alludere a un corpo che non conoscerà mai la nudità completa» (p. 111). Sono noti i riferimenti del narratore proustiano all'eleganza femminile; valga, tra le tante, una delle descrizioni di Odette: «[... ] e quanto al corpo, che era fatto stupendamente, era difficile coglierne la continuazione (per effetto della moda del tempo, e benché Odette fossè una delle donne meglio vestite di Parigi), a tal punto il busto, sporgendo ad aggetto come su un ventre immaginario e terminando bruscamente a punta mentre al di sotto cominciava a gonfiarsi il pallone delle doppie sottane, dava l'impressione che la donna fosse composta di pezzi diversi male infilati l'uno dentro l'altro» (Alla ricerca del tempo perduto, voi. I: Dalla parte di Swann, tr. di G. Raboni, a cura di L. De Maria, - Milano, Mondadori, 1983, pp. 240-1). Il corpo incarnato sulla scena della moda è un corpo sostituibile, fatto a pezzetti, è un'architettura la cui composizione non è mai stabile. Edificio mobile, registra l'ambiguità del desiderio: mai interamente «natura», mai freddamente «tecnica», questo corpo è automa e pelle, rigore meccanico ed ebbrezza erotica. L'architettura meccanica che la moda celebra edifica un corpo ideale come quello della mannequin, ieratica forma pura, preconizzata forse dalla figura benjaminiana della ciclista nei manifesti ottocenteschi alla Chéret (p. 104), o dalle bambolemanichino che servirono, fin dai secoli XVII e XVIII a diffondere le creazioni della moda parigina (pp. 876-7). Nel corpo della mannequin Barthes individuava un paradosso strutturale: il suo essere da un lato istituzione astratta e dall'altro corpo individuale, ricalcando in questa opposizione lo statuto del linguaggio e della sua articolazione in langue e parole. Così, il corpo della ciclista pioniera si muove, letteralmente, tra l'istanza meccanica della velocità incommensurabile al passo umano e la dimensione onirica, infantile, della prefigurazione del futuro abbigliamento sportivo (p. 104). Ne risulta una buffa lotta fra una mise che imita ideali tradizionali di eleganza e questi stessi ideali; la scena è un po' la stessa di quella delle prime auto che imitavano le ultime carrozze: «Il risultato di questa lotta è quella venatura di sadica ostinazione che la rese [la ciclista] così provocante per l'universo maschile di quegli anni» (ibidem). Nel paradosso che ha come protagonisti da un lato il corpo come forma pura, come automa di cui è impossibile la morte, e dall'altro il corpo con le sue scansioni sessuate, con le sue aperture fatte di pieghe, di incisioni, di abiti come segni del rapporto fra corpi e fra il corpo e il mondo, si ritrovano apparentate moda e morte. Nella moda il corpo si struttura nel succedersi delle sue apparenze, né soltanto maschera né nudità da scorticato: piuttosto metamorfosi. E la mutevolezza perenne che l'abito regala al corpo è dalla parte della carnevalizzazione, dell'alternanza, dell'imprecisione dei caratteri, contaminate con la tipizzazione e l'individuazione proprie della moda. Ironia sulla morte. Scrive . Benjamin: «Poiché la moda non è mai stata nient'altro che la parodia del cadavere screziato, la provocazione della morte attraverso la donna e un amaro dialogo sottovoce con la putrefazione, fra stridule risate meccanicamente ripetute» (p. 105). La moda uccide il tempo lineare, cumulativo, fatto di scansioni ben allineate, e vi sostituisce un tempo, come direbbe Barthes, «ucronico», realizza un'utopia del tempo in cui si alternano anticipazioni e r~vival. Prerogativa della moda in rapporto alla «modernità» è la sua possibilità di offrire, nell'anticipazione temporale e nei ritmi vorticosi delle sue stagioni, l'eccezione come abitudine, l'eccesso come dimensione del quotidiano, «l'ultima novità, ma solo laddove emerga nel medio del più antico, del già stato, dell'abituale» (p. 106). Simmel, nel suo saggio del 1895 sulla moda, ha parlato del contrasto, tipico tra imitazione e innovazione, del «diritto all'infedeltà nei suoi confronti» che la moda decreta, esibendosi così sin nel suo statuto come paradosso. L'imitazione parodizza la ripetizione, perché il modello che ritorna non si riproduce staticamente, ma si reinterpreta, alla luce della «contemporaneità». L'innovazione tende a circolo la linea del progresso, e la. moda può così costituirsi nella modernità, come scrive Benjamin, come «colei che precorre il surrealismo», anzi come «colei che gli prepara eternamente il terreno» (p. 107). Il «surrealismo» si celebra come maschera del moderno, che attraverso la legittimazione sociale della moda penetra nel quotidiano, sotto la forma di un'avventura onirica in cui il fascino dell'eccézionale, dell'assurdo, dell'ignoto, si colora di già visto. Con in più l'emozione dell'ornamento, cioè dell'inessenziale, del superficiale, in cui la sostanza, lo Stoff del significato, può tutt'al più divenire stoffa, tessuto come testo di cultura. L a moda contemporanea porta a compimento la sua funzione di vestale del surrealismo, nel senso di surreale sotto gli occhi di tutti, di vita quotidiana come «fantastico mélange di finzione e valori strani», come sostiene, nell'intervista pubblicata sul n. 62 di «Autrement» (1984), il giovane stilista americano trapiantato a Parigi Billy Boy. Consuetudine della strada dove perfino i contrasti sociali o l'indistinzione sessuale si presentano come immagini banali, casuali, tanto «già viste» da diventare troppo reali. La moda di strada coglie oggi l'essenza di questo surreale-iperreale: da un lato essa è eccesso, ricerca, sovrapposizione di tempi e di stili, esagerazione del corpo; dall'altro è invece casualità, banalità, immagine stanca e ripetitiva. Il video Thriller, ormai classico caposaldo di genere, ben esprime questa visione: il corpo è deformato, imbruttito fino all'orrore; l'urlo e la danza generano, in una straordinaria inversione carnevalesca di «moderno» e «primitivo», di bello e di brutto, di comico e spaventoso, una moda che è tecnologia di scena, gesto del confondere e dell'invertire, richiamo alla strada di notte come luogo dove la casualità può trasformarsi in eccesso. li casual serviva ancora, in qualche modo, a rivestire un corpo produttivo, funzionale; ma la sovrabbondanza delle forme e degli stessi accoppiamenti «casuali» di strada segna un oltrepassamento della ripartizione della moda per tempi e per luoghi, per ufficialità o per rifiuti. È come se la moda fosse arrivata a un punto, nella sua storia per immagini, in cui si è verificato un precipitare della situazione, ma in cui il passaggio non è ad un contrario o a una distruzione del passato secondo un'evoluzione ancora lineare, ma ad uno stato in cui tutto va bene, purché esageri, o comunque enunci a chiare lettere le sue citazioni e i propri racconti. Nei Vier Seminare Heidegger richiama il fenomeno della moda contemporanea come esempio di sostituibilità, in cui «non sono più essenziali la toilette e l'ornamento [... ], ma la sostituibilità del modello di stagione in stagione». La sostituibilità è diventata, secondo questa ipotesi di Heidegger, forma dell'essere, dal momento che l'abito non risponde più a quella che possiamo definire funzione pratica, ma risponde al carattere specifico di essere «la veste del momento in attesa del prossimo». L'ucronia e la velocità di moda modificano, insieme all'immagine del tempo, anche quella del corpo. I ritmi dell'anticipazione, il fascino del momento, la «cronomatica» cui appartiene la moda, contribuiscono a creare un corpo istantaneo, la cui sostituibilità frammentaria soppianta l'usura e l'invecchiamento. Al corpo piegato, aggrinzito, appesantito, si sostituisce un corpo smembrato, sminuzzato, a cui la moda regala, nell'estasi dell'attimo, raddrizzamenti, stirature, appiattimenti, rassodamenti. Quanto afferma Heidegger a proposito dell'inattualità dell'ornamento e della toiJette in moda può essere proprio inteso come dominio dell'attualità frammentaria di un corpo che vive sempre sulla soglia del prossimo pezzo da mutare, nell'attesa perenne di una sostituzione. Attesa estatica, non storica, che fa del frammento l'essenza, e che ingigantisce la minuzia e il particolare, a scapito dell'intero e dell'universale. Benjamin cita Helen Grund (Vom Wesen der Mode, 1935), che constata come la moda, pur «contraria al senso», si sia oggi assunta «il ruolo di madre natura» (p. 117). Il corpo artificiale è dunque corpo «naturale». I segni della sua presenza nel mondo sono oggi segni in cui vige la regola della sovrapposizione, del contrasto, della rivisitazione della natura attraverso il trucco e la tecnica, contemporanei alla simulazione del «naturale». Si può «scrivere» il corpo con l'artificio e la stanchezza, con il maquillage e le rughe, con l'abbronzatura e i segni del costume; si può giocare con la trascuratezza, levigare un volto inciso, mascherare da naturali due folte sopracciglia. La logica della moda che vuole che l'abito sia, come dice Heidegger, «la veste del momento in attesa del prossimo», allora, non è soltanto e semplicemente la meccanica ripetizione di un gioco che ha dimenticato l'ornamento. Non è il privilegio della tecnica rispetto all'estetica, ma piuttosto il costituirsi dell'ornamento come tecnica del gusto, gioco dell'eleganza. Come la metafora nel linguaggio vive tra gioco linguistico e gusto dell'enfasi, così il corpo di moda si insinua nel differimento tra meccanica rituale della sostituibilità ed eccezione dell'istante, irripetibilità di quell'attimo di cui s'attende il prossimo. Nella impossibilità a ripetere, pur celebrata dall'assoluta riproducibilità, la moda incontra ancora una volta la sua dimensione mortifera, a cui s'accompagna uno strano gioco di seduzioni o avversioni incontrollabili: il passato prossimo, la moda della generazione appena trascorsa, risulta così essere spesso, come scrive Benjamin, «il più potente antiafrodisiaco che si possa immaginare» (p. 124). Secondo Benjamin: «In ogni moda è contenuto un tratto aspramente satirico nei confronti dell'amore, in ogni moda sono virtualmente presenti perversioni nella forma più sfrontata. Ogni moda è in conflitto con l'organico. Ogni moda accoppia il corpo vivente al corpo inorganico. Nei confronti del vivente la moda fa valere i diritti del cadavere» (ibidem). Il feticismo sarebbe allora, secondo Benjamin, il nervo vitale da cui trae alimento la moda, nella sua prerogativa di carpire all'inorganico la forza di sezionare corpi e apparentarli all'inanimato. Tuttavia, questa natura devitalizzata che è l'anima del feticismo e che pervadeva il fenomeno della moda nella «modernità», si trasfigura oggi in una sorta di orizzonte mitico a cui la moda guarda con ironia, a cui ammicca nel suo ostentare, insieme ai suoi «contenuti», anche e soprattutto le storie che narrano, e i meccanismi che regolano, il suo statuto. Nel suo statuto «classico» la moda esprimeva bene la tensione fondamentale che alimenta la vita umana, individuata da Simmel nella dualità delle forze da cui la moda trae vita: imitazione e innovazione. La moda rispondeva anche all'esigenza dialettica, espressa da Benjamin, • di inserire il nuovo nello spazio simbolico, accendendo al tempo stesso «la miccia del materiale esplosivo riposto nel passato» (p. 512). Prerogativa, questa, tipica dell'infanzia, del bambino che fruga tra le pieghe dei vecchi vestiti della madre (ibidem). La forza della moda era allora quella di inserire queste «vecchie storie», questo passato caduto nell'oblio, entro una dimensione collettiva, dando corpo alla reminiscenza, che fa soccombere il singolo - come è accaduto, dice Benjamin, a Proust - e trasfigurandola, per l'appunto, in «correnti», «mode», «tendenze» (p. 514). Come sottolinea Agamben nella Avvertenza editoriale preposta al volume, «l'astuzia e l'ironia del risveglio consistono nel suo attestarsi proprio attraverso il ricordo del sogno da cui ci si desta»; allo stesso modo, «nel libro, il luogo in cui la cultura europea si risveglia è l'immagine stessa del proprio passato più recente: il XIX secolo» (pp. VII-VIII). Oggi le «vecchie storie» raccontano se stesse, fanno trasparire i fili delle loro trame, le tecniche 'O della loro edificazione, i trucchi e c::s .s gli imbrogli delle loro finzioni. La g:i moda si trascina dietro tutto il suo ~ " passato, facendoci sopra della sapiente ironia. Se, con Benjamin, è possibile - nella moda, nella pubblicità, negli edifici, nella politica - «interpretare il XIX secolo come ~ ..... ~ j j la sequenza delle sue visioni oniriche» (p. 509), oggi la moda ci offre uno sguardo sul mondo e del mon- ~ do come parodia di quelle stesse ~ visioni, passaggio perenne, pre- ti ,senza che si fa transito. L'ultima ~ disincantata mutazione della ma- l schera. ~
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==